Blog di “Petite
Plaisance”
17.1.2016
Perché il
Sud non decolla ?
Ci sono dei libri che un cittadino italiano
mediamente istruito – soprattutto se vive al di sotto del parallelo di Napoli –
dovrebbe assolutamente conoscere: Perché
il Sud è rimasto indietro (Il Mulino, Bologna 2013), di Emanuele Felice, è
uno di questi. Ma, dal momento che non tutti hanno il tempo - né soprattutto la
voglia – di leggerlo, proverò a sintetizzarlo (senza tacere la speranza che
l’aperitivo svegli un po’ di appetito).
L’autore
esamina, opportunamente, le risposte errate (o, per lo meno, esatte solo
parzialmente), raggruppandole in due famiglie principali. All’area
“accusatoria” appartengono le tesi di chi punta il dito sui meridionali stessi
(o perché tarati geneticamente o perché incapaci di cooperazione sociale);
all’area “assolutoria” appartengono le tesi di chi attribuisce il ritardo del
Sud al Nord sfruttatore o alla svantaggiosa collocazione geografica rispetto
alle risorse naturali (energia idraulica) e ai mercati continentali. Lo
smontaggio di queste tesi (e il recupero dei frammenti di verità in esse
contenuti per proporre una risposta più convincente) occupa i tre capitoli del
volume.
NEL 1861 IL
SUD BORBONICO STAVA MEGLIO DEL SETTENTRIONE?
Nel primo
capitolo si fa chiarezza sulla situazione di partenza: nei decenni
precedenti all’unificazione italiana il
Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie avevano imboccato strade
diverse, quasi opposte: regime costituzionale e imprenditoria diffusa nel
primo, assolutismo monarchico (“la negazione di Dio eretta a sistema di
governo” secondo William Gladstone) e
“imprenditori dell’arretratezza” (John Davis) nel secondo. Il divario non è
minore, checché ne scrivano gli “storici borboniani”, se si considerano “le
infrastrutture di trasporto, finanziarie e sociali che hanno sempre svolto un
ruolo fondamentale per attivare la crescita economica”: strade e ferrovie,
banche, sistema scolastico e universitario (nella stessa fascia temporale –
seconda metà dell’Ottocento – nel regno dei Borboni gli analfabeti erano l’86%
della popolazione, laddove nel resto d’Italia – a esclusione di Roma e Veneto –
erano il 63%: perfino Spagna col 75% e Russia zarista con il 79% stavano meglio !). Meno esattamente
calcolabile il divario del reddito medio pro
capite. Una conclusione plausibile fisserebbe tale divario “tra il 15 e il
25%” a favore del Nord, ben differente dalle stime, più ideologiche che
scientifiche, di autori come Pino Aprile nel suo Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud
diventassero meridionali (Piemme, Milano 2010). Se il reddito medio pro capite viene poi confrontato con i
livelli di reddito sotto i quali si poteva parlare di povertà totale si hanno
dei dati più significativi (e per certi versi più impressionanti): “Al 1861, se
nel Centro-Nord il 37% della popolazione
si trovava sotto la linea di povertà assoluta, nel Mezzogiorno tale quota
saliva al 52 % (la media italiana era 44). In altri termini, al Sud Italia i
poveri erano in percentuale fra un terzo e una metà più numerosi che nel
Centro-Nord. Questo vuol dire non solo che nel Mezzogiorno vi era una quota più alta di indigenti – il
che non stupisce, visto che il reddito medio era più basso -, ma anche che tale
quota era ben maggiore di quel che ci si aspetterebbe stanti i divari di
reddito. Tutto ciò può avere una sola spiegazione: nel Mezzogiorno la
disuguaglianza era più alta. Non solo quindi risultava minore il reddito, ma
questo si distribuiva in maniera meno equa”. Il divario fra il Centro-Nord e il
Sud d’Italia al momento dell’unificazione è confermato da altri indicatori
quali la statura (“Al 1861 i
centimetri che separavano il Centro-Nord dal Meridione erano 3,2”: 164, 1 cm.
contro 160,9, su una media italiana di
162,9), l’aspettativa di vita (circa
due anni in meno), il lavoro minorile
(che, nel 1861, raggiungeva una media dell’80% al Sud contro il 50% del Centro
– Nord). Sinteticamente: “La disuguaglianza si univa alla miseria, dunque,
bloccando lo sviluppo: economico, ma anche umano e civile. Come in un
cortocircuito, tragico e fatale”.
