Dalla rivista on line –
scaricabile gratuitamente –
della SFI (Società
filosofica italiana)
“Comunicazione filosofica”,
maggio 2017, n. 38
Giorgio Giacometti, Platone 2.0 . La rinascita della filosofia
come palestra di vita, Mimesis, Milano – Udine 2016, pp. 796, euro 40,00
Ci sono
libri che lanciano sfide intellettuali ardite rispetto alle quali sono
possibili due reazioni principali: se c’è fumus
di paradossalità gratuita, le si lascia cadere nel silenzio; altrimenti si
concede l’onore della dialettica. Che nel suo Platone 2.0 . La rinascita della filosofia come palestra di vita
(Mimesis, Milano – Udine 2016, pp. 796, euro 40,00) Giorgio Giacometti lanci
una sfida ai limiti della sfrontatezza è un dato; che meriti una considerazione
attenta è la mia opinione. Qual è dunque la provocazione? Per parafrasare
Nietzsche, che c’è stato un solo filosofo ed è morto nel suo letto (ad Atene,
nel quarto secolo). Ma diciamolo meglio: se “la filosofia autentica è quella
che ti consente di fare <<esperienze di verità>> e di vivere di conseguenza”, “nulla
di tutto quello che è stato prodotto in forma scritta merita il nome di
filosofia in senso proprio o pieno”. Infatti “la forma scritta, come
sappiamo, tradisce l’irrinunciabile forma
dialogica del filosofare” (p. 488). Questo sarebbe il nucleo della
testimonianza socratica raccolta, e tramandata, da Platone: poiché, però, dopo
Platone, la filosofia si è consegnata a un genere letterario della scrittura, quel
nucleo è progressivamente sparito dall’orizzonte occidentale (non dai contesti
storico-culturali orientali) e solo da pochi decenni, grazie a Gerd Achenbach e
alle pratiche filosofiche, sta riemergendo.
E’ chiaro che un teorema simile si presta a
una raffica di obiezioni: merito non piccolo di Giacometti è di averle
previste, formulate e contro-argomentate. In ordine crescente di radicalità:
innanzitutto chi ci dice che nelle “pratiche filosofiche” (la consulenza
filosofica individuale, di coppia o di gruppo; i dialoghi socratici; i
seminari; i laboratori; i caffè filosofici, la philosophy for community…) riluca davvero il filosofico? Abbastanza agevole la risposta: “l’effettiva filosoficità di una pratica, che si
denomini o meno ‘filosofica’ […], non è qualcosa di immediatamente evidente (primo
livello di lettura), ma richiede, per essere riconosciuta, di essere
concretamente sperimentata (secondo
livello di lettura); in modo da poter vedere l’effetto che fa; certi segni
che ci consentano di dire (o meno), a
posteriori, di una certa pratica, quale che ne sia la denominazione: ‘Fu
vera filosofia’ ” (p. 701).
Ma se la vera
filosofia è dialogo orale, come mai
sappiamo questo da testi scritti (come
i dialoghi platonici)? Il medium
grazie al quale ci viene tramandato il segreto della filosofia sarebbe dunque,
esso stesso, negazione del filosofare? Giacometti non evita di ammettere che
Platone, da molti considerato il filosofo per antonomasia, “testimonia, forse, della paradossalità della stessa filosofia” (p. 54). E ci
ammonisce, dunque, a relativizzare ogni scrittura filosofica che è tale in
quanto, da una parte, evoca un’esperienza filosofica realizzata e,
dall’altra, accompagna verso un’esperienza
filosofica da realizzare.
