“Repubblica – Palermo”
17.3.2016
PER PROFESSORI E GIUDICI IMPERDONABILE IL PECCATO DI “FARE”
Davvero bella
l’idea di raccontare dieci storie di insegnanti palermitani che, in vari modi e
in vari contesti, ampliano il loro servizio pedagogico ben al di là delle ore e
degli spazi scolastici. Talmente bella – anche perché insolita – da meritare
qualche sottolineatura rafforzativa e qualche considerazione probabilmente
sottintesa (ma meritevole d’essere esplicitata).
Una prima
osservazione riguarda la solitudine, non solo istituzionale ma anche sociale, a
cui quei dieci docenti - come le altre
centinaia, forse migliaia, di colleghi che vivono esperienze analoghe di
volontariato – sono di solito condannati. Che dirigenti e insegnanti non siano
in grado (per impegni familiari, per condizioni di salute, per problemi
psicologici o per altro) di lavorare - e
gratis – oltre l’orario di servizio è comprensibile e legittimo: come
raccomandava don Primo Mazzolari, bisogna impegnarsi senza pretendere che altri
s’impegnino come noi. Meno comprensibile – e per nulla legittimo – che quanti
si limitano ai propri compiti istituzionali dedichino il tempo libero allo
sport di denigrare, con tutte le
cattiverie possibili, i colleghi più volenterosi: “Lo fa per mettersi in
mostra”, “Se avesse marito e figli se ne starebbe buona a casa”, “Evidentemente
ha dei vuoti affettivi da compensare”, “Ognuno si sceglie il giocattolo adatto
alle proprie nevrosi”, “Forse si sta preparando a candidarsi alle prossime
amministrative”…Avviene in tutti gli ambiti professionali, non solo nel mondo
della scuola: soprattutto nel settore pubblico. E, secondo alcuni osservatori
acuti, soprattutto nel Meridione. Giovanni Falcone, conversando con il giornalista
Luca Rossi, sosteneva ad esempio: “Gente che occupa i quattro quinti del suo
tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel
momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare. Basta, questo non è
serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa. Chiunque
è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto
quello che si può dire. Non si può chiedere perché. Non si può chiedere a un
alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di
filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o
quando si soddisfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi.
Invece, aveva ragione lui. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda
perché una persona fa una determinata cosa, ma: cosa vuole. Il senso della collettività non esiste, c’è solo un
sistema complesso e intrecciato di interessi privati” (cfr. I
disarmati, pp. 320 – 326) . Quando un collega - a scuola o in ospedale, in
fabbrica o in ufficio – s’impegna più di noi scatta, per autodifesa, una sorta di ostilità nei suoi confronti:
temiamo che, senza che nessuno lo progetti, si stabiliscano delle comparazioni
a noi sfavorevoli. Nella melma della mediocrità anche eventuali inadempienze
rientrano nell’accettabile.
Questo non
significa che le critiche agli stakanovisti siano sempre infondate. Non lo sono
almeno in un caso (non frequentissimo, ma neppure raro): quando l’impegno extra compromette, anziché integrarla, l’esecuzione
corretta dell’ordinario. Un rischio
della scuola dei “progetti”, in direzione della quale spingono i governi
nazionali degli ultimi vent’anni, è che il professore (anche per legittimo
desiderio di completare lo stipendio) si dedichi a preparare gare di atletica o
di matematica, a girare l’Europa per viaggi d’istruzione o gemellaggi o stage,
ad accompagnare gli alunni a convegni di metafisica all’università o a cortei
pacifisti per le strade…tralasciando la grigia fatica dell’insegnamento curriculare.
Insomma: che si dedichi (anche con generosa gratuità) a tutto, tranne che a
migliorare la propria prestazione professionale. Sulla base di questi criteri
di valutazione, un docente, silenzioso e riservato, che lavori sodo per essere un buon docente
(soprattutto per suscitare negli alunni interessi e passioni) è molto più
prezioso alla società di colleghi più creativi che dovessero inventarsi
assistenti sociali o psicoterapeuti per coprire (forsanche inconsapevolmente) il
deficit di vocazione.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Ciao Augusto,
tu affronti un tema fondamentale per me, per tanti anni in cui ho lavorato nella scuola e anche ora che lavoro come volontario nell'insegnamento della lingua italiana in un centro di accoglienza per immigrati. Devo subito dirti che la categoria degli insegnanti - meglio, quella che io considero la realtà umana degli educatori - ha costituito per me, spesso una grossa delusione; per l'impegno , o meglio per la sua mancanza, per la poca attenzione all'umano, prioritaria nella relazione educativa: questa, ritengo, sia stata la grande capacità e il segreto di don Lorenzo Milani, così come ho potuto vedere nell'unica occasione in cui l'ho incontrato e che mi ha segnato per sempre. Giustamente tu sottolinei, la competenza professionale, che deve essere alla base del rapporto insegnante-alunno. Ebbene ne ho incontrata spesso assai poca: alcuni colleghi si vantavano di non essersi mai più aggiornati e di aver letto pochissimo dopo la tesi. Li ho visti venire a insegnare con libri consunti, senz'altro pregevoli, ma che risalivano agli anni lontanissimi delle superiori! E poi, avevano davanti dei numeri, non delle persone: ho sentito molti di loro che non conoscevano il nome dei propri studenti dopo averli avuti per tre anni, talvolta addirittura per cinque! Oggi per usare un'espressione profetica "pasoliniana", siamo davanti a una mutazione antropologica della società, ma anche degli stessi giovani: i valori , su cui si costruiva l'identità, sono mistificati, se non rimossi, nella quasi totale indifferenza di chi dovrebbe educare! Sono in pensione ormai da quasi dieci anni, ma vado spesso nelle scuole e incontro colleghi che ancora ci lavorano, ebbene, sembrano tutti frustrati, ma di questo non se ne parla. Che cosa è diventata la scuola? Un abbraccio
Mauro
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