Da qui la
domanda: “Quali erano le cause di questo
‘circolo vizioso’ ?” A Giustino Fortunato si deve il binomio “povertà della
natura” e “miseria degli uomini”: ma se la prima può aver causato la seconda in
alcune regioni (come Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria), per altre regioni
(Campania, Puglia e Sicilia) è più convincente l’inverso: è stata “la miseria
degli uomini a provocare la povertà della natura”. Già al tempo dei Romani i
senatori costruirono i loro latifondi depauperando i piccoli proprietari spediti a combattere per il
mondo. Poi il regime feudale (vigente sino all’inizio del XIX secolo) blindò,
con una “disuguaglianza giuridica”, “una diseguaglianza feroce” dei redditi.
DAL 1861 A
OGGI IL DIVARIO FRA NORD E SUD E’ DIMINUITO?
Appurata una
discrepanza al momento dell’unificazione italiana, come mai tale gap è rimasto sino ai nostri giorni? Nel
secondo capitolo Felice propone la categoria interpretativa della
“modernizzazione passiva” ovvero “l’adattamento delle classi dirigenti e della
società meridionali a una modernità imposta dall’esterno, in primo luogo dallo
stato centrale, che viene accettata solo fintanto che non mette in discussione
gli interessi consolidati”. Per misurare i cambiamenti introdotti dalla
modernizzazione (intendendo con questo vocabolo il processo avviato, secondo
Hobsbawm dalla “duplice rivoluzione” industriale e francese) si usa lo Hdi (Human Development Index o Indice dello
sviluppo umano), una misura che include tre fattori: “risorse, conoscenza e longevità”. La scelta della modernizzazione
“passiva” è solitamente effetto di politiche “estrattive” (Acemoglu e
Robinson), cioè tese a “estrarre reddito e ricchezza da una parte larga della
società, a beneficio di una frazione privilegiata”: all’opposto, insomma, delle
politiche “inclusive” che, invece, “tendono a favorire la partecipazione dei
cittadini, comprese le classi subalterne”, tutelando ”i diritti di proprietà”
nel contesto, più ampio, di “un sistema di legalità efficiente e uguale per
tutti” e garantendo “servizi pubblici essenziali che ambiscono a porre tutti i
cittadini su uno stesso livello di partenza”. Nel Meridione italiano un esempio
tipico di modernizzazione allogena, e dunque condannata a restare incompleta, è
stato l’intervento della Cassa per il Mezzogiorno, in virtù della quale –
effettivamente – fra gli anni dal 1957
al 1973 il divario fra Sud e Nord d’Italia si accorciò notevolmente. Ma,
poiché “la crescita basata sulla modernizzazione passiva appariva un corpo
estraneo rispetto all’economia e alla società meridionali”, bastò la crisi
petrolifera del 1973 per bloccarla. Nel ventennio successivo si assistette così
alla “lunga agonia dell’intervento straordinario” (Cafiero), complice anche una
politica clientelare che indirizzava i flussi di denaro pubblico “in misura
crescente verso impieghi improduttivi”. I risultati furono (e sono )
disastrosi: uno “sviluppo senza
autonomia” (Trigilia), quando non un generoso finanziamento a favore della
criminalità organizzata. Né la situazione è migliorata, dopo Tangentopoli, con
la Seconda Repubblica: la cosiddetta “nuova programmazione” (2000- 2006) non ha
dato frutti come non li ha dati il sistema di contributi dell’Unione Europea
dal momento che le regioni del Mezzogiorno hanno dimostrato, sino ai nostri
giorni, “una sconfortante incapacità perfino di utilizzare i finanziamenti
comunitari, cioè di spendere le somme formalmente già stanziate”.
Il quadro non
è più confortante se si passa dal piano dell’economia al piano dell’istruzione.
