“Niente
di personale”
1.9.2016
FESTE
PATRONALI: EREDITA’ DA CONSERVARE O
RESIDUO MEDIEVALE DA CANCELLARE?
Le feste
patronali – e più in generale le manifestazioni popolari di devozione religiosa
– hanno senso? Ne hanno ancora, ammesso che lo abbiano avuto in altre fasi
della storia? Le risposte nette sono le più facili, ma anche le meno
interessanti.
LA POSIZIONE TRADIZIONALISTA
Poco interessante, infatti, è la posizione
tradizionalista secondo cui sarebbe autolesionistico – da parte delle gerarchie
ecclesiastiche - interrompere una
continuità storica e culturale quasi bimillenaria, proprio quando comunità di
altre confessioni religiose (di matrice induista e buddhista) organizzano, in
Sicilia, le loro prime processioni di quartiere. Questa tesi, infatti,
abbagliata dall’ottica della concorrenza nel mercato delle religioni fra
offerte alternative, non tiene in conto tante altre considerazioni: per esempio
che i cattolici praticanti sono
diventati anche nel Meridione italiano una minoranza statistica e che, dunque,
ogni esternazione prorompente dei loro sentimenti (mediante chiusura al
traffico di strade e di piazze, inquinamento acustico provocato da campane
mattutine, tamburiate diurne e nenie serali, investimento di denaro pubblico in
feste e festini…) viene vissuta dalla maggioranza dei cittadini più come una
prevaricazione invadente che come una testimonianza edificante. Inoltre non
tiene in conto che, anche all’interno della minoranza statistica costituita dal
mondo cattolico, tali manifestazioni
plateali di devozione per la Madonna e i santi (soprattutto per quelli la cui
vicenda biografica è quasi totalmente trasfigurata dalla leggenda)
costituiscono ormai un dato residuale.
Non sto escludendo che la donna dell’Albergheria di Palermo possa chiedere –
come ha fatto, davanti a me, la signora Concetta - a una vicina di casa se
creda in Dio e, avutane risposta negativa, possa incalzare: “Ma neppure in
padre Pio?” Sto solo affermando che il Concilio Vaticano II non è passato
invano e che anche sociologicamente la fede dei cattolici che sono stati a
scuola e che leggono i giornali si concentra sempre di più sul mistero di Dio, sul messaggio di Gesù di Nazareth e sulle sfide interiori
costituite dalle tragedie della vita (dolore, morte, guerra, ingiustizie
sociali…). Già nel lontano 1988, il sociologo fiorentino Arnaldo Nesti – da me
intervistato per la rivista “Segno” a proposito di una sua ricerca comparativa
sulle feste religiose a Siviglia, Lima, Città del Messico e Palermo –
osservava, a proposito del festino
palermitano di santa Rosalia, che “appare debole il mito fondatore, ancorato ad
una struttura dissociata ed estrinseca rispetto al vissuto nel presente;
assenti appaiono processi di ri-significazione; basso il livello rituale e
delle pratiche di pietà; la saldatura della dimensione civile con quella
ecclesiastica non è sufficiente ad alimentare un ethos collettivo, a conservare un rapporto attivo col mito
fondatore. Tutto appare formale, retorico, quasi insieme di motivi estrinseci,
specialmente nell’attuale situazione della città”. Non credo che quasi trent’anni dopo la situazione sia migliorata
(nonostante “le seimila acquasantiere”, “appositamente realizzate in occasione
del 379° Festino”, generosamente distribuite, dal “Comune, in collaborazione
con la Curia Arcivescovile”, ai “degenti
ricoverati negli ospedali e nelle case di cura pubbliche”).
LA POSIZIONE ABOLIZIONISTA
Questo indubbio processo di secolarizzazione
non legittima, d’altronde, la superficialità della tesi opposta secondo cui la
società post-moderna si avvierebbe verso la cancellazione della festa, verso
un’omologazione dei giorni e delle ore; e che sarebbe saggio assecondare e
accelerare tale “eclissi del sacro”. A
smentirla basterebbe il clima di coinvolgimento emotivo, di identificazione
collettiva, che si registra negli stadi di calcio o nei concerti rock: se non
sono fenomeni religiosi questi…
Per restare nel caso particolare di Palermo,
poi, la necessità di ricucire le dieci, cento “città” in cui si trova
frammentata è particolarmente urgente: che cosa hanno in comune gli abitanti di
Brancaccio con i concittadini di via Libertà? Perché nella borgata marinara
di Vergine Maria si dice “lavora in
città” per indicare qualcuno che si sposta di tre chilometri con l’autobus
urbano? E che cosa consentirà alla seconda generazione di tunisini di
avvertirsi concittadini della seconda generazione di tamil? Ogni acritica
esaltazione della secolarizzazione, o addirittura della de-sacralizzazione
degli spazi pubblici, rischia di dimenticare che - come ha scritto uno dei maggiori storici
contemporanei - una città è fatta di
tante cose, ma soprattutto dalla consapevolezza di essere una città. Tale
consapevolezza necessita o di simboli identitari religiosi o di equivalenti
funzionali dei medesimi.
