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Nell'ultimo numero (ottobre 2017) ha ospitato, fra altri contributi, questa mia presentazione di un recente volume del vescovo episcopaliano John S, Spong. Il titolo redazionale è Aporie della dottrina e verità del cristianesimo.
Nel
numero Monoteismi e dialogo di
“Dialoghi Mediterranei” (disponibile anche in cartaceo presso l’Istituto
Euroarabo di Mazara del Vallo, Mazara del Vallo 2017, pp. 219) alcuni di noi
abbiamo sottolineato la necessità imprescindibile di un’autocritica (teologica
e non solo storico-pratica) da parte delle grandi tradizioni monoteistiche ai
fini di un possibile dialogo costruttivo.
Mi pare
importante aggiungere che quest’opera di revisione, anche radicale, delle
traduzioni dottrinarie della fede in un Dio unico è anche ai nostri giorni in
corso: anzi, ai nostri giorni in una misura del tutto inedita rispetto ai
secoli precedenti (dove pure i grandi pensatori hanno sempre cercato di rendere
comprensibile ai propri contemporanei il nocciolo del messaggio religioso
tramandato). Tale impresa, coraggiosa perché rischiosa, viene portata avanti da
ebrei e cristiani più che in ambito islamico. E qui vorrei segnalare un
episodio attuale e istruttivo che riguarda la tradizione cristiana cui, se non
altro anagraficamente, appartengo.
Quando
lessi i primi libri di teologia, nella seconda metà del secolo scorso, li
trovai estremamente noiosi. Si partiva da tesi dogmatiche (formulate come
indiscutibilmente certe dal magistero cattolico) e se ne ricercava, più o meno
forzatamente, la legittimazione sia nella Scrittura che nella Tradizione
ecclesiale. Più animate le pagine dei teologi protestanti che preferivano,
soprattutto da Barth in poi, partire dalle inquietudini esistenziali diffuse
per arrivare alle risposte bibliche: comunque, in genere, anche queste
narrazioni avevano l’happy end assicurato.
La situazione è mutata considerevolmente negli ultimi decenni. Sono sempre più
frequenti i teologi che navigano a vista, senza sapere in partenza dove è
previsto – anzi obbligatorio – approdare. Certo, in questi casi, le chiese
stentano a riconoscerli come teologi: se così vogliamo continuare a chiamarli,
dobbiamo pensare alla teologia di Aristotele o di Plotino, di Cartesio o di
Schelling, più che alla teologia di Tommaso d’Aquino o di Hans Urs von Balthasar.
Sono infatti pensatori senza vincoli prestabiliti e senza reti protettive, più
simili a filosofi che ad avvocati delle ortodossie.
Tra
questi nuovi teologi-filosofi va annoverato senz’altro il vescovo episcopaliano
John S. Spong, autore di Un cristianesimo
nuovo per un mondo nuovo. Perché muore la fede tradizionale e come ne nasce una
nuova, a cura di don Ferdinando Sudati, Massari, Bolsena (VT) 2010, pp. 367,
euro 15,00. Sulla scia di Dietrich Bonhoeffer e soprattutto di John Arthur Thomas
Robinson (autore di Honest to God del
1963, tradotto due anni dopo in italiano col titolo Dio non è così dalla Vallecchi di Firenze) egli parte da una
confessione personale che è anche l’enunciazione a voce alta di ciò che milioni
di cristiani pensano e non hanno il coraggio – o semplicemente la voglia – di
ammettere (neppure davanti a sé stessi): che la dottrina cristiana, così come
si è andata configurando dai testi neo-testamentari a oggi, non regge al
confronto con tutto ciò che le scienze naturali e umane sanno sul mondo e sulla
struttura antropologica.
I
punti che Spong ritiene inaccettabili (e, di fatto, sociologicamente inaccettati)
sono molteplici: “una divinità che può aiutare una nazione a vincere una
guerra, intervenire a curare una persona amata” (p. 33); “Gesù come
l’incarnazione terrena di questa divinità soprannaturale” e, in quanto tale,
possessore di “tanto potere divino da fare cose miracolose come placare la
tempesta, scacciare i demoni, camminare sull’acqua o moltiplicare cinque pani”
(p. 34); la Pasqua come “resurrezione fisica del corpo di Gesù morto da tre
giorni” (p. 35); la fondazione, da parte di Gesù, di “una gerarchia
ecclesiastica iniziata con i dodici apostoli” e perdurante “fino ai nostri
giorni”; la nascita degli esseri umani “nel peccato” sì che, “a meno di essere
battezzati o in qualche modo salvati, verranno banditi per sempre dalla
presenza di Dio” (p. 36);”la tradizionale esclusione ecclesiastica delle donne
dalle posizioni di comando” che costituisce “non una tradizione sacra, ma una
manifestazione del peccato di patriarcato”; la convinzione che “le persone
omosessuali siano anormali, malate mentali o moralmente depravate” (p. 37); la
tesi che “tutta l’etica cristiana sia stata scolpita su tavole di pietra o
nelle pagine delle Scritture cristiane e quindi definita una volta per sempre”
(p. 38) ; la ricezione della Bibbia come “parola di Dio” in senso letterale o,
comunque, “la sorgente primaria della rivelazione divina” (p. 39).
