In rete, nello spazio www.sfi.it,
potete scaricare gratuitamente una rivista di didattica della filosofia dal
titolo “Comunicazione filosofica”. Nell’ultimo numero (39) è ospitata anche una
mia RECENSIONE a
Davide Miccione (a
cura di), Manlio Sgalambro. Breve invito
all’opera, Lettere da Qalat, Caltagirone (Catania) 2017, pp. 197, euro
15,00.
Quel poco che conoscevo di Manlio Sgalambro non mi
aveva stuzzicato il desiderio di saperne di più. Ma l’incontro con questo bel
libro a quattro firme (Manlio Sgalambro.
Breve invito all’opera, a cura di Davide Miccione, Lettere da Qalat,
Caltagirone 2017, pp. 197, euro 15,00) mi ha indotto a cambiare idea e a
constatare che, davvero, ora che è morto, “tra i tanti esemplari umani ormai
riducibili a pochi tipi, e noiosamente ritornanti sul proscenio del presente,
Sgalambro spicca sempre di più” (p. 8).
Il primo
capitolo, di Davide Miccione, è dedicato a I
molti nomi del filosofo o, come spiega meglio il sottotitolo, a delineare La figura del pensatore in Manlio Sgalambro.
Più che in positivo, tale figura viene ricavata in negativo, sulla base delle
idiosincrasie del pensatore siciliano: non è un accademico né un docente di
scuola dal momento che – secondo la sintesi efficace di Miccione – per
Sgalambro “lo spirito soffia dove vuole, ma non in un’aula” (p. 30); non è un erudito (“In filosofia non è ammessa
‘cultura’. Il corpo a corpo con lo spirito è un’altra cosa. Cultura è ciò che
resta dopo che lo spirito se ne è andato”, p. 31); vive appartato e solitario;
pericoloso per l’uomo comune almeno quanto l’uomo comune lo è per il filosofo; dedito
a un sapere che - del tutto
controcorrente – è “luogo delle certezze e non dei dubbi, della chiusura nel
sistema come forma ideale, del rifiuto di una storia della filosofia, del
rifiuto dell’ermeneutica, insomma del rifiuto di tutte quelle dimensioni che
possono permetterci di articolare la convivenza tra filosofie diverse senza
postulare che ve ne possa essere solo una” (p. 36). Il filosofo è “chierico”
(p. 38), “teologo” (p. 40) sia pure di una religione empia, “conoscitore” e “avventuriero” (p. 44), “scrittore di
filosofia” o, per essere più precisi,
dell’ “opera filosofica” (p. 48).
Ma quali
sono i contenuti precipui di quest’opera filosofica sgalambriana ? Nel suo
saggio Manlio Sgalambro: pessimismo e
misoteismo Salvatore Ivan D’Agostino individua due principali linee teoretiche:
“il pessimismo di derivazione schopenhaueriana” (p. 51) e l’ “odio per Dio” (p. 61) che è spesso “una
reazione emozionale alla sindrome di Stoccolma religiosa secondo la quale siamo
costretti più o meno consapevolmente ad amare l’essere (supposto) che ci tiene
in miseria, ci fa soffrire ed alla fine immancabilmente ci uccide” (p. 76). Da
queste due matrici si generano diversi frutti, più o meno avvelenati, tra cui
l’ “antinatalismo” (per usare l’etichetta di David Benatar) o, più
semplicemente, la tesi che non nascere è da ogni punto di vista preferibile a
nascere.
Sgalambro
ha affidato la sua filosofia anche alle composizioni in versi: di queste si
occupa, con fine erudizione, Giovanni
Miraglia nel suo Caravanserraglio
d’argomenti. Manlio Sgalambro o della impoesia.
Al suo sguardo il pensatore di Lentini appare come un antico greco per il quale
“non v’erano precisi confini tra pensiero astratto, scienza, musica e
letteratura” (p. 85). Ma se allora la poesia poteva aspirare a una funzione
religiosa o civica, Sgalambro si dedica invece a sopprimere ogni “funzione
salvifica” , “in primis per mezzo
dell’ironia” (p. 91). Un’ironia che giunge dalle “lande teutoniche, forgiata
nella fucina romantica e idealistica” e avente “il suo perno nel comico come
frutto della contraddizione” o, per dirla con Kant, “il dissolversi nel nulla
di un’attesa vivissima” (p. 94). Miraglia ripercorre con dovizia di
collegamenti le “quattro stazioni” in cui è “scandito il cammino impoetico di Manlio Sgalambro” (p.83):
ma , in questa sede, non possiamo che rimandare alle sue pagine così dotte.
Il quarto e
ultimo saggio del volume (Un cavaliere
dell’intelletto: Manlio Sgalambro), di Cosimo Cucinotta, esamina il testo
del libretto di un’opera lirica – Il
cavaliere dell’intelletto, appunto -
dedicata a Federico II, nell’ottavo centenario della nascita, che il
filosofo siciliano scrisse per Franco Battiato. La figura del sovrano
svevo-normanno che emerge è complessa almeno come pare sia stata storicamente:
“si dichiara consapevole della natura della Verità, una natura effimera e
leggera come quella di una cortigiana, che i ragionamenti del filosofo possono
solo corteggiare, laddove l’autorità imperiale la possiede totalmente, poiché
essa è cosa da re non da filosofo” (pp. 109 – 110). Sul finire dell’opera,
Federico II proclama il “suo messaggio estremo: tra il nascere e il morire – i
soli momenti reali – si svolge un sogno ininterrotto da qualche brivido di
veglia. Ogni sua azione non è stata altro che un gesto vuoto e senza significato,
un guscio arido. L’eroe che ha sempre creduto di agire comprende, rimasto solo
sulla scena, che anche l’azione evapora nel nulla e che non gli è stato dato
altro destino che non fosse la consapevolezza estrema di essersi vanamente
agitato. Il suo impero è stato anch’esso un sogno, destinato a cadere in
rovina, un progetto nel cui divenire si occultava la morte e di cui sopravvivono solo le parole friabili di
cui era fatto: solo le parole restano” (pp. 123 – 124).
Augusto
Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
La conclusione mi fa pensare al Riccardo III di Shakespeare:"Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni"
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