Questa
ammonizione platonica Giacometti l’ha trasmessa per molti anni oralmente: ma, avendo deciso adesso di
trasmetterla per iscritto, non sta
reduplicando - e aggravando – il
paradosso platonico dei dialoghi? Egli se ne mostra consapevole e, lungi dal
rigettare l’accusa, ne fa quasi una cifra interpretativa della propria opera:
“Questo, dunque – lo si è capito – è un libro che si contraddice per il fatto
stesso di essere scritto. La scrittura
rende impossibile quel dialogo in cui
il vero esercizio filosofico dovrebbe consistere” (p. 60). Per ridurne il tasso
di paradossalità, l’autore ha strutturato in forma doppiamente (o triplamente)
dialogica il testo: che è un (quasi) dialogo reale fra lui e il lettore, formulato come dialogo immaginario fra lui e un interlocutore (un
non- filosofo di professione come solitamente è chi chiede una consulenza) nel
corso del quale il consulente racconta lo svolgimento essenziale di dialoghi
precedenti reali con altrettanti
consultanti. Comprensibilmente, inoltre, Giacometti assicura (in ogni sede
possibile, fisica o virtuale) che questo scritto sulla priorità - filosofica - dell’oralità rispetto alla
scrittura sia un hapax legomenon, un unicum irripetibile: una sorta di scala
di Wittgenstein da abbandonare ogni volta che sia servita a trascendere il
piano della comunicazione scritta. Comunque pare verificarsi anche per lui –
appassionato e forbito difensore a oltranza dell’oralità del filosofare – la
nemesi storica illustrata da Hans Blumenberg: “Tra i libri e la realtà è posta
un’antica inimicizia. Lo scritto si è sostituito alla realtà, nella funzione di
renderla – in quanto definitivamente inventariata e accertata – superflua. La
tradizione scritta, e infine stampata, si è costantemente risolta in un
indebolimento dell’autenticità dell’esperienza. […] Così, dall’aria soffocante, dalla penombra, dalla
polvere e dalla miopia, dalla sottomissione alla funzione di surrogato sorge il
mondo dei libri come antinatura. E ogni volta contro mondi artefatti si
rivolgono movimenti giovanili. Finché la natura sta, di nuovo, nei loro libri”
(La leggibilità del mondo, Il Mulino,
Bologna 1984, p. 11). Come è successo, per esempio, a Montaigne che, dopo aver
elogiato Socrate in quanto aveva evitato di scrivere e dopo aver esaltato ciò
che si può apprendere direttamente dalla vita e dal mondo, affida tutto ciò a
un libro, sia pur “le seul livre au monde de son espece, d’un desseing farouche et extravagant” (Essais, II, 8).
Naturalmente,
dal momento che non è un provocatore gratuito, Giacometti finisce con
l’ammettere che la sua tesi complessiva – la filosofia che nasce orale,
agonizza e si spegne per millenni a causa della scrittura, “rinasce” con le
“pratiche filosofiche” dalla seconda metà del Novecento a oggi – non esclude considerazioni più ragionevoli:
che “il ‘dibattito’ secolare su questo o quel tema, che si svolge, per iscritto (orrore!), sulle pagine di
questo o quel libro, di questa o quella rivista di filosofia (magari on line) ecc. non produca qualche
effetto simile a quello prodotto dal dialogo vis à vis” (p. 774). Allora – ammirati dall’acume e dall’ampiezza
delle argomentazioni svolte (grazie alle quali nessun angolo delle pratiche
filosofiche rimane oscuro agli occhi di chi vuole conoscerle davvero, al di là
delle chiacchiere più o meno giornalistiche, sia come aspirante consulente che
come potenziale consultante) – si può condividere senza difficoltà la
conclusione del saggio introduttivo (Non
solo Platone. Pratiche filosofiche d’Oriente e d’Occidente) di Giangiorgio
Pasqualotto (che pure rivendica le caratteristiche dell’autentico filosofare,
da Giacometti riservate a Platone e al platonismo, anche a “alcune forti
espressioni di pensiero prodotte in Oriente”, p. 16): “La proposta offerta dal
libro di Giacometti appare quindi coraggiosa al limite della temerarietà, ma
risponde a una comune speranza di rivitalizzare la presenza e l’importanza
della filosofia in un mondo in cui il destino sembra sia quello di una
globalizzazione sempre più rapida, intensa ed estesa, la quale annienta ogni
premessa e ogni forma di esperienza filosofica,
lasciando in vita soltanto le forme più elementari e banali di realismo
analitico. Forse, allora, per far fronte a questo imminente futuro di miseria e
di degrado esistenziale, culturale e concettuale, sembra più convincente e
conveniente affidarsi ai sogni antichi di un Giacometti che alle acrobazie
profetiche di uno Sloterdijk” (pp. 45 – 46).
