“Centonove”
29.6.2017
SCLEROSI MULTIPLA, UN PRETE MALATO PARLA CON DIO
Se un
cattolico si ammala di SLA può ricorrere per aiuto a un prete. Ma se ad
ammalarsi è un prete? Verso il monte
degli ulivi. Un prete malato parla con Dio (Litostampa Istituto Grafico,
Bergamo 2016), di don Roberto Pennati, è la toccante testimonianza di un
presbitero attivo anche nel sociale che, da più di vent’anni, fa i conti con una malattia degenerativa che,
lentamente ma implacabilmente, gli ruba – mese dopo mese – brandelli di
autonomia fisica.
Ovviamente
anche per lui le domande teologico-speculative astratte sull’origine e il senso
della sofferenza umana sono diventate interrogativi angoscianti che mordono la
“carne” e non lasciano tregua né di giorno né di notte. L’autore, sin dai primi
tempi della diagnosi infausta, cerca risposte nella Bibbia e negli scritti di
teologi e filosofi d’ogni tempo. Ma invano. Romano Guardini risponde: “Nessuna
teologia riuscirà mai a spiegare il male, la sofferenza e il dolore degli innocenti”
(p. 87). E Karl Rahner, incalza: “L’incomprensibilità del male e del dolore è
un aspetto della incomprensibilità di Dio” (ivi).
Se le vie
della ricerca teoretica sembrano portare, secondo un testo del filosofo Carlo
Sini, a un silenzio non “di questa o
quella parola; piuttosto il silenzio stesso della parola e di ogni parola” (p.
143), non resta che battere i sentieri della pratica, dell’operatività, della
solidarietà umana. Così don Roberto si fa accompagnare ad Auschwitz, poi a Lourdes;
presta, come può, il servizio presbiterale ad associazioni di malati come lui;
cerca di aprire orecchie e occhi al rantolo di dolore che si leva, senza un
momento di tregua, dalla faccia della Terra. Così egli impara a relativizzare
la propria condizione, a capire che la sua sofferenza – per quanto grave – non
è la peggiore possibile. Trova la medicina definitiva? No di certo. Ma
sperimenta sollievo bevendo un cocktail ,
suggerito da un “padre del deserto”, composto pestando “nel mortaio della misericordia”
“il fiore dell’amore fraterno, la foglia dell’amore ai poveri, il frutto
dell’umiltà” (p. 146).
L’autore sa
bene che, nonostante una bimillenaria tradizione dolorista, è una bestemmia
sostenere che la sofferenza viene mandata da Dio per punire i peccatori o per
migliorare i santi. L’esperienza così personale e così coinvolgente lo libera
dal “Dio tappabuchi” (Bonhoeffer) e gli apre prospettive di fede inedite, se
pur ardue. Dal pastore protestante assassinato dal nazismo per aver tentato una
congiura contro Hitler impara a pensare diversamente: “Il Signore non salva dalla sofferenza, ma
nella sofferenza; protegge non dal dolore, ma nel dolore; ci difende non dalla
morte, ma nella morte” (p. 134).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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