Solo l’autocritica può consentire il dialogo
di Augusto Cavadi
Il monoteismo è sempre, e soltanto, matrice di violenza? La storia dei monoteismi è, anche,
storia d’intolleranze, condanne capitali e stermini di massa. Il mio
amico Luigi Lombardi Vallauri mi ha una volta confidato la soddisfazione
per i contrasti fra gli esponenti apicali delle tre religioni
abramitiche: «Te l’immagini che disastro per l’umanità se rabbini,
vescovi e imam andassero a braccetto? Sarebbe una valanga insostenibile
di fondamentalismo». Andrebbe meglio – è andata meglio – in regimi
politeistici? Un mio amico che stimo molto lo sostiene da anni. Nel suo blog [1] così si legge dall’11 luglio 2009:
«L’ossessione di ricondurre a una monocorde identità la magnifica selva delle differenze è un crimine. Di tale ossessione i monoteismi fanatici si nutrono ogni giorno. La sofferenza e il male che ebraismo, cristianesimo e islam diffondono da millenni nel mondo sono una delle prove schiaccianti della ferocia di cui la nostra specie è capace. Un brano evangelico ne riassume perfettamente la logica abnorme e patologica, che vuole ridurre il molteplice, il politeistico, il vario, il difforme, all’uniformità più assoluta, quella di un solo principio, di un unico dio».
E qui Biuso cita, non so quanto pertinentemente, Giovanni, 17, 11-23.
Francamente, però, non mi pare che la
storia dia ragione al cento per cento a Biuso: Ateniesi e Spartani,
Greci e Persiani, Romani e Barbari – con tutto il loro politeismo (a
sfondo panteistico) – non si fecero mancare guerre e stragi. Come
attesta anche l’antecedente storico e logico del monoteismo,
l’eno-teismo (non un solo Dio in assoluto, ma un Dio – il mio – più
forte degli altri), la convinzione di avere dalla propria parte uno dei
molti “dèi” non è servita certo a disarmare gli eserciti. Forme moderne
di mistica statalistica (fondate sulla tesi hegeliana dello Stato come
incarnazione di Dio nel mondo), tipiche di regimi totalitari di destra
come fascismo e nazismo, non si sono allontanate dalla fanatica
convinzione del Gott mit uns. Né monoteismo né enoteismo né
politeismo né panteismo, dunque: andrebbe – è andata – meglio con
l’ateismo? Basterebbe leggere Nietzsche, il profeta più efficace della
“morte di Dio”, per rispondere negativamente: «che la forza non si
manifesti come forza, che non sia volontà di sopraffare, di abbattere e
di dominare, sete di nemici, di resistenza e di trionfi, è esattamente
altrettanto assurdo che volere che la debolezza si manifesti come forza»
(così si legge nella Genealogia della morale).
Né la storia dei socialismi reali, dall’Unione Sovietica alla Cambogia, depone a favore della risposta affermativa [2].
Sembrerebbe che, per un mondo più pacifico o per lo meno cruento in
minor misura, l’ideale sarebbe l’agnosticismo teologico: non so se c’è
Dio e, a essere sinceri, non m’interessa neppure (vedi il sorriso di
Buddha a chi gli poneva interrogativi teologici) [3].
Indubbiamente gli scettici sono meno bellicosi dei portatori (malati)
di verità (relative ma ritenute illusoriamente) assolute. Eppure il
pianeta conosce casi di fondamentalismo buddhista [4]
e, in misura plateale e micidiale, il fondamentalismo del laicismo
borghese-capitalistico che dubita di tutto, tranne del profitto come
criterio di senso; che tollera tutto, tranne gli ostacoli al proprio
arricchimento continuo; che non ucciderebbe una mosca per un dissenso di
ideali, ma trita milioni di esistenze umane e animali e vegetali per
fornire di carburante la propria macchina tecnologica (infernale) [5].
Ma se la violenza viene praticata in
nome di monoteismi, politeismi, ateismi e agnosticismi, come
delegittimarla teoreticamente in modo da indebolirla nel suo radicamento
sociale? Sono convinto che ogni posizione teologico-filosofica si
presti a utilizzazioni ideologiche contrastanti: in nome dello stesso
Dio, o dello stesso Nulla, è possibile fondare tanto l’impegno
individuale e politico per il bene e la giustizia quanto strategie,
soggettive e collettive, d’intimidazione e asservimento di viventi
d’ogni specie [6].