LA SOLUZIONE ABBASTANZA
EQUILIBRATA DELLA GIUNTA PALERMITANA
Negi ultimi
anni (dal 2012 in poi) mi pare che il festino palermitano abbia imbroccato una
direzione convincente, equidistante dalla mera conservazione della tradizione
come dalla cancellazione radicale di ogni manifestazione popolare. Per valutare
meglio questa direzione di marcia può essere istruttivo evocare, rapidamente, lo
scenario culturale attuale nel quale questo nuovo corso si è, abbastanza
felicemente, inserito.
Da una parte l’uomo post-moderno resta un animale religioso. Ha bisogno
di avvertirsi re-ligato, legato-a,
qualcuno o qualcosa che dia senso al suo breve esistere terreno. Per secoli
questo bisogno di legami è stato soddisfatto dal rapporto (vero o presunto) con
la trascendenza (di molti dei o di un solo Dio): ma la secolarizzazione,
dettata anche dal rifiuto della società istruita di vedersi strumentalizzare
dagli apparati ecclesiastici, ha messo seriamente in crisi questa dimensione
‘verticale’ della religione. Che fare dunque? Arrendersi a un atomismo
individualistico che esalta il privato rispetto al pubblico, ma dimentica che
‘privato’ significa anche esser privo
di relazioni con un Tutto di cui sentirsi parte? Oppure, al contrario, fare
finta di nulla e riproporre le devozioni di origini medievali con tutti i
rischi di feticismo e di idolatria?
Gli ideatori di queste edizioni hanno saputo, con intuizione creativa,
dare una risposta al dilemma. Hanno provato a re-inventare una religione civile
che, senza essere in polemica o in alternativa
con la religione cattolica, possa comunque trovare consensi anche nel mondo del
disincanto ‘laico’. L’icona della Santuzza come un simbolo di femminilità che,
evitando la provocazione sessuale e la mercificazione del corpo, non nasconde
le sue forme: come sintesi di gradevolezza estetica e di protezione materna. E
soprattutto quel mettere sul carro, intorno al carro e sotto il carro, alcuni
protagonisti della Palermo migliore, che resiste ai pregiudizi razziali e al
dominio mafioso, quasi a indicare nuovi modelli di santità capace di parlare
non solo ai frequentatori di templi e sacrestie, ma anche alle donne e agli
uomini del servizio umanitario e della donazione altruistica.
UN DUPLICE
AUSPICIO
L’osservatore partecipe di questo piccolo miracolo non può fare a meno
di nutrire una doppia speranza.
Prima di
tutto: che anche in futuro le autorità civili, lungi dall’addormentarsi sugli
allori, continuino a stimolare la creatività degli artisti affinché sappiano
arricchire di tematiche e personaggi la struttura formale della festa. Sarebbe
davvero triste se, liberatisi dagli stereotipi del passato, si dovessero
trasformare i nuovi simboli in stereotipi retorici. La vita scorre: e ci sono
molti modi di lavorare per rendere vivibile la città e, di conseguenza, molte
rappresentazioni possibili di tali novità.
Un
secondo auspicio riguarda la chiesa cattolica che è in Palermo: che possa
evitare di vivere trionfalisticamente questo nuovo corso, quasi una rivincita
del sacro sul profano. Le trecentomila persone presenti a ciascuna delle
recenti edizioni non sono trecentomila
devoti nel senso canonico, tradizionale, del termine: ognuno di loro ha un
proprio modo di interpretare la sua partecipazione e sarebbe bello che tutti i
‘pastori’ imparassero a rispettare, senza imporre etichette, tale pluralità di
sentimenti. Tanto più che non si tratta soltanto di rispettare molti modi di
vivere il cristianesimo (dal devozionismo cattolico alla sobrietà
valdese-metodista-battista), ma ormai molti modi di vivere la dimensione
spirituale dell’esistenza (comprese concezioni aconfessionali o addirittura
atee) . Con la beatificazione di don Pino Puglisi è arrivato un segnale
interessante: il prete è chiamato a vivere il proprio ministero sintonizzandosi
con i bisogni e i progetti della gente. Il credente non è invitato a vivere in
maniera straordinaria, a prendere le distanze dai concittadini, bensì a
condividerne le sofferenze e il desiderio di riscatto. La chiesa, più che madre e maestra
dell’umanità, deve imparare a concepirsi come sorella e compagna: una
parte - forse minoritaria – della
società, alla quale apportare il proprio contributo di autenticità e di impegno
nell’ottica di un bene ‘comune’ che, in quanto tale, non può essere monopolio
di nessuno. Mi pare fortemente dubbio che il pellegrinaggio (un po’
trionfalistico e un po’ idolatrico) delle reliquie di don Puglisi per le parrocchie della diocesi
palermitana sia stato in sintonia con
questa logica ‘pastorale’ auspicabile e con l’elezione di papa Francesco (non così
fanta-teologica come si poteva ritenere sino a pochissimi anni fa.) Dai segnali sinora registrati la nomina del
‘dossettiano’ don Corrado Lorefice ad arcivescovo del capoluogo regionale
lascerebbe ben sperare in un clima diverso.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
www.nientedipersonale.com/2016/09/01/feste-patronali-eredita-da-conservare-o-residuo-medievale-da-cancellare/
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