Sino al 1911 il divario fra Nord e Sud era notevole perché la gestione delle
scuole era affidata ai Comuni, ma quell’anno la legge Daneo-Credaro spostò la
competenza (e i relativi costi) dagli enti locali allo Stato: l’operazione
comportò il superamento del gap “non
perché le istituzioni locali fossero diventate consapevoli delle loro
responsabilità, ma perché ne erano state sollevate”. Poiché una
“modernizzazione passiva” resta fragile e lacunosa, il divario fra Settentrione
e Meridione è rimasto – anzi si è acuito – nell’età repubblicana per tutti
quegli altri indicatori che “definiscono l’accesso alla cultura , ma dove le
classi dirigenti locali hanno mantenuto un ruolo decisivo: il numero di
biblioteche per abitante, di teatri in attività, più tardi anche di cinema, ma
soprattutto i libri pubblicati e i giornali stampati in rapporto alla
popolazione”. Anche all’interno del sistema scolastico si registra in tempi a
noi più vicini una differenza per così dire qualitativa: “un anno di istruzione
non ha lo stesso valore al Sud come al Nord: a parità di tempo trascorso sui
banchi di scuola, al Sud si impara di meno”.
Più
consolante la situazione dal punto di vista della salute (in particolare
dell’aspettativa di vita): tra il 1891 e il 1981, debellate le malattie
infantili e infettive (vaiolo, malaria, colera), il Sud non solo raggiunge i
livelli del Nord, ma (per via di vari fattori, fra cui la dieta mediterranea e
il minor tasso di inquinamento industriale) li supera. Poiché, però, a partire
dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978), è aumentato
progressivamente il ruolo delle regioni (finanziatrici della aziende sanitarie
locali e delle aziende ospedaliere) si è di nuovo aperta una forbice fra il
Settentrione (dove le amministrazioni locali sembrano più virtuose) e il
Meridione (dove “le istituzioni politiche estrattive hanno usato il loro nuovo
potere per distribuire fondi e favori alle rispettive fazioni, seguendo logiche
clientelari e nepotistiche”), al punto che “anche riguardo all’aspettativa di
vita negli ultimi decenni il Mezzogiorno ha ricominciato a perdere posizioni”.
Purtroppo la
distanza fra Nord e Sud non muta neppure se si considera la condizione delle
donne e degli omosessuali: indagini sociologiche e statistiche abbastanza
attendibili mostrano come “ancora oggi un cittadino meridionale sia meno libero
di vivere la vita che vorrebbe - si badi
bene: secondo quelli che sono i canoni della modernità – rispetto a un cittadino
del Centro – Nord”.
L’insieme
delle risultanze acquisite consente di affrontare una questione emblematica:
“perché nell’arco della storia postunitaria le mafie non sono state debellate?”
Si possono aggregare alcuni spezzoni di risposta. Il fenomeno mafioso
“costituisce un aspetto interno alla costruzione dello Stato nazionale
italiano, non un semplice fenomeno di banditismo sociale o di pura criminalità”
(Bevilacqua). Inoltre esso è abile nel raccogliere il consenso sociale da vari
strati sociali, privilegiando il rapporto organico con i ceti dirigenti. E ciò
nonostante i gravi danni che comporta, nel lungo periodo, per l’economia delle
regioni interessate. Tra queste (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) e le
regioni del Nord il “divario sembra attenuarsi negli ultimi decenni. Ma
non perché il Mezzogiorno sia riuscito a riscattarsi. Piuttosto, perché i suoi
mali si sono estesi al resto del paese: sia alle istituzioni nazionali, sia a
quelle locali del Centro-Nord, ivi compresi i territori tradizionalmente più
avanzati (si veda il caso della Lombardia). Insomma, di male in peggio”.
PERCHE’ IL
SUD E’ RIMASTO SINO A OGGI INDIETRO RISPETTO AL NORD ?