Mostrare in
che modo il rifiuto intellettuale di
tutti questi punti della dottrina cristiana possa essere compatibile con
l’autocoscienza dell’autore - che si qualifica “prima di tutto e principalmente
come un credente cristiano”, la cui “vita personale” ha “ricevuto un’impronta
intensa e decisiva non solo dalla vita di Gesù, ma anche dalla sua morte e
certamente dall’esperienza pasquale che i cristiani conoscono come
risurrezione” (p. 33) - costituirebbe un
compito eccessivo nei limiti di una semplice recensione. E, per giunta, un
compito più teologico che filosofico.
Di rilevanza
teoretica mi pare, piuttosto, il primo di questo elenco di punti che, anche
nella prospettiva di Spong, ne costituisce il fondamento e la chiave
interpretativa: il rifiuto del teismo, ossia di Dio inteso come “un essere con
potere soprannaturale, che dimora al di fuori di questo mondo e che invade il
mondo periodicamente per realizzare la sua divina volontà” (p. 58). Egli
contesta l’antropomorfizzazione del divino, concepito come un Ente supremo che
domina da sovrano gli enti inferiori; e lamenta il fatto che, almeno in
Occidente, l’identificazione di questo Dio antropomorfo (teistico) con l’unico vero Dio fa sì che
“una posizione non teista è ampiamente considerata, almeno negli ambienti
religiosi, come una posizione atea” (p. 62). Appellandosi a Nietzsche, e
soprattutto ai “teologi della morte di Dio” degli anni Sessanta del XX secolo
(Thomas J. J. Altizer, Wiliam Hamilton, Paul Van Buren), Spong ritiene che la
fine del teismo costituisca non tanto la morte di Dio, quanto la morte di una
certa “definizione umana” di Dio (p. 89) concepito come “un potente alleato
divino nella ricerca della sopravvivenza e nel processo sia di dare uno scopo
all’esistenza sia di trovare un significato alla vita umana” (p. 95).
Quando passa
dalla pars destruens alla pars costruens , a mio avviso, l’autore
oscilla equivocamente su due posizioni. In certi passaggi sembrerebbe che egli
sposi una visione panteistica in cui Dio – o meglio la divinità – non sia nient’altro che la natura, la forza
evolutiva dell’universo, rivelantesi esclusivamente
“nell’io che sta emergendo come coscienza in espansione” (p. 101). In altri
passaggi questo immanentismo, sottilmente antropocentrico (e in quanto tale -
almeno ai miei occhi - poco convincente), sembra spezzarsi per aprirsi alla
possibilità che Dio, o il divino, sia anche
immanente ma non solo tale: “non potrebbe la nostra sempre maggiore
autocoscienza permetterci di entrare in rapporto con ciò su cui il nostro
essere è fondato, che è più di ciò che siamo, ma anche parte di ciò che siamo?
Non potremmo cominciare a intravedere una trascendenza che entra nella nostra
vita, ma che ci chiama anche oltre i limiti della nostra umanità, non verso un
essere esterno ma verso il Fondamento di tutto l’essere, compreso il nostro,
una trascendenza che ci chiama verso una nuova umanità?” (ivi).
