“Niente di personale”
16.8.2016
ALCUNE ATLETE MUSULMANE
DEVONO GAREGGIARE IN HIJAB. INVECE LE DONNE CRISTIANE…
Se non l’avete letto, leggete la breve nota di Alberto
Caprotti sulla pagina web di “Avvenire” (il quotidiano della CEI, Conferenza
episcopale italiana: insomma dei vescovi italiani) a proposito dell’atleta
(donna) dell’Arabia Saudita che ha accettato, pur di partecipare ai Giochi
olimpici, di correre i 100 metri piani interamente paludata dallo “hijab di
ordinanza”: www.avvenire.it/Sport/Pagine/A-Rio-cento-metri-di-libert-La-saudita-Kariman-ha-gi-vinto-.aspx
E’ un pezzo due volte interessante: per quello che
dice e per quello che non dice.
E’ interessante perché mette in evidenza il coraggio
della saudita Kariman Abuljadayel , “il simbolo del futuro, della donna
musulmana che si mette a correre”, accettando lo svantaggio – rispetto alle
concorrenti che sfoderano “braccia lucide, sguardi aggressivi, body sgargianti”
– di essere l’unica infagottata come “una tartarugona impacciata”, “la sola ad
essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare gli occhi”.
Ma è interessante quel che il collega di “Avvenire”
tace. E’ significativa l’assenza di un accenno
- almeno solo un accenno – autocritico sul dato di fatto che, un secolo
fa o giù di lì, in molti Paesi a maggioranza cristiana sarebbe stato
impensabile avere tante atlete disinibite come le nostre contemporanee. La
paura del corpo, soprattutto del corpo femminile, è stata la regola - dopo la fine del Rinascimento
- nelle chiese cattoliche, ortodosse e protestanti. E se la situazione
oggi, per fortuna, è cambiata, una firma cattolica di un giornale cattolico
dovrebbe ammettere che ciò è avvenuto non
grazie al Magistero ecclesiastico ma nonostante esso. Senza
Illuminismo, senza Romanticismo, senza Movimento femminista, senza
Sessantotto…le nostre atlete si sarebbero distinte ben poco dalle colleghe
musulmane (da alcune fra le tante
colleghe musulmane: molte altre
partecipano ai Giochi senza abbigliamenti punitivi). Se il potere politico in
Occidente non si fosse, faticosamente, sganciato dal potere religioso - come purtroppo non è avvenuto in alcuni
Paesi islamici – oggi le atlete cristiane correrebbero col velo e le tuniche.
O, più probabilmente, non correrebbero per nulla.
La riprova?
L’assenza totale, e ritenuta ovvia, di suore non solo dagli stadi olimpici (si
può sempre sostenere che gli impegni di preghiera e di apostolato impediscono
di dedicare tempo agli allenamenti, a differenza degli impegni familiari e
professionali delle altre donne), ma dalle palestre, dalle piscine, dai campi
sportivi. Una donna ‘consacrata’ a Dio (e in tutto e per tutto dipendente dal
governo clericale maschile) deve nascondere ogni centimetro della propria
pelle, ogni filo dei propri capelli, ogni curva del proprio profilo. La moglie
di un operatore della Rai mi confidava il suo scandalo nel vedere giovani preti
(che accompagnavano la troupe televisiva
per le rubriche ‘religiose’ della domenica) trattenersi piacevolmente, in
piscine di alberghi di lusso, con segretarie altrettanto giovani in topless. Non so se tale scandalo fosse
giustificato né sino a che punto. Ma ciò che mi scandalizza di più è
l’accanimento - puntualmente documentato
dall’agenzia di stampa “Adista” (www.adista.it)
- di diverse autorità vaticane contro le Congregazioni di suore statunitensi
che chiedono timidi passi di apertura al mondo e di parificazione con i
confratelli maschi. Forse le donne cattoliche devono prendere “alla lettera” la
punizione biblica di “lavorare col sudore della fronte” e di “partorire con
dolore”, mentre gli uomini, più esperti in teologia biblica, hanno capito che
si tratta di “metafore” e “esagerazioni retoriche”…
Augusto Cavadi
www.nientedipersonale.com/2016/08/16/alcune-atlete-musulmane-devono-gareggiare-in-hijab-invece-le-donne-cristiane/
4 commenti:
Articolo molto più che "interessante". "UTILE". Grazie. E tanto più importante perché scritto da un teologo di notevole spessore, quale Augusto Cavadi è. Lo condivido
Bravo, caro Augusto. Ora mi piacerebbe sapere che ne pensi del divieto di burkini in Francia, su cui mi sono pronunciato, anche troppo esplicitamente, sul mio blog: http://albertocacopardo.blogspot.it/2016/08/quasi-quasi-mi-metto-un-burkini.html
Mia mamma, nata nel 1907, e mia zia, sua sorella, del 1905, mi raccontavano che da piccole, più o meno dunque negli anni della prima guerra mondiale, facevano il bagno a mare, tuffandosi in acque limpidissime da uno stabilimento costruito in legno sugli scogli antistanti la curva con la quale via Nazario Sauro si innesta in via Partenope, a Napoli.
