“Centonove”
3.11.2016
NON SOLO DON PINO PUGLISI
C’era bisogno
di un ulteriore libro su don Pino Puglisi, il prete palermitano assassinato da
mano mafiosa il 15 settembre del 1993 ? Per alcuni versi, no. Nei venti e più
anni dalla sua morte è stata prodotta una letteratura monografica copiosissima,
senza contare gli studi sul rapporto fra mafie e chiese cristiane che hanno
richiamato a vario titolo, e con diverso spazio, la vicenda del parroco del
quartiere Brancaccio. E poi lungometraggi, documentari, servizi
giornalistici…Eppure le leggi del mercato editoriale, a somiglianza delle leggi
della nostra psicologia, sono feroci: esce un libro o un film, se è valido
trova un suo pubblico che lo apprezza, ma dopo uno o due anni il prodotto - come fosse una confezione alimentare – scade. E s’inabissa, insieme
alle tematiche che lo hanno inspirato, nell’oceano dell’oblio. Ecco, dunque,
perché ritornare ogni tanto su certe vicende, su certi personaggi e soprattutto
su certe problematiche, anche col rischio di aggiungere poco al già noto.
In questo
libro (R. Cascio – S. Ognibene, Il primo
martire di mafia. L’eredità di Padre Pino Puglisi, Dehoniane, Bologna 2016,
pp. 235, euro 18,00) , per altro, gli autori hanno avuto qualcosa da aggiungere
a quanto sinora scritto, se non altro perché vogliono fare il punto sulla
situazione nel quartiere Brancaccio – e nella chiesa cattolica di Palermo – a
quasi un quarto di secolo dal martirio di don Puglisi: e, con l’aiuto di interviste
a testimoni autorevoli, lo fanno con piglio critico (senza astio per nessuno ma
senza neppure tacere su contraddizioni vere o apparenti). A beneficio di chi,
forse per l’età forse per altre ragioni, si accosta per la prima volta a questi
racconti, poi, gli autori inseriscono la storia di don Puglisi all’interno
della più ampia – e più lunga – storia dei rapporti ormai secolari fra
organizzazioni criminali e comunità cattoliche. Una storia che ha radici
teologiche e culturali su cui, con la solita sincerità e acutezza, attira
l’attenzione una dichiarazione di don Cosimo Scordato: “Alla Chiesa non basta
avere condannato la mafia; essa deve vigilare di fronte a tutte le forme che
potrebbero farla somigliare a essa. La Chiesa, infatti, spesso agli occhi della
gente appare come una società forte e potente, gerarchizzata e non sempre
capace di comunicazione matura e di processi partecipativi. Per questi aspetti
anche la Chiesa deve convertirsi radicalmente: ecclesia semper reformanda. La migliore risposta alla mafia è
diventare una comunità di poveri, al servizio degli ultimi, dove regna la
libertà, dove il principio più importante non è l’autorità o la gerarchia ma la
libertà dei figli di Dio, la comunione, la condivisione, l’incremento della
vita degli uomini, la partecipazione anche in senso democratico; tutte cose che
al mafioso non stanno bene e, rispetto alle quali, il mafioso dovrebbe sentirsi
fuori luogo” (pp. 196 – 197).
Guardando in
prospettiva al passato gli autori hanno rintracciato delle perle interessanti
come una Lettera pastorale
dell’episcopato calabrese del 1916 (“Un secolo fa. Peccato che sia rimasta
nell’Archivio diocesano di Reggio Calabria per troppo tempo senza prendere
vita”) dove, tra l’altro, ci si chiedeva: “Come chiamare ancora religiose certe
processioni che si protraggono per mezze giornate e nelle quali, come se il
santo fosse un burattino, lo si fa girare per tutti i vicoli e i viottoli del
paese, facendolo sostare, qui davanti la casa del procuratore A o
dell’offerente B; più in là, sopra un tavolo, dinanzi a una casa o a una
bettola, nelle quali i portatori entrano a rifocillarsi? Ma un tale procedere,
oltreché profano e ridicolo, è contrario affatto allo spirito della Chiesa la
quale non intende che le statue durante le processioni si fermino a richiesta
dei privati, ma seguano recto tramite
il loro itinerario, breve quanto possibile e determinato” (pp. 187 – 188).
Se, per la
stima e l’affetto che mi legano ai due autori, fossi autorizzato ad avanzare
anche qualche considerazione critica (in vista di una seconda, auspicabile
edizione), ne formulerei due. La prima riguarda la causa della decisione dei
Graviano di uccidere il mite parroco del quartiere: qui si insiste sul suo
lavoro con i bambini e gli adolescenti. A me convince la tesi di altri
testimoni diretti (e, a loro volta, studiosi della vicenda, come Francesco
Palazzo) che sottolineano invece l’impegno ‘politico’ del presbitero con e per
gli adulti, la sua distanza critica dai referenti dei Graviano nelle
istituzioni e l’appoggio a movimenti di base che volevano scrollarsi d’addosso
il fardello della pesante mediazione clientelare di democristiani e post-democristiani:
un impegno ‘politico’, in interlocuzione continua con gli organi centrali e
periferici dello Stato, ma senza sudditanze
tribali né collateralismi ‘partitici’ .
La seconda
considerazione riguarda l’enfasi, a mio parere eccessiva, sul ruolo
pionieristico di don Pino come pastore di periferia. A me risulta
personalmente, ad esempio, che quando fu nominato parroco a Brancaccio ebbe
l’umiltà di rivolgersi a don Cosimo Scordato affinché questi, con il supporto
di alcuni di noi volontari del Centro sociale San Francesco Saverio all’Albergheria,
desse suggerimenti su come impostare il lavoro sociale. Insomma, il neo-parroco
aveva piena e meritoria consapevolezza di essere stato preceduto, da anni, nella strategia di liberazione dal dominio
mafioso da presbiteri e da laici (non solo credenti) in pregresse esperienze
a-confessionali.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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