Potrei
aggiungere in coda, per gli studiosi di storia del pensiero, che il volume
aiuta a comprendere – reduplicato per così dire in diretta – un fenomeno
storico che (almeno a me) riusciva prima enigmatico: come è stato possibile che
una scuola platonica sia diventata scettica (gli Accademici ellenistici)? L’autore
infatti, non mostra alcun pudore nel sostenere che la vera filosofia aspira
alla Verità assoluta (cfr. pp. 457 – 459) che coincide con il Bene assoluto
(cfr. pp. 478 – 485) : ma proprio perché la méta è così elevata, concetti e
parole umane restano irrimediabilmente inadeguati, anzi condannati alla
intrinseca “contraddizione”. E allora non è solo la scrittura filosofica, ma
sono anche la lettura dei testi filosofici e lo stesso dialogo orale
interpersonale a essere esposti all’equivoco e all’interpretazione soggettiva.
Siamo forse dinanzi all’ennesimo paradosso: un’impostazione metafisica molto
classica (la filo-sofia come eros per
le Idee eterne, da vivere sin dalle viscere e non solo cerebralmente) si rivela
apparentemente anacronistica, ma in effetti può convivere senza traumi con gli
esponenti più spregiudicati della
contemporanea temperie post-moderna .
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
2 commenti:
Proprio così. Per quanto vedo sono indispensabili e non in contrapposizione i due modi, quello del dire-ascoltare-rispondere e dello scrivere-leggere. Chi scrive legge, basta sfogliare un saggio di tale Cavadi per rendersi conto, nell’abbondanza di citazioni, che sta dialogando in forma scritta con amici di percorso e con il lettore, così Montaigne. Dunque le due modalità, mi sembra, poggino entrambe sull’Altro. Grazie a Duccio Demetrio ho, tuttavia, appurato quanto lo scrivere si riveli, anzitutto, utile proprio a chi scrive, grazie ai tempi necessari e alla specifica fisicità dell’atto, tastiera inclusa: un pensiero nebuloso si chiarisce e ne stimola altri, non a caso solitamente si scrive in modo differente da come si parla. Anche il dialogo attraverso la parola ha i suoi vantaggi (e svantaggi): basta e avanza che soli in una stanza entri un altro e il nostro corpo-pensiero muta. C’è poi un altro aspetto da valutare, talvolta un testo scritto può toccare nel vivo più della parola, basta partecipare a quei festival filosofici dove la star di turno pontifica dal palco, senza possibilità di interloquire, per rendersene conto. Ma il vero problema è questo: oggi chi vive con l’urgenza di filosofare dialogando attraverso la parola deve mettere in conto una sorta di eremitaggio, ad esempio la settimana scorsa mi sono incaponito di fronte ad un ulivo nel chiedermi: “Ma perché c’è invece di non esserci” e nel confrontarmi sul quesito l’interlocutore del quale disponevo mi aveva (comprensibilmente) guardato perplesso, così il quesito metafisico non mi è rimasto che scriverlo in (apparente) solitudine.
Quanto ho “detto” in questo disordinato intervento è scrittura o dialogo? Sicuramente il WEB stempera la suddivisione, prospettiva con sviluppi futuri tutti da indagare.
In realtà, come ho scritto ad Augusto privatamente, la vera differenza, come emerge in filigrana nel libro, non corre tanto tra oralità e scrittura, quanto tra "intelligenza" o, se vuoi, "esperienza" della verità (come quando si ritiene di avere avuto un "insight") e linguaggio. Il dialogo (in presenza, ma, perché no, anche in rete), rispetto alla lettura/scrittura di testi, dovrebbe favorire tale intelligenza in quanto "spezza" la "pericolosa" catena delle interpretazioni inevitabilmente soggettive e proiettive che si instaura quando si legge (pensate agli equivoci che sorgono,p.e., quando ci si scambia email senza accompagnare col "non verbale" rilievi che volevano essere magari solo affettuosamente ironici, ma, scritti, suonano insopportabilmente offensivi ecc.). L'idea, insomma, è che la "verità" sia questione di vita e di esperienza e che lo sforzo sia quello di trovare un "medium" il più possibile trasparente e non "auto-referenziale" come troppe volte sono gli scritti, specialmente d'autore, il cui paradigma mi sembra essere, in ultima analisi, quello offerto da quei particolari Scritti il cui autore (e il cui Spirituale interprete autorizzato) sarebbe anche l'autore dell'universo stesso.
Grazie dei commenti lusinghieri, cmq.
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