LO SMARRIMENTO E OLTRE
Dal punto di
vista fenomenologico, descrittivo, non c’è bisogno di spendere molte parole
sulla frequenza e sull’intensità del senso di smarrimento da parte dell’uomo
contemporaneo. Può non essere superfluo aggiungere che questa condizione
esistenziale è un privilegio della nostra epoca: come osservava Malraux, siamo
la prima generazione nella storia che non sa bene cosa ci stia a fare al mondo.
Possiamo nominare in molti modi tale senso radicale di smarrimento e uno dei
più eloquenti è “nichilismo”. Nietzsche l’ha saputo rappresentare in maniera
anche letterariamente suggestiva nel famoso brano dell’uomo apparentemente
folle che in pieno giorno cerca Dio al mercato con la lanterna accesa per
annunziare che Dio è morto: “Non è il nostro un eterno precipitare? E
all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un
basso ? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” Come ha
spiegato in maniera convincente Heidegger , la morte di Dio non è una questione
teologica (o non soltanto): è la metafora della scomparsa di valori perenni, di
punti di orientamento universalmente condivisi. E’ l’eclissi della verità e
dell’etica.
In questa
situazione chi di noi esercita pensiero è esposto a una duplice tentazione. La
prima è di eccitarsi all’idea che – per dirla con Dostoevskij – “se Dio è morto, tutto è permesso”. Che
senza un padre occhiuto e repressivo comincia l’era della libertà piena: “senza
tetto né legge”. Ma Foucault non è l’unico ad avvertirci che c’è poco da
rallegrarsi: la morte di Dio preannunzia la morte dell’uomo. L’antropologo
Ernesto Di Martino raccontava di un popolo nomade di aborigeni australiani, gli
Achilpa, che ogni sera piantavano al centro del proprio accampamento un palo che,
il giorno dopo, con la propria inclinazione, indicava la direzione da
intraprendere. Quando una mattina trovarono il palo spezzato si lasciarono
morire per lo scoramento causato dal disorientamento. Il palo infatti – ricorda
John Berger – è la linea verticale che congiunge la terra al cielo, i defunti
agli dei: potremmo aggiungere, la
memoria del passato allo slancio verso la trascendenza. Sino a quando c’è un
palo intorno cui costruire la tenda c’è una “casa” da cui partire e a cui
ritornare.
Per
evitare la vertigine dello smarrimento altri intellettuali - specie se dediti a “professioni di aiuto” –
cedono alla tentazione opposta: precipitarsi a offrire una ciambella di
salvataggio ai naufraghi. E’ il salvagente della “normalità” statistica. “Non
disperarti: fa’ come fanno tutti. Trovati un appiglio: la famiglia d’origine,
un lavoro, una relazione affettiva stabile. Meglio ancora dei figli al cui
futuro dedicarti. Forse anche qualche hobby
di qualità – come la musica o i viaggi. E, se ne avverti l’esigenza, una
pratica religiosa all’interno di una appartenenza ecclesiale”. Ma questa
tattica non sempre funziona. In quello che ritengo il suo capolavoro, La dolce vita, Federico Fellini l’ha
saputo raccontare da par suo: uno dei protagonisti ha tutto ciò che la vita può
offrire (dagli affetti alla ricchezza economica, dalla sensibilità artistica al
successo professionale), ma ciò non gli impedisce di togliersi la vita dopo
aver soppresso i due bambini adorati. E quand’anche la strategia del “fare come
tutti” funzionasse - come effettivamente in tanti casi - uscire dall’isolamento
per entrare nella massa è una soluzione reale o il surrogato di una soluzione?
Erich Fromm ce l’ha insegnato: prima di usare la psicoterapia per rendere il
paziente conforme agli standard sociali,
bisognerebbe sottoporre a psicoanalisi la società. Se fosse folle il modo di
vivere della maggioranza, sarebbe davvero un servizio condurre il marginale,
l’insofferente, il deviante ad assimilarvisi?
Oggi non ci
resta che abitare il nichilismo: senza il compiacimento di chi ci sguazza e
senza la fretta di uscirne fuori a qualsiasi costo. Accettare di essere
spogliati dalle certezze non vere del passato, ma senza rinunziare a cercare
nuove prospettive più realistiche. Come ricorda Franco La Cecla, secondo il
mito, “solo dopo essere riuscito a non farsi inghiottire dalla confusione e dal
caos del labirinto, Teseo diventa un eroe fondatore e di una città come Atene”[1] . Possiamo
riprendere, per analogia, dal punto di vista filosofico ciò che Bernard Welte
ha sostenuto dal punto di vista teologico: la nostra generazione sta vivendo la
dura prova di confrontarsi con il nulla, ma il nulla può essere il volto con
cui si presenta il vero Dio. Il nulla è ciò che resta quando cadono le immagini
illusorie di Dio, della verità, dell’etica. Il destino della nostra generazione
è di lasciarci guidare dalla “luce del
nulla” ?
Augusto Cavadi
* Gli appunti del mio intervento di ieri alla tavola rotonda
di Misilmeri
1 commento:
Ciao Augusto,
ho apprezzato molto il contenuto del tuo intervento in occasione dell'iniziativa di Misilmeri. Con estrema onestà, senza cercare i soliti (e spesso miserabili espedienti) porti la tua analisi sullo smarrimento che colpisce l'individuo nella società attuale. Credo anch'io che si sia fatta strada una perdita progressiva dello spirito di libertà e di senso critico. E' meglio per molti nascondersi nei consolatori miti della famiglia, della religione o dei moderni social network (spesso ridotti ad autocompiacenti soliloqui), che guardare la realtà con libertà e autenticità di sentire. L'attenzione all'umano nella sua nudità e schiettezza è miserevolmente scomparsa, manca spesso un vero dialogo tra persone con conseguenze devastanti: solitudine e appunto, smarrimento. Questo, lo anticipò un grande educatore (che fu anche un sacerdote "inattuale") don Lorenzo Milani affermando: ogni anima è un universo di dignità infinita. Credo valga per tutti, credenti o laici, ma queste stesse mi sembrano categorie ormai obsolete. Con amicizia,
Mauro
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