“Centonove” 7.7.2016
ZAHIRA
Non sono un critico letterario. Come lettore medio
sono arrivato alla conclusione che i grandi capolavori sono tali perché sintesi
di ispirazione sincera, contenuti profondi e modi espressivi adeguati. Gli
altri libri - quelli che scriviamo noi
autori dignitosi ma non certo geniali – si salvano quando presentano almeno una
di queste tre caratteristiche che, nei capolavori, si ritrovano felicemente
intrecciate.
In Zahira. Un amore per tornare a vivere
(Albatros, Roma 2016) si cercherebbe invano la perfezione stilistica: il
linguaggio è spontaneo, ordinario; evoca, più che gli oli tecnicamente accurati
del Cinquecento, le pennellate della
pittura naif . Chi gradisce questo registro linguistico,
però, apprezzerà di sicuro gli altri due ingredienti. Innanzitutto
l’autenticità dell’ispirazione: non è un libro montato su commissione né per
far soldi o cercare fama. Si avverte subito che è scritto perché l’autore –
Enrico Cillari – aveva l’esigenza interiore di scriverlo. Scaturisce, come si
diceva un tempo aulicamente, ex
abundantia cordis.
In secondo
luogo la serietà dei contenuti. L’autore infatti affronta tematiche di rilievo
e le affronta con la volontà di fare chiarezza attraverso le opinioni, in parte
discordanti, dei protagonisti. Con questo metodo, che si potrebbe definire
dialettico in senso socratico, Cillari vuole rispondere soprattutto a due
domande.
La prima, di
carattere più esistenziale, riguarda la problematicità delle relazioni
coniugali: che, attivate dall’attrazione sessuale, sembrano destinate a
esaurirsi via via che questa si affievolisce con gli anni. Si crea dunque una
sorta di pericoloso parallelismo che, in molti casi, diventa vera e propria
doppia vita: su un binario scorre l’amore affettuoso per moglie e figli, su un
altro l’amore impetuoso per un’amante passionale.
La seconda
domanda, di carattere sociale più ampio, riguarda la condizione dei lavoratori
immigrati in Italia e, più specificamente, delle lavoratrici che badano ad
anziani e infermi nella città di Palermo. Qui l’autore esplora un mondo di
fatica, di incomprensioni, di pregiudizi; ma anche di felici intese fra chi
viene da lontano e chi può fruire di assistenza talora non solo motivata
monetariamente.
Sullo sfondo
la città di Palermo: con la sua sporcizia, con l’inaffidabilità dei suoi mezzi
pubblici, ma anche con la bellezza di certi scorci naturali e urbanistici: “Palermo
la trovo incantevole. Mi piacciono i suoi silenzi notturni e il suo caos di giorno. Amo i suoni
del mercato, specialmente il Capo. Mi ricorda un po’ i quartieri popolari di
Teheran o il Bazar di Instanbul, anche se in proporzioni ridotte. La cosa
triste è vederla spesso piena d’immondizia. Comunque mi piace la sua
stratificazione storica, come si apprezza muovendosi lungo Corso Vittorio
Emanuele e via Maqueda. Chiese e palazzi raccontano il loro passato. Invece la
città moderna
Ed è anche la Palermo dove non c’è solo “borghesia
mafiosa”, ma anche una borghesia “riflessiva” che si sforza di leggere correttamente la contemporaneità e di
cercare una coerenza personale fra analisi teoriche e pratiche quotidiane.
Il filo rosso
del romanzo è il volto di una donna il cui fascino viene più e più volte
sottolineato sino al punto da imprimere questa figura nella memoria del
lettore. Che per uno scrittore non è certo un merito da poco.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Caro Augusto, grazie ancora. Ho comprato il settimanale e la tua recensione mi è piaciuta molto. un caro saluto. Enrico
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