“Centonove”
19.1.2017
LA CONFESSIONE CATTOLICA: UN SACRAMENTO DA RIFORMARE
Solitamente si recensiscono libri editi da poco tempo
in modo da informare i potenziali lettori delle novità. Ma se un libro di
valore intrinseco – e di interesse ampio
– non ha incontrato, al momento della pubblicazione, una ricezione adeguata, e se il recensore ne
ha avuto notizia con dieci anni di ritardo, deve restare sottotraccia o è il
caso di segnalarlo? Convinto
dell’opportunità della seconda ipotesi, do volentieri conto de “Le chiavi del paradiso e dell’inferno.
Materiale per una riforma della confessione” (Marna, Barzago 2007, pp. 327,
euro 15,00) a firma di don Ferdinando Sudati.
Innanzitutto: perché un libro sulla necessità di riformare il sacramento
della confessione dovrebbe interessare non solo i cattolici ma anche una sfera più
ampia di lettori ‘laici’ ? Perché ciò che accade nella Chiesa cattolica, nel
bene e nel male, condiziona fortemente l’ethos
di popolazioni, come l’italiana, che – per fortuna o per sfortuna, a seconda
dei punti di vista – è ancora a maggioranza (sia pur nominale) cattolica. Una
Chiesa autoritaria, repressiva, invadente non favorisce certo la maturazione
critica e la responsabilizzazione di una società, laddove esperienze religiose
comunitarie di segno differente favoriscono la crescita culturale e civile dei
contesti in cui operano. E il sacramento della confessione (detto anche della
penitenza o della riconciliazione), per quanto statisticamente in clamoroso
ribasso, ha costituito e costituisce uno degli strumenti più penetranti della
pedagogia ecclesiale (detta anche, con un vocabolo che richiama l’antipatica
analogia fra il popolo credente e un gregge di pecore, “pastorale”).
Ebbene, con
coraggio pari all’erudizione, don Ferdinando Sudati presenta innanzitutto una
breve storia di questo sacramento che, a
differenza di altri (come il battesimo e l’eucarestia), non si può fare
risalire al progetto originario di Gesù di Nazareth. Di biblico, infatti, c’è
solo il detto giovanneo “Ricevete lo Spirito santo. Coloro a cui perdonerete i
peccati, saranno perdonati; coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati
(Gv 20, 22 b – 23). I primi cristiani
hanno inteso questa parola come invito al perdono reciproco, senza differenze
di ruolo fra vescovi, presbiteri e laici (ruoli che per altro si sono configurati
nel tempo e con estrema elasticità da una comunità all’altra). Per i peccati
gravissimi (tradimento, assassinio, “maltrattare gli schiavi, opprimere i
poveri, calunniare” etc.) si ritenne, abbastanza presto, che il perdono dei
fratelli dovesse seguire una confessione pubblica e un congruo periodo di
penitenza allo scopo soprattutto di compensare con opere benefiche il male
inferto: ma ciò non più di una volta nella vita. Dal VI secolo in poi i monaci
irlandesi (preti o solo monaci che fossero) introdussero la prassi di assolvere
dai peccati quanti si rivolgevano loro in forma privata; ma la nuova prassi non
cancellava la convinzione che nelle celebrazioni liturgiche più importanti il
celebrante potesse invocare l’assoluzione generale di tutti i presenti, anche
di chi non avesse manifestato individualmente le proprie colpe.
Fu con il
Concilio di Trento (XVI secolo) che la Chiesa cattolica ridusse il canale della
conversione alla sola confessione individuale e segreta di tutti i propri
peccati, gravi e meno gravi, a un sacerdote: insomma secondo il modulo rimasto
sostanzialmente inalterato sino ai nostri giorni. Questa dogmatizzazione
restrittiva provocò sin da subito la reazione delle nascenti chiese protestanti
che contestarono sia l’origine biblica di questo modo di intendere il
sacramento sia la pretesa che esso agisca per così dire automaticamente, come
se il perdono divino potesse dipendere – quasi “magicamente” - dai rituali umani.
Oggi i
limiti del sacramento della riconciliazione sono avvertiti ampiamente: la
Chiesa cattolica ha previsto di ritornare a formule più comunitarie, ma solo in
casi di emergenza (per esempio di un gruppo di persone che venga a trovarsi in
pericolo di morte) e comunque a condizione che, cessata l’emergenza, ci si
sottoponga a una confessione individuale. Troppo poco per teologi come don
Sudati (e come le decine di studiosi, italiani e soprattutto stranieri, di cui egli riporta l’opinione nel corso
dell’esposizione): una vera riforma esigerebbe almeno lo scioglimento di due
nodi. Il primo: il clerico-centrismo. Dio perdona attraverso i fratelli in
quanto tali, senza legarsi le mani a un’istituzione ecclesiastica che si è
andata costituendo e irrigidendo nei secoli: giusto, dunque, chiedere perdono
alla comunità che abbiamo ferito, ma senza affidare a nessun altro singolo uomo
il monopolio sulla nostra coscienza. Il secondo nodo è più radicale: il teismo
giudiziario. Il Dio che è stato annunziato da Gesù come Padre comune non è un
giudice supremo: quindi ognuno di noi può e deve chiedere la forza di
migliorare, ma senza passare per le forche caudine di un mini-processo
giudiziario. Dio dona la grazia, appunto, gratuitamente: al di là, e al di
sopra, di una contabilità ragionieristica. Dopo molti secoli, un papa prova
adesso a ricordarcelo, ma le resistenze all’interno stesso delle gerarchie
vaticane dimostrano quanto lontano sia ormai l’eco della rivoluzione
(incompresa) di Gesù di Nazareth.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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