“Centonove” 23.6.2016
MARIA D’ASARO INTERVISTA AUGUSTO CAVADI
SU “FILOSOFARE IN CARCERE”
In Filosofare
in carcere (Diogene Multimedia, Bologna, 2016, €5) Augusto Cavadi - come
recita il sottotitolo del libretto - ci racconta un’esperienza di filosofia in
pratica nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, esperienza resa possibile da un’idea di filosofia che,
destrutturando lo schema usuale up e
down vigente tra insegnante e alunno, viene intesa come dialogo e scambio paritetico tra un filosofo e uno o più
interlocutori disposti a con-filosofare su tematiche di rilevanza esistenziale.
Dunque una filosofia (…) come ricerca in comune di risposte a domande
condivise. E così i filosofi Augusto Cavadi e Antonietta Spinosa,
attraverso l’ASVOPE – Associazione di volontariato penitenziario – hanno
discusso con un gruppo di detenuti dell’amore, dell’amicizia, della fedeltà,
della libertà, del codice mafioso.
Augusto,
il tuo racconto dell’esperienza di filosofia ‘pratica’ in un carcere di Palermo
è piuttosto breve. Supponi che possa essere utile, per il lettore
interessato, qualche informazione di
contesto?
Augusto
Cavadi: Innanzitutto
direi che, per capire gli interventi dei detenuti, sarebbe istruttivo conoscere
un po’ la mentalità ‘media’ dei siciliani. La maggior parte dei partecipanti
agli incontri è, infatti, nata e cresciuta nell’isola. Alcuni anni fa ho
provato a tratteggiare il modo di pensare, alquanto contraddittorio, di noi
siciliani nel libretto I siciliani
spiegati ai turisti .
Chi
dice Sicilia non può non pensare, per associazione d’idee, alla mafia. Specie
se è si tratta di un’area sociale relativa alla criminalità …
A.: La cultura siciliana non è, ovviamente, tout court una cultura mafiosa: tuttavia
non è neppure estranea alla formazione, al suo interno, tra altre visioni del
mondo, di una mentalità mafiosa (che, secondo un’espressione del compianto
magistrato Giovanni Falcone, è quasi un “precipitato” degli elementi peggiori
della cultura siciliana). Per capire la differenza, pur con alcune preoccupanti
affinità, fra il modo di intendere la vita del siciliano ‘medio’, da una
parte, e del mafioso che aderisce
formalmente a Cosa nostra, dall’altra, ho pubblicato due scritti: uno, molto
breve e accessibile, La mafia spiegata ai
turisti e un altro più impegnativo, Il
Dio dei mafiosi.
Ma
ci spieghi come un ambiente così particolare, ai margini della società, come il
carcere può essere adatto all’esercizio della filosofia?
A. : Innanzitutto premetterei che la
proposta di sperimentare delle sessioni di filosofia-in-pratica con alcuni
detenuti dell’Ucciardone mi è venuta da Franco Chinnici, presidente
dell’Asvope, l’associazione di volontariato penitenziario che opera da molti anni
a Palermo. Franco e gli amici dell’associazione intendono il volontariato non
come mera “beneficenza”, ma come strategia di promozione umana (dei detenuti) e
di stimolo critico nei confronti delle istituzioni (carcerarie): insomma lo
intendono, e lo praticano, nella prospettiva
di cittadinanza adulta su cui mi trovo totalmente d’accordo, in armonia
con le riflessioni di vari studiosi e operatori. Senza questa premessa non si
capisce il clima di fiducia, di rispetto reciproco, in cui si è potuto realizzare
l’esperimento.
E’
importante sottolineare che fare volontariato non è elargire beneficenza ma
promuovere e accrescere umanità, specie in un contesto carcerario. Ma perché
proprio la filosofia?
A.: Mi rendo conto che, in un Paese di
tradizione storicistica come il nostro, chi sente pronunziare “filosofia” pensa
subito alla “storia delle filosofie” elaborate dai Greci a oggi. Ma la
filosofia per me è anche, anzi soprattutto, uso critico della ragione: in
questo senso originario, radicale, forse potremmo dire socratico, ogni uomo e
ogni donna ha il diritto/dovere di praticarla. Dunque il politico come il
cittadino elettore; l’imprenditore come l’operaio; il magistrato come il
detenuto … E’ quanto intendo mostrare con la mia attività di filosofo in
pratica, finalizzata a dialogare e a confrontarmi innanzitutto con chi filosofo
di professione non è, ma è alla ricerca di un senso nella sua vita individuale e negli accadimenti sociali
e politici. Che succede quando a un gruppo di persone – con modestissimi livelli
d’istruzione, storie di vita travagliate, scarsa educazione al confronto
democratico – si propone di pensare con la propria testa e di parlare
liberamente di ciò che vanno pensando? Come ha sottolineato Maria Antonietta
Spinosa che ha condiviso gli incontri con i detenuti: filosofare assieme ai detenuti è valso il dono reciproco di attivare la
rilettura critica della propria esperienza, muovendo dalla condizione più
paradigmatica per il pensare: (…) le situazioni-limite, la situazione del
limite. In questo piccolo libretto, Filosofare
in carcere - che ha l’onore di aprire una nuova, agile, collana della
coraggiosa casa editrice bolognese Diogene Multimedia - ho voluto raccontare un
esperimento di questo genere. Non è stato il primo (Giuseppe Ferraro ci ha
preceduto in Italia) e, spero, non sarà neppure l’ultimo. Perché proprio la
povertà estrema del carcere può aprire paradossalmente la possibilità di
intuire per la prima volta il valore delle relazioni umane e di ripartire dalla
propria fragilità come prospettiva per esplorare con coraggio se stessi e il
mondo.
Maria D’Asaro