Lo stabilimento era diviso in due sezioni rigidamente separate; dall’una non si poteva passare nell’altra e nemmeno ci si poteva guardare, gli sguardi essendo impediti da un’alta paratia di legno che si prolungava anche nel mare per parecchi metri. In una delle due sezioni avevano accesso solo i maschi; nell’altra solo le donne. Le signore, se facevano il bagno, lo facevano indossando un camicione che le copriva sino alle caviglie, al disotto del quale non so quale altro indumento avessero, ma certamente non erano nude. Insomma qualcosa di molto simile ai Burkini di cui si parla tanto in questi giorni. Se mia nonna avesse fatto il bagno lo avrebbe indossato.
Fu in quel mare “separato” che mamma e zia divennero delle appassionate nuotatrici e, specialmente zia, provette sommozzatrici, pratiche in cui si sono cimentate ambedue anche passati gli 80 anni di età.
I miei, intorno alla metà degli anni trenta, d’estate, per un paio d’anni, presero in fitto un appartamentino ai Gerolomini, località tra Bagnoli e Pozzuoli, nei pressi di una stazione termale dove mia monna, di pomeriggio, accompagnata da mia zia, andava a “fare i fanghi”. Di mattina, mamma e zia portavano me nella spiaggia sotto casa che ne era separata solo da una strada. Di pochissimi anni (sono nato nel 1930), ero in costume e sguazzavo sul bagnasciuga; mamma e zia no: indossavano normali abiti estivi e vigilavano sulla mia incolumità sedute su due sgabellini pieghevoli ed all’ombra di ombrellini, sotto la sorveglianza di mia nonna che di tanto in tanto si affacciava dal balcone. Non so se, da appassionate nuotatrici, mamma e zia soffrissero di non fare il bagno; se così era non lo davano a vedere, almeno a me.
Poi ci furono la guerra d’Africa, quella di Spagna e la seconda guerra mondiale. E si sa che le guerre sono potenti acceleratrici dei cambiamenti dei costumi.
Così, nel secondo dopoguerra mia zia e mia madre ripresero a fare i bagni a Torre del Greco, dove eravamo sfollati per sfuggire ai bombardamenti che però ci raggiunsero anche lì.
Pure la casa di Torre del Greco era prospiciente ad una spiaggia, come quella dei Gerolomini; ne era separata solo dai binari della ferrovia per le Calabrie, che si superavano mediante un sottopasso. Lo stabilimento era anch’esso di legno, come quello di via Partenope, ma non aveva separazioni: le “signore bagnanti” non erano sottratte agli sguardi dei “signori bagnanti”. I costumi però erano castigatissimi, specie quelli delle signore: i due pezzi non erano ancora stati inventati, tampoco i bikini e non parliamo dei topless che si sarebbero visti solo dopo alcuni decenni, non senza che non poche multe e qualche condanna colpissero le prime audaci che avrebbero osato ridurre così drasticamente l’abbigliamento marino.
(Continua sulla pagina FB di Nino Lisi)
Personalmente credo che tutta questa discussione sul burkini non sia che l'ennesima "arma distrazione di massa". Le vere problematiche relative alla convivenza tra diversi nella società globalizzata sono ben altre e non le si vogliono affrontare seriamente!
Mauro
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