“Centonove”
8.6.2017
QUANDO LA FEDE E’ RIVOLUZIONARIA
“Fede e
rivoluzione. Un manifesto” (Edizioni Paoline, 2017, pp. 192, euro 14,00) è
l’ultimo dei diciassette libri della collana “Crocevia” che Marco Guzzi ha dedicato alla sua proposta
teorico-pratica di intrecciare una “fede
rivoluzionaria” e una “rivoluzione spirituale”
(p. 122).
Dico subito che, forse a differenza di ciò che ritiene
l’autore, non è un libro per tutti: chi non condivida la prospettiva cristiana,
sia pur in maniera critica, può trarne giovamento solo occasionalmente,
cogliendo qua e là spunti sparsi. L’asse portante della proposta è infatti
dichiarato con onestà intellettuale sin dalle prime pagine: la fede è “il
presupposto umano del progressivo rivelarsi storico della verità, e di ogni
verità” (p. 11); “questa fede, in cui tutti ci muoviamo, anche se non ci
crediamo, in quanto è l’apertura di senso, il linguaggio, in cui oggi
si dà il mondo, è la fede del Figlio,
la fede che il Figlio di Dio, Gesù Cristo, ci ha rivelato, e cui facciamo tanta
fatica a credere” (p. 12).
In nome e in forza di questa fede è possibile, anzi
nel XXI secolo necessaria e urgente, una “Grande
Riforma” (p. 15) che sia, simultaneamente, “una radicale riforma del cristianesimo” e “una riformulazione ancora più radicale dell’intero pensiero politico
occidentale” (p. 124). Tre le tappe di realizzazione di tale progetto. La
prima: “comprendere molto meglio la fase
storico-collettiva che stiamo vivendo” (p. 135), caratterizzata dalla crisi dell’ego avaro e bellicoso e dall’emergere
di un io meno concentrato sui beni materiali e più aperto alla relazionalità.
Dopo la mossa culturale, il “secondo
elemento formativo” è di impronta psicologica (o psicoterapeutica in senso
alto): “riconoscere con cura e con pazienza tutti i serbatoi di odio, di
rabbia, di vergogna, di paura e di disperazione che alimentiamo ancora nelle
nostre profondità” . Infatti “le forze distruttive dell’anima non si curano
reprimendole o negandole, né tantomeno mascherandole sotto spessi strati di
ipocrisia, ma solo lasciandole emergere alla luce di una coscienza benevola e creatrice, capace di utilizzare in modo
costruttivo anche i nostri fuochi più furenti” (p. 139). “Questi primi due
elementi formativi non potrebbero però funzionare se non sviluppassimo un terzo elemento formativo che in
realtà è il primo, anzi è il centro di tutto il lavoro, cioè la pratica della meditazione e della
preghiera” (p. 143).
Questa breve
sintesi non è sufficiente a restituire la ricchezza articolata del “manifesto”
di Guzzi, il quale – a mio modesto avviso – presta il fianco, però, ad almeno tre generi di riserve. Il filosofo troverà
deludente l’argomento principale con cui l’autore scarta le visioni del mondo
alternative alla religione cristiana. In sostanza egli sostiene che conviene
credere in Dio perché, se fosse vero l’ateismo, saremmo costretti a
sprofondare, disperati, nel nichilismo. Per certi versi (solo per certi versi)
il bivio potrebbe essere o Tutto o nulla: ma non può essere l’angoscia davanti
al nulla a farci optare per il Tutto. O ci sono dei dati oggettivi a favore di
un Senso assoluto o è più onesto intellettualmente accettare, con coraggio, il
Non-senso assoluto. Anche il teologo cristiano potrebbe avanzare delle riserve
serie su quei passaggi in cui la differenza fra Gesù e gli altri uomini sembra
assottigliarsi sino a scomparire: “la verità è l’Io umano-divino che stai
diventando ascoltando e dando credito alle parole di Cristo” (p. 42). Filosofo
laico e teologo credente convergeranno, infine, nella perplessità più grave
sull’antropologia di Guzzi secondo la quale l’uomo – proprio questo misero
esserino apparso, da poco, sulla faccia dell’universo e destinato, tra poco, a
scomparire– sarebbe “l’autocoscienza dell’universo” (p. 89); il Soggetto di
“una vera e propria ri-Creazione o
ri-Generazione antropo-cosmica” (p.
97). Un genio della logica e della mistica come Wittgenstein avrebbe forse
invitato Guzzi, dopo averne ammirato lo slancio poetico generoso, a scendere
dai trampoli per ritornare a un destino terreno dal futuro tremendamente
incerto.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Caro Augusto, se è vero com'è vero, che un matrimonio può smettere di funzionare e dunque che sia meglio per tutti scioglierlo, allora perché la formula fatidica prevede ancora la promessa e la pretesa di fedeltà a vita tra i due sposi?
Non sarebbe prima il caso di modificare cotanta procedura e testo?
Giusto per un minimo di coerenza direi.
Guido Martinoli
Posta un commento