Tirando le
fila dei primi due capitoli Felice può infine dedicare il terzo – e ultimo – alla
domanda che dà il titolo all’intero volume: “Perché il Sud è rimasto
indietro?”. La risposta lombrosiana, con le sue più recenti riedizioni, non
regge alle obiezioni storiche e scientifiche: le popolazioni meridionali non
costituiscono una “razza maledetta”,
biologicamente e mentalmente inferiore ad altre, anche perché la nozione di
“razza” è ingiustificabile. Più plausibili le risposte di chi analizza i fattori
etici, sulla scia di Weber, anche se questi vanno strettamente collegati con i
fattori politici: il “capitale sociale” di una popolazione può migliorare e
quando ciò non avviene, o avviene in misura deludente come nel Mezzogiorno
italiano, bisogna attribuire il ritardo alla “struttura di potere” e ai
“deprecabili effetti che da tale struttura promanano” (“l’etica particolaristica,
le pratiche clientelari, il peso delle organizzazioni criminali”). A Felice non
risultano del tutto convincenti le risposte basate sulla posizione geografica
del Sud: “nella nostra epoca sempre più sono gli uomini che fanno il proprio
destino. La geografia può rappresentare al massimo un’opportunità, che
oltretutto bisogna saper cogliere”. Neppure una quarta risposta - il Sud sfruttato dal Nord – convince
l’autore: a suo avviso i dati testimoniano che lo Stato italiano ha spesso
investito nel Sud più di quanto vi ha prelevato e che, “ai nostri giorni, le
spese dello stato tanto per la sanità , quanto per l’istruzione, sono in
rapporto al reddito (e alla contribuzione) maggiori al Sud che al Nord; e sono
maggiori le spese totali dello stato per abitante, in tutte le regioni del Sud,
di norma di 20 – 30 punti percentuali
sulla media italiana”.
I meridionali
sono stati sì sfruttati, ma non dai settentrionali, bensì “dalle loro stesse
classi dirigenti”. E “specie negli ultimi decenni gli sfruttati furono essi
stessi complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare”.
LE DUE
STRADE CHE IL MERIDIONE ITALIANO SI TROVA DAVANTI
Al punto in
cui siamo, il Sud dell’Italia ha davanti due vie. La prima, più comoda ma più
disastrosa, è di “proseguire lungo lo
stesso cammino che è stato percorso negli ultimi quarant’anni: senza cambiare
nulla, attendere una manna che si fa sempre più rada; nel frattempo continuare
a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli
indicatori della modernità, rispetto agli altri paesi avanzati. E’ la
prospettiva più probabile, ma non obbligata”. Vi è infatti una direzione
alternativa (“più difficile, ma non impossibile”), la strada del “riscatto”:
“rifondare la vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando
in questo modo un autonomo processo di modernizzazione attiva; una
modernizzazione che forse aiuterebbe l’Italia tutta a uscire dalle secche in
cui è finita” .
A giudizio
dell’autore un elemento fuorviante, che potrebbe distogliere dall’imboccare la
direzione del “riscatto”, sarebbe costituito dall’idea “secondo cui nel Sud
Italia tutto sommato si viva bene; o meglio, che la mancata modernizzazione sia
una condizione naturale del Mezzogiorno, cui guardare con indulgenza”. Felice
individua due padri nobili di questa risposta (Camus e Pasolini), ma li assolve
attribuendo a epigoni come Franco Cassano (più o meno in sintonia con le teorie
generali di Serge Latouche) la responsabilità di renderla “mistificatoria”. Qui
si dovrebbe aprire una discussione che renderebbe davvero troppo lungo questo
sunto del libro di Felice: mi accontento di segnalare il dubbio che l’autore
identifichi modernizzazione con industrializzazione e ritenga nemici della
prima quanti sono avversari, soltanto, della seconda.
Augusto Cavadi
1 commento:
Quando leggo queste parole non posso fare a meno di ricordare il Gattopardo, dive il principe Fabrizio dice che i siciliani amano l'oblio più di ogni altra cosa. Un desiderio di morte dice ancora il principe. E' vero, una volta era il clima aspro, pesante,snervante. Il caldo soffocante che abbatteva ognuno, ora è il clima dell'incertezza e della perenne rassegnazione. Così vanno le cose...E che ci possiamo fare ?...E allora niente tira a campare. Questo è il siciliano medio. Amaro e disilluso. I giovani sono a metà tra la rabbia, lo schifo per essere nati qui e non al nord, la voglia di scappare e la voglia di dormire ed annullarsi per l'appunto nell'oblio.Le cause dell'arretratezza del sud ? Non abbiamo più lo stupor mundi. Il grande Federico che aveva fatto della Sicilia la culla della civiltà.Dopo di lui il grande saccheggio operato da una nobiltà incancrenita sui propri privilegi. La mafia è forse nata da un estremo tentativo di difesa da parte del popolo che si è rifugiato tra le braccia di pochi capintesta. Tutto il resto lo conosciamo....purtroppo
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