“Adista” 10.12.2015
UNA DIFFICILE EREDITA’
L’ingresso del nuovo
arcivescovo di Palermo che, senza riuscire a trattenere le lacrime, ha citato
nel suo primo discorso alla città don Puglisi, Peppino Impastato e la
Costituzione italiana, è stato uno shock benefico. Ma, adesso, lo attende una strada
tutta in salita. Nella diocesi tutti gli indicatori sociologici (dalla
partecipazione alla messa domenicale al numero delle coppie ‘irregolari’) raffigurano una chiesa di cui la stragrande
maggioranza dei giovani e degli adulti istruiti non si riconosce ‘fedele’. Né
la situazione migliora di molto se si contano gli anziani e gli strati
popolari. Come se ciò non bastasse, il clero è frammentato in misura
impressionante. Si va da preti carismatici apprezzati per le qualità intellettuali
e morali che hanno anticipato da decenni
la svolta bergogliana a parroci, in città e in provincia, che non nascondono il
loro spaesamento con parole (“Da due anni siamo orfani di un papa vero”) e
opere (“In questa parrocchia non si vende più cattiva stampa come ‘Famiglia cristiana’ ”).
La storia degli ultimi arcivescovi,
se spogliata da stereotipi edulcoranti, dà il senso della sfida che attende
monsignor Lorefice. E’ abbastanza nota la figura complessa e contraddittoria
del cardinal Ernesto Ruffini. Meno nota la vicenda del suo immediato
successore, il cardinale Francesco Carpino, originario di Palazzolo Acreide e
dunque quasi conterraneo del nuovo arcivescovo ispicese. Si dimise dopo solo
tre anni e Paolo VI, assai rammaricato della fermezza – o dell’ostinazione –
con cui si era rifiutato di restare a capo della diocesi palermitana e aveva
gettato la spugna, lo relegò nel paese siracusano di provenienza (mentre
Carpino avrebbe preferito ritornare in Vaticano). I motivi della decisione
restano in parte “un mistero”, ma sicuramente – secondo le confidenze dello
stesso interessato ad alcuni di noi che andammo a trovarlo nel suo esilio
involontario – influì l’atteggiamento mafioso di alcuni influenti monsignori di
curia di cui egli aveva voluto liberarsi senza riuscirci.
Salvatore Pappalardo, prescelto a
succedergli, all’inizio sembrò portare
un vento di novità conciliare: un vescovo giovane, alieno dai compromessi con i
politici, deciso a rinnovare la sua comunità ecclesiale come contributo al
rinnovamento della comunità civile. Purtroppo, però, il lungo ministero
episcopale di Pappalardo deluse, su molti punti, le aspettative suscitate.
Indisse assemblee diocesane nel segno
della democrazia, ma quando gli espressi delle titubanze su alcune conclusioni
mi commentò: “Ogni tanto bisogna lasciare sfogare la gente. Poi, tanto, le
decisioni le prendo io”. Emanò una circolare in cui chiedeva la pubblicazione
dei bilanci parrocchiali in modo da far rifluire sulle parrocchie più povere le
eccedenze delle più ricche. Quando gli chiesi come mai nessun parroco avesse
obbedito, mi rispose alzando le spalle: “Che ci posso fare? Non posso certo
mandargli i carabinieri”. Alcuni dei preti a lui più vicini si allontanarono
delusi, altri furono allontanati da lui, altri ancora (e non dei meno
autorevoli !) si autosospesero per anni dal ruolo di presbiteri. Purtroppo non seppe supportare neppure don
Pino Puglisi, da lui stesso inviato nella difficile parrocchia di san Gaetano a
Brancaccio: tutte le testimonianze biografiche di chi è stato vicino al parroco
assassinato dalla mafia attestano clamorosi episodi di segno contrario.
Le oggettive difficoltà di gestione di
una diocesi tanto problematica hanno indotto i due arcivescovi successivi, Di Giorgi e Romeo, a tenere un profilo
‘basso’, limitandosi per lo più ad amministrare l’esistente. Basti riflettere a
cosa ne è stato dell’eredità del martirio di don Puglisi: la ‘rivoluzione’
ecclesiale contro ogni contiguità mafiosa si è risolta nel trasferimento dal
cimitero di sant’Orsola a una tomba solenne in cattedrale dei suoi poveri
resti, dopo averli portato in processione per i quartieri. Tale atteggiamento
‘prudenziale’ non ha contrastato, però, il lento declino civico ed economico di
Palermo, città in cui è impossibile mantenere un registro ‘ordinario’ ,
equidistante dal buio delle tragedie come dalla luce della profezia
critica. Ecco perché l’ingresso del
nuovo arcivescovo suscita legittime speranze di cambiamento. Affinché tali
speranze non vengano ancora una volta deluse, ci si augura che il nuovo
presule - in coerenza con il suo stile
attuale – preferisca parlare poco e agire bene. Meglio: parlare con la
concretezza e la determinazione delle sue scelte di governo. Troppo spesso, sinora, gli arcivescovi sono
stati bravi nel tirare le orecchie ai politici senza prima, o
contemporaneamente, fare pulizia a casa propria. Don Corrado Lorefice ha già
dichiarato, giustamente, che come pastore deve ascoltare e accogliere tutti; ma
ciò non lo esimerà dalla responsabilità di scegliersi i collaboratori (a
cominciare dal vicario generale) tra quei preti e quei laici che hanno dato
prova, sinora, di lavorare per i deboli, per i giovani, per le persone in
situazioni problematiche. Per dirla con don Milani, quegli operatori pastorali
che hanno servito i poveri, senza servirsene.
Augusto Cavadi
3 commenti:
Faccio "la ola" per il nostro vescovo, come per papa Francesco ...
Grazie per le tue riflessioni.
Condivido pienamente.
Mauro
Caro Augusto,
il tuo serio e completo excursus sulla nostra Chiesa sotto gli ultimi cinque pastori, è la migliore e più puntuale narrazione possibile. Grazie! Ho vissuto intensamente questa storia tra entusiasmi traditi, passioni mortificate e tantissimo amore. Ti penso compagno e fratello nello stesso cammino di ieri e di oggi. Un caro abbraccio e auguri. Giovanni
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