“Centonove”
9.3.2017
STRATEGIE TERAPEUTICHE ? MEGLIO LA COMUNICAZIONE
“E’ solo un palliativo!”: quante volte lo
sentiamo e lo ripetiamo con tono sconfortato, amaramente derisorio? E lo
sentiamo ripetere anche sulle labbra di medici, infermieri, familiari di malati
gravi o in fase terminale. Ma una cura
palliativa significa, etimologicamente, offrire un “pallium”, un mantello: e per chi è denudato dalla sofferenza –
esposto al gelo della solitudine davanti alla morte – una coperta intiepidita
non è poco. Una terapia che allievi i dolori può essere molto, anzi può essere
tutto ciò che è possibile in quel contesto. Perciò, a seconda delle
circostanze, dovremmo abituarci anche a dire: “E’ addirittura un palliativo,
per fortuna!”.
In una
strategia terapeutica i farmaci, necessari, non risultano però mai sufficienti.
Altrettanto necessaria è la capacità di chi si prende cura del paziente di
comunicare con lui. E proprio alla comunicazione all’interno della relazione
terapeutica è stata dedicata una delle tante (troppe ?) tavole rotonde nell’ambito
del Convegno sulla “Organizzazione
della Rete di Cure Palliative alla luce dei nuovi LEA” promosso dall'Ordine dei Medici e dall'ASP di Palermo in collaborazione con FIMMG (Palermo,
24 – 25 febbraio 2017).
Il sociologo e pedagogista Danilo Dolci insisteva molto sulla distinzione
(assai poco rispettata) fra “trasmettere” e “comunicare”: fra l’inviare
unilateralmente dei messaggi a potenziali stazioni riceventi e lo scambiarsi
biunivocamente dei messaggi fra soggetti paritetici. L’espressione abituale
“mezzi di comunicazione di massa” è una spia eloquente della confusione
linguistica: come è possibile una comunicazione se è di “massa”? Giornali e
radio-televisioni sono “mezzi di trasmissione di massa”: essi infatti
raggiungono le masse, ma non sono – di norma- raggiunti dalle masse. Non
chiedono, anzi spesso neppure permettono, il feed-back: la reazione, la risposta, il riscontro attivo.
Tutti noi a scuola abbiamo imparato a
distinguere, tra i docenti preparati, i trasmettitori e i comunicatori: coloro
in grado di esporre i fondamentali della propria disciplina e coloro che
inseminavano questi fondamentali all’interno di una dialogo bilaterale. E’
ovvio che tra insegnante e alunno, come tra medico e paziente, ci sia un
dislivello di competenze: ma questa asimmetria professionale deve coniugarsi
con la sincera convinzione della pari dignità personale. Che significhi questo
nella relazione educativa lo sanno le maestre capaci di accettare che il
bambino di quinta elementare prospetti -
forse a torto forse a ragione – un procedimento alternativo per risolvere un
problemino di aritmetica o il docente di filosofia capace di accettare che lo
studente liceale dia di un passo di Hegel un’interpretazione alternativa. Ma
che significa comunicare nell’ambito della relazione terapeutica?
Indubbiamente significa saper trovare le
parole adatte per spiegare con chiarezza, non scissa dalla delicatezza, una
diagnosi (specie se infausta). Ma significa anche saper ascoltare il malato. E’
giusto preoccuparsi di ciò che si deve, generosamente, dare al paziente: ma
questo dare non è sempre un dire. Talvolta, come ci ricorda Simone Weil, ciò
che l’altro ci chiede sono solo due minuti di attenzione. Forse chi è in
orizzontale su un lettino vuole essere ascoltato, vuole proporre una sua
visione della malattia o della morte o della vita: comunicare significa, anche,
saper tacere. Saper esercitare un silenzio accogliente e – se è il caso – solo
in seconda istanza dire la propria opinione. E’ questo l’atteggiamento di ogni
filosofo-consulente in grado di esercitare con professionalità il proprio
compito: un atteggiamento di autentica, effettiva, comunicazione che potrebbe
offrirsi come paradigmatico per ogni altra relazione d’aiuto.
Augusto
Cavadi
www.augustocavadi.com
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