Da "Micromega" di oggi
Questo 25 Aprile
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L’anno scorso abbiamo festeggiato il 70° della Liberazione; e noi di MicroMega un piccolo, ma non irrilevante contributo, lo abbiamo dato, con un fascicolo speciale (un primo “Almanacco di Storia”), intitolato, semplicemente, “Ora e sempre Resistenza”. Quel titolo rinvia al testo, celebre, dettata da Piero Calamandrei per la lapide affissa nel cortile del municipio di Cuneo (“Lo avrai camerata Kesserling /il tuo monumento…”); ma quel titolo, al di là della sua giustificata enfasi retorica, ci richiama a un dovere, che oggi, più di un anno fa, più di cinque o dieci anni fa, appare imprescindibile e cogente. Il dovere di difendere quella libertà, quei diritti politici, quello Stato sociale che la lotta dei partigiani ci ha consegnato.
Certo la liberazione dal nazifascismo fu opera anche delle truppe alleate (non dimentichiamo tuttavia il prezzo pagato dalle popolazioni civili italiane, dalle città distrutte dai bombardamenti…), ma il contenuto sociale dell’Italia repubblicana nacque esclusivamente dall’opera sapiente e preveggente dei Costituenti, che raccoglievano le istanze profonde del partigianato. E quel contenuto fu espresso in un documento, un testo di poche essenziali e densissime pagine, senza fronzoli, che si chiama Costituzione Italiana: il prodotto, certo imperfetto, ma nell’insieme di straordinario valore, su tutti i piani (non escluso quello stilistico-lessicale, come proprio Calamandrei mise in evidenza), del lavoro rapido e intenso di un pugno di rappresentanti delle forze politiche che avevano costituito il tessuto antifascista del Paese; ma nel contempo quel testo raccoglieva il bisogno di rinnovamento, le ansie persino palingenetiche di vastissime masse popolari, di ceti medi, di contadini, di classe operaia e della parte più illuminata della borghesia.
Quel testo, nella sua forma quasi perfetta, bilanciava quasi perfettamente, pure con qualche forzatura in un senso o nell’altro, le diverse anime dell’Assemblea Costituente: la laica, la cattolica, la socialista, la comunista. Quel documento era, insieme, un trattatello di diritto pubblico (che disegnava mirabilmente ruoli e funzioni dei soggetti istituzionali, equilibrando con sagacia i diversi poteri dello Stato), un saggio storico (che seppelliva la pagina fascista della vicenda italiana), un manifesto programmatico (che impegnava la Repubblica di cui era carta costitutiva a disegnare un futuro di pur relativa giustizia e progresso sociale).
Perché ho detto che oggi l’anniversario del XXV Aprile è persino più importante di quello “tondo” del 70°? Perché, addirittura, ritengo che sia più importante di tutti quelli che lo hanno preceduto? La risposta è ovvia. Neppure nei tempi peggiori dello scelbismo, del craxismo, del berlusconismo, la Costituzione è stata in pericolo come ora. Quando Berlusconi e sodali tentarono di alterarla, furono fermati dal voto popolare. E comunque quel voto, allora, godeva del sostegno del principale partito di opposizione, il cosiddetto “Partito democratico”. Ma se guardiamo a quel medesimo partito oggi, a ben riflettere, non possiamo esclamare: “Quam mutatus ab illo!”: Matteo Renzi, in fondo, non ha fatto che portare a termine la mutazione genetica del partito, che oggi ha perso qualsiasi residuo aggancio non soltanto con la tradizione del comunismo italiano (ben diversa da quella del comunismo staliniano), ma con l’intero bagaglio della sinistra; da barriera fondamentale contro i tentativi di manomissione della Carta costituzionale ne è diventato il primo artefice.
Oggi, perciò, la battaglia per difendere quella che il guitto Benigni aveva decantato come “la (Costituzione) più bella del mondo”, salvo poi saltare sul carrarmato renziano che sparava contro quella stessa Costituzione, parte da un handicap: in Parlamento, in sostanza, ci sono forze di minoranza, e per di più eterogenee, che proveranno a resistere, ossia a fare opposizione; su fronte opposto, forza di maggioranza, c’è il PD: la sua dirigenza, incredibile erede, di buona parte delle anime dell’Assemblea Costituente, è il motore primo della “riforma” costituzionale, portata avanti in modo arrogante, contro la quasi totalità dei costituzionalisti italiani, e larghissima parte del mondo intellettuale.
