“Centonove”
3.3.2016
CALI’: “E IO NON PAGO”
La vicenda di Gianluca Maria Calì - imprenditore bagherese che si rifiuta di
sottostare al racket mafioso accettando di intraprendere, con l’aiuto
altalenante dello Stato, una via impegnativa dalla lunghezza imprevedibile –
non è, per fortuna, unica. Ma resta, comunque, ancora rara. E anche per questo
preziosa. Essa costituisce il nucleo principale del volume di Francesca
Calandra e Antonino Giorgi, Io non pago. La stra-ordinaria storia di
Gianluca Maria Calì, Ipoc, Milano 2015, pp. 155, euro 15,00. Il
racconto – a cui avrebbe giovato qualche inflessione retorica in meno - è
preceduto da alcune proposte interpretative (a firma di un politico di
professione, di un attore cinematografico e di due psicologhe) e seguito da tre sezioni
distinte.
Nella prima e
nella seconda di rievoca e si sintetizza la lettura dello “psichismo mafioso”
secondo il modello elaborato dagli
studiosi della Gruppoanalisi Soggettuale:
il mafioso, come ogni altro individuo, è indecifrabile se non nel
contesto relazionale (familiare, ma più ampiamente sociale) in cui viene concepito, partorito e allevato.
Anche nel loro caso la patologia
consiste nell’accettare, più o meno consapevolmente, di rinunziare a una
propria identità mentale e psichica: di “essere pensati da un noi che permea
totalmente l’io”. E’ solo grazie a questa rinunzia che i mafiosi possono
agire - come i nazisti o gli stalinisti
– senza avvertire contraddizione fra la loro morale quotidiana e i crimini
commessi nell’esercizio delle proprie funzioni (per così dire) istituzionali.
Ed è questo uso “gelido e chirurgico” della violenza che riesce, spesso, a
immobilizzare la vittima di mafia, spiazzato dalla percezione di essere
bersaglio non di altri esseri umani (con cui si possa, in qualche modo,
negoziare) quanto di una macchina anonima, senza volto, inesorabile. Talora,
tuttavia, come nel caso di Calì, la vittima riesce a destrutturare le rete,
intrecciata di minacce reali e pericoli illusori, in cui l’organizzazione mafiosa tende ad
accalappiarla: specialmente se la rete criminale viene bilanciata da una rete
di solidarietà democratica (intessuta da altri cittadini e da pezzi sani dello
Stato) che si palesa come alternativa concreta alla prostrazione. Il soccorso che può arrivare da consulenti
filosofici e psicologici, in particolare, dovrebbe concentrarsi su questa
direzione: aprire - alla mente e
all’immaginazione della vittima- ipotesi
di liberazione, scenari altri. E tale apertura di alternative sarà più praticabile via via che alle vittime di oggi
si potranno raccontare le storie (confortanti) della ribellione – coronata da
successo - di sempre più numerose
vittime di ieri.
Nella
terza, e ultima, sezione del libro sono raccolti alcuni attestati di
solidarietà, sinora pervenuti al protagonista principale, che compensano il
clima di indifferenza – se non addirittura di diffidenza – che troppo spesso,
ancora, il “testimone di giustizia” (da non confondere con il “collaboratore di
giustizia”, giornalisticamente denominato “pentito” !) si trova intorno a sé e
alla propria famiglia. E ciò nonostante egli non intenda assumere pose da eroe
e ribadisca, a ogni occasione, di essere un cittadino normale che sta
attraversando una vicenda straordinaria di
fatto, statisticamente, ma del tutto ordinaria
di diritto, in linea di principio.
Chiude il
volume un breve “inquadramento storico-sociologico” di Cosa Nostra dalla fase
di incubazione dell’organizzazione (tra Settecento e Ottocento) ai nostri
giorni, passando per le varie fasi (agraria, urbana e – aggiungerebbe Umberto
Santino - finanziaria) in cui il filo rosso della continuità si srotola senza
perdere la luciferina capacità di trasformazioni e adattamenti.
Augusto
Cavadi
www.augustocavadi.com
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