Commento a Mt. 3, 1 - 12
“Adista”
29 ottobre 2016
*Fuoritempio.
Commenti al Vangelo di chi è ‘svestito’:
senza parametri, dottrina e gerarchie, ma non per questo
‘senza Dio’*
Commento al vangelo della II domenica di Avvento
(5 dicembre 2016)
Mt 3, 1 - 12
Tutti noi sogniamo
di poter vivere d’eredità. Poiché questo, dal punto di vista delle risorse
materiali, è riservato a pochi
privilegiati (privilegiati? Non sempre. Conosciamo persone rovinate
psicologicamente ed esistenzialmente dalla possibilità di sottrarsi alla fatica
quotidiana del lavoro e di vivere da parassiti), è forte la tentazione di voler
vivere di rendita dal punto di vista simbolico-culturale: “Mio nonno era un
aristocratico”, “Mio zio era un celebre attore”, “Mia cugina è una romanziera
di successo”…L’ambito religioso non è esente da questa tendenza de-responsabilizzante: “Siamo figli
del popolo eletto”, “Siamo membri dell’unica vera confessione di fede”, “Siamo
padroni in …chiesa nostra”. Il vangelo di Matteo smaschera e stigmatizza questo
orgoglio mal fondato in “molti farisei e sadducei” che venivano a farsi
battezzare da Giovanni e ne riporta le invettive non proprio diplomatiche: “Razza
di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate
dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro
di voi: <<Abbiamo Abramo per padre!>>. Perché io vi dico che da
queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo” (vv. 7 – 9).
Chi sa se il
redattore del vangelo matteano avesse presente che il conformismo, il
tradizionalismo, il razzismo denunziati in gruppi di ebrei erano veleni
infiltrati nella comunità cristiana stessa, ai suoi tempi e soprattutto nei
secoli a venire ? Certamente se ne accorse nel XVII secolo Blaise Pascal quando
rimpiangeva i tempi in cui farsi battezzare era una scelta personale – e impegnativa – e non l’effetto di un
meccanismo sociale automatico.
La chiusura nei
propri recinti ecclesiali non è solo ingiusta nei confronti degli esterni, ma è
proprio direttamente una bestemmia contro il Signore di tutti e di tutte:
implica, infatti, la doppia erronea convinzione che i meriti della nostra
tradizione comunitaria (se ci sono davvero) siano esclusivo frutto della
libertà umana e non anche dell’illuminazione divina; ma soprattutto che la
potenza dello Spirito sia così debole, così circoscritta, da non potere
suscitare altre energie da cuori induriti (ammesso che siano davvero tali solo
perché nati e cresciuti sotto altri cieli).
L’effetto di questa
bestemmia sarebbe comico se non fosse tragico: molti di quelli che, fidando
sulla propria appartenenza ecclesiale, non coltivano le proprie potenzialità e
non adempiono alla propria missione, finiscono con l’appassire; molti di quelli
che sono emarginati e disprezzati, aprendosi al soffio del Creatore, fioriscono
e portano “frutti degni della conversione”. Così, per riprendere Agostino,
“molti di quelli che sembrano dentro si riveleranno fuori e molti di
quelli che sembrano fuori si riveleranno dentro”. O, meglio ancora, si scoprirà
che agli occhi dell’Eterno non c’è nessun ‘dentro’ e nessun ‘fuori’: i confini
eretti a fatica dai mortali, e difesi
strenuamente a costo di sacrifici e sangue, sono inconsistenti. “Alla sera della
vita” – secondo la saggia conclusione di Giovanni della Croce – “saremo
giudicati dall’amore”: non dai titoli di merito, veri o fasulli, dei nostri
antenati. Tanto meno dal colore della loro pelle o dalla lingua delle loro
liturgie.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Grazie.
Posta un commento