Per preparare il terreno a questo terremoto istituzionale, ci hanno detto che la Costituzione è antiquata: eppure non ha ancora compiuto il settimo decennio. Quelle dei Paesi di grande tradizione democratica, dal Regno Unito agli Usa, durano da secoli. E per abolire il Senato (finta abolizione, peraltro, come quella delle Province) hanno usato la propaganda antipolitica più becera, quella che dovrebbe toccare il cuore dell’italiano medio, che si indentifica nel portafogli: ridurre i costi della politica. Ma chiunque sa che i costi sono ridicoli, e che alla fine, non diminuiranno affatto, ma in compenso accanto a una Camera di nominati dal partito di maggioranza relativa che prende la maggioranza assoluta dei seggi, si affiancherà un Senato di designati dai Consigli regionali e dalle principali città: doppio incarico, con quale beneficio per l’efficienza del sistema non si vede. Ma con una perdita secca della possibilità di quel controllo incrociato fra le due Camere che è fondamentale per evitare errori, sviste, svarioni…
Il PD, che questa “impresa” ha portato avanti con determinazione degna di miglior causa, a prezzo di rompere ogni tessuto sociale, di frantumare definitivamente lo spirito residuale della stessa unità “ciellenistica”, si presenta come la vera destra “perbene” in Italia: dato che non è riuscito alla sua leadership del PD di “aiutare” la trasformazione di Forza Italia e della Lega Nord in forze di destra “moderna” ed “europea”, oggi quella dirigenza ha deciso, in fondo coerentemente, che toccava al PD rappresentare quella destra che in Italia latitava. Ed ecco, appunto che il PD diventa, nella sua larga maggioranza, con qualche brontolio discorde della cosiddetta “minoranza interna”, il guastatore della Costituzione.
La Costituzione che alcuni dei più vecchi esponenti di quel partito si ostinano a riconoscere essere “nata dalla Resistenza”, e vengono tollerati, nell’attesa che la natura faccia il suo corso e li spazzi via. Come Renzi, la sua potentissima e incompetentissima ministra Boschi, con l’ausilio di impresentabili figure pubbliche a cominciare da Denis Verdini, si apprestano a fare non solo con la Costituzione, ma con lo Stato liberaldemocratico: il combinato disposto legge elettorale (il famigerato Italicum) e “riforma costituzionale”, pone le basi per un “superamento” morbido della stessa forma democratica. Se poi aggiungiamo il controllo che ormai in modo quasi totale Renzi esercita sulla Rai (più in generale direi sulla radiotelevisione italiana), gli accorpamenti di testate giornalistiche, le nomine alla testa delle grandi holding pubbliche, delle istituzioni (dal Consiglio superiore della Magistratura alle diverse forze armate e servizi di sicurezza), il regime è disegnato.
Oggi, perciò, in attesa dei referendum d’autunno, la celebrazione della Liberazione deve rappresentare un monito e un impegno per quanti si rendono conto che la posta in palio è enorme. E si chiama Welfare, si chiama diritti sindacali, princìpi di libertà, possibilità di effettiva partecipazione alla cosa pubblica, sovranità del Potere legislativo (il Parlamento, ridotto a manipolo di ascari obbedienti), indipendenza del “Terzo Potere” (l’ordine giudiziario, non a caso sottoposto ormai ad attacchi quotidiani dal presidente del Consiglio o da suoi emissari, come ai tempi di Berlusconi)…; l’elenco è troppo lungo.
In breve, oggi ribadire, in ogni situazione e contesto, il motto “Ora e sempre Resistenza”, è tutt’altro che un gesto rituale: oggi è e deve essere un grido di battaglia. Che è appena cominciata. E va portata fino alla sua conclusione. Difendere la Resistenza, oggi, salvaguardare la Costituzione che è il frutto più rilevante di quella stagione eroica del ’43-45, significa dire NO alla “deforma” renziana, no all’Italicum, no alla fine dello Stato di diritto, anche se l’operazione ci viene presentata come esempio del necessario ricupero di una “modernità” della “vecchia” Italia. Se questa è la modernità, se questo è essere riformatori, ebbene, proclamiamoci francamente conservatori. Ci sono cose da conservare, senza vergognarsene; e la Costituzione repubblicana (con il suo patrimonio politico, culturale e sociale, frutto della lotta armata contro il regime mussoliniano) è al primo posto tra esse.
(25 aprile 2016)
1 commento:
Anche a me l'articolo di Angelo d’Orsi è piaciuto molto.
Ciao, Elio
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