Allora non vedo, attualmente,
alternative: ogni intellettuale – intendo ogni persona pensante che non
si adagi sul conformismo né sul tradizionalismo – deve vigilare
all’interno della propria prospettiva sul mondo (che spesso si abbina a
una qualche forma di appartenenza comunitaria) affinché tale weltanschauung venga declinata in senso sempre meno compatibile con l’odio e sempre più favorevole alla cooperazione nella pluralità.
La mia origine anagrafica (Palermo) e la
mia formazione giovanile (filosofica e, poi, teologica) mi hanno
indotto – per non dire costretto – a fare i conti con il Dio della
Bibbia: è esso interpretabile solo in senso violento o anche in senso
nonviolento? Le risposte sono varie e non tutte – ovviamente –
compatibili. Una prima risposta è una condanna netta e inappellabile:
«Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto».
Così Céline in Rigodon
(Einaudi, 2007: 14). «Concordo con lui e lascio volentieri a ebrei e
cristiani, agli idolatri del ‘Libro’, il culto verso una divinità inetta
come Jahvé. Non gli uomini soltanto, infatti, sono imperfetti ma lo è
l’universo stesso poiché frutto dell’imperfezione del demiurgo che ha
preteso di essere Dio» [7].
Chi sposi questo rifiuto tranciante
dell’intera Bibbia si condanna a privarsi, però, non solo di contenuti
inaccettabili per una coscienza etica matura, ma anche di intuizioni
profetiche che hanno ispirato e potrebbero continuare a ispirare dei
giganti della storia planetaria, da Francesco d’Assisi a Dante
Alighieri, da Michelangelo a Thomas More, da Erasmo da Rotterdam a Johan
Sebastian Bach, da Isaac Newton a Galileo Galilei, da Blaise Pascal a
Martin Luther King, da Giovanni XXIII a Nelson Mandela…L’Occidente ha
nella Bibbia il suo «grande codice culturale» (per riprendere Northrop
Frye) verso cui è debitore di molti errori e di altrettanti meriti.
Una seconda risposta, risalente a
Marcione (II secolo d. C.), distingue, all’interno della biblioteca che
chiamiamo Bibbia, il Dio dell’Antico Testamento dal Dio del Nuovo: per
condannare, come irredimibile, la prima figura e salvare esclusivamente
la seconda. L’opinione di Marcione è stata bollata dalla Chiesa
dell’epoca come eretica, ma non tutti i teologi hanno accettato la
condanna. Anche in anni recenti Hanna Wolff, riprendendo opinioni
autorevoli come quella di von Harnack, ha sostenuto l’opportunità di
espungere dalle Sacre Scritture Torah, Salmi e Profeti [8]
Basterebbe cassare l’Antico Testamento per avere una Bibbia fautrice di
nonviolenza? La risposta è negativa per almeno due ragioni. La prima è
che del Nuovo Testamento fa parte il corpus paolino: e qui non
mancano i toni minacciosi, le maledizioni, le condanne senza appello.
Una seconda ragione è che persino la figura di Gesù, isolata dagli
antecedenti veterotestamentari e dai commentari paolini, non è esente da
tratti violenti: come ha sostenuto il biblista Giuseppe Barbaglio, il
Dio annunziato da Gesù è un “Giano bifronte” in cui convivono tratti di
rigore inflessibile e tratti di tenerezza materna [9].
Scartate, in quanto insostenibili o
incomplete, le soluzioni prospettate (condanna in blocco della Bibbia;
condanna in blocco dell’Antico Testamento e dell’epistolario attribuito a
Paolo di Tarso) non resta che una direzione di ricerca e di lavoro: la rielaborazione critica
degli insegnamenti biblici. Essa si basa sul presupposto che i testi
biblici tramandati non abbiano un’essenza straordinaria, addirittura
divina, ma siano testi redatti da uomini con pregi e difetti che – come
tutti i prodotti umani – sono un impasto di grano e zizzania, di profumi
e spine: per chi crede in una qualche ipotesi di Trascendenza, la
Bibbia (come tutti i capolavori dello spirito umano) è il
risultato mirabile della riflessione paziente degli autori e della
felice ispirazione dall’Alto [10].
Si tratta dunque di affrontarla ‘laicamente’: evitando il bigottismo
che induce a manipolare avvocatescamente i passaggi scomodi così come
ogni forma di bigottismo capovolto incapace di riconoscere i diamanti
immersi nella melma.
In due testi precedenti ho cercato di
mostrare, in concreto, come il messaggio biblico possa essere piegato su
posizioni tribali, identitarie [11] o, addirittura, violente e distruttrici [12],
ma anche quali ripensamenti teologici potrebbero liberarlo dalle scorie
e farne una proposta di cooperazione, dialogo e liberazione.
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