La domanda sulla possibile trascendenza divina è
legata a doppio filo alla domanda sulla sua personalità. Se è vera la prospettiva
immanentistico-panteistica, allora va eliminata senza rimpianti “la ricerca di
un essere soprannaturale che ci faccia da genitore, che si prenda cura di noi,
vigili su di noi e ci protegga” (ivi). Ma se Dio, pur essendo intimo a ogni
atomo, fosse un Logos che raccoglie i frammenti e li convoglia secondo un
progetto irriducibile alla loro somma matematica, perché escludere che possa
relazionarsi in qualche modo con ciascun frammento? Indubbiamente non si può
pensare Dio come una persona umana e neppure come un Super-uomo; indubbiamente
si devono abbandonare “quei modelli servili del nostro passato con i quali
abbiamo cercato di piacere alla divinità teistica nei primi anni della storia
evolutiva” (ivi). Ma ciò implica l’impossibilità di ammettere che, in modalità
assolutamente inconcepibili per la mente umana, in un Dio “sorgente della
vita”, “sorgente dell’amore” e “Fondamento dell’essere” (p. 125) , ci sia
qualcosa che assomigli a una Soggettività, a una Consapevolezza, a una
Responsabilità? Perché, invece di negare alla Fonte ciò che troviamo nei
miliardi di rivoli autocoscienti, non ipotizzare che in essa la Coscienza si
sperimenti a un grado sommo e dunque ineffabile? Se la dimensione personale è
solo un’illusione (come sostengono i buddhismi), è logico supporre che
l’Assoluto ne sia privo; ma se fosse una ricchezza, un privilegio sia pur
oneroso, perché negare al Tutto ciò che constatiamo in alcune parti? Perché
l’infinitamente piccolo potrebbe pensare - e cercare il rapporto con –
l’infinitamente grande, ma non anche l’inverso? Insomma: la critica
all’antropomorfismo non ha come esiti esclusivi l’ateismo e il panteismo. C’è
anche un apofatismo talmente rigoroso da non escludere neppure una qualche
trascendenza del Fondamento rispetto al fondato. A patto, però, che questa
trascendenza non la si immagini spazialmente come ‘sopra’ e ‘lontana’, ma – al
di là di ogni immagine - ontologicamente come ‘altra’. Dio è l’Al di là di
tutto, d’accordo, come “la sorgente e il fondamento di tutto. Ma è precisamente perciò che vi è al fondo di
ogni essere in quanto essere, e più in particolare di ogni spirito in quanto
spirito, un’intima affinità con Lui – non rappresentabile, non esprimibile in
concetti proporzionati – che assicura alle nostre affermazioni su Dio il
sovrappiù di significato necessario alla loro verità” (J. de Finance, Au-delà de tout. Per un Dio senza
antropomorfismi, a cura di A. Cavadi, Ila Palma, Palermo 1984, pp. 51 –
52). In una simile prospettiva saremmo certamente oltre un dualismo ingenuo che
contrappone l’Essere e gli enti come se fossero complanari; saremmo oltre “una
divinità teistica esterna” raffigurata come un “divino babbo Natale” o un “celestiale Signor Aggiustatutto” (p.
126); ma non saremmo al di là della possibilità di rivolgerci a un Tu pur
sapendo che fruisce di uno statuto ontologico irriducibile a ogni ipotetico
“io” umano.
Se si supera
il teismo in questa direzione apofatica – e non di un anonimo panteismo
immanentistico – resta la questione del male, delle sofferenze inutili, del
dolore innocente: perché un Dio-Soggetto permette l’oceano sconfinato di
tragedie di cui è costellata l’evoluzione universale? E’ questa, a mio parere,
la radice esistenziale dei dubbi teoretici sulla configurazione, sia pur
analogamente, personale dell’Assoluto. Forse è preferibile tenere aperta questa
domanda angosciante anziché affrettarsi a dichiararla inconsistente in un
orizzonte di stampo spinoziano in cui propriamente sparisce ogni differenza fra
bene e male.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
2 commenti:
Considero un gioiello di riflessione il testo e le tue utilissime chiose: un utile, sintetico compendio del crocevia a cui approdano gli interrogativi esistenziali e teologici, senza il paracadute dei dogmi. Grazie.
Bravo Augusto, devo rileggerlo ancora.
Tra le stimolanti proposte descritte, alternative all'attuale, stantio e preagonico teismo cristiano, ne rischierei un'ulteriore, che battezzerei come "trascendenza atea", una dimensione altra rispetto all’immanenza che, pur affrontando un livello "esterno, superiore e incommensurabile", evita ogni potenziale trappola teistica, consolatoria e onnicomprensiva ma insufficiente e insostenibile. Si azzarderebbe una sorta di ontologia a strati, che non postulerebbe alcun Dio o creatore o autore, ma che salverebbe una qualche modalità di relazione, che non oso proporre, e la "conseguente" Verità. Temo si oltrepasserebbero i limiti della nostra misera logica (con cui peraltro, sopra si sono criticati gli attuali limiti e disastri teistici), per sfociare probabilmente in un’esaustiva, assoluta e insensata, ahinoi, Necessità.
Ciao e grazie, Guido
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