“Comunicazione filosofica”, 35
Ci sono
libri che un cittadino riflessivo non dovrebbe ignorare. Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (Ipoc,
Milano 2015) di Davide Miccione è uno di questi. Come spesso accade per i testi
‘necessari’, il bibliotecario avrebbe difficoltà a collocarlo in un settore
disciplinare: esso infatti si occupa di tematiche solitamente affrontate da
varie angolazioni (dalla sociologia alla pedagogia, dalla politica alla
psicologia sociale), anche se si tratta essenzialmente di un’opera filosofica.
Non tanto perché l’autore è uno dei più originali (e meno valorizzati)
pensatori del panorama italiano contemporaneo, quanto per la mossa che ha dato
vita al libro: puntare il dito su un dato talmente evidente da non essere più
considerato nella sua estensione né nella sua gravità. Il dato è la sottoproletarizzazione
cognitiva della popolazione italiana. Trasversalmente rispetto agli strati
socio-economici, si registra un impoverimento non solo delle nozioni ritenute
un tempo patrimonio comune dei cittadini adulti istruiti, ma - ciò che più preoccupa – della curiosità di
capire come funziona il mondo. In sovrappiù, cresce la fierezza della propria
ignoranza e della propria nolontà di conoscere. La povertà intellettuale è
arrivata al punto non solo di non riconoscersi come tale, ma addirittura di
interpretarsi come ricchezza.
In una
prima parte del volume Miccione traccia una sorta di “fenomenologia
dell’ignorante ipermoderno” attraverso sia l’osservazione personale sia gli
studi di specialisti (come Graziella Priulla, autrice de L’Italia dell’ignoranza. Crisi della scuola e declino del Paese, o
Tullio De Mauro, autore de La cultura
degli italiani ). Gli elementi per ricostruire l’identikit di questo nuovo Lumpen
sono ricercati nelle aule universitarie e scolastiche prima, fuori dalle
istituzioni deputate alla formazione delle generazioni più giovani dopo.
Nonostante sia impossibile in questa ricostruzione non sorridere davanti a
certe perle (come l’aspirante scrittrice che sogna un futuro costernato di successi letterari), la
tonalità emotiva è di seria mestizia: che prospettive di progresso effettivo si
aprono a una popolazione in cui l’omologazione culturale è avvenuta non
mediante il riscatto degli sfavoriti, bensì il degrado dei privilegiati?
Il quadro dello sfascio del sistema formativo
sarebbe abbastanza preoccupante da solo, ma uno sguardo ai risvolti politici
“nelle piazze” lo rende – se possibile – ancor più tragico. E’ quanto emerge
dalla seconda parte del volume in cui si esaminano alcune metamorfosi
patologiche. La destra aristocratica e istruita di un Einaudi, di un Malagodi,
di uno Scalfaro o di un Montanelli è diventata la “lumpendestra” di Berlusconi,
Bossi, Casini: uno schieramento per il quale l’ignoranza diffusa non è un
“problema, ma una continua fonte di opportunità, anzi essa è addirittura il
prerequisito che ha permesso di cannibalizzare la vecchia e meno incresciosa
destra in doppiopetto”. Non più confortante la situazione a sinistra:
“costruirsi una minima cultura resta sempre una scelta che ogni singolo
individuo deve fare. A una classe dirigente resta il dovere di non essere preda
anch’essa dell’illetteralismo, di non vellicare i basti istinti del popolo, di
mostrare quanto si tenga in considerazione la cultura, di eliminare ogni tipo
di ostacolo sociale ed economico e di manovrare carota e bastone per indurre i
vecchi e nuovi ignoranti a curarsi un po’ di più della propria mente. Insomma
spetta fare tutto il contrario di ciò che accade adesso”. Se ciò vale per i
governi di centro-sinistra (Prodi, D’Alema)
incuneatisi nel ventennio “ipnomediatico” (Tommaso Labranca), ancor più
lo si può ribadire per “un leader berluscoide come Matteo Renzi, che merita una
riflessione a parte” (anche alla luce della categoria “nuovi barbari” proposta
da Baricco). Il risultato finale – almeno sino a questo momento storico in cui
Miccione lancia i suoi accorati appelli – è che, a destra come a sinistra,
“l’idea di un mondo dove governanti e governati possano scambiarsi di posto” e
“si provi a uscire e a far uscire ogni cittadino dalla minorità, è un sogno che
nessuno è più interessato a sognare, per alcuni anzi è un incubo”.
Come è
facile intuire, il ceto politico non avrebbe potuto da solo provocare un
disastro culturale di tali proporzioni senza la complicità di protagonisti
esterni rispetto ad esso. L’autore di questo prezioso libro si sofferma in
particolare su due: la Chiesa cattolica (almeno sino a papa Francesco escluso)
e il mondo degli intellettuali. La prima, dalla Controriforma in poi, ha
accettato e costruito al proprio interno un “doppio registro
elitista-popolare” per il quale è
necessario che “in eterno vi sia tanto il teologo che l’ignorante, tanto il
gesuita sapiente quanto il superstizioso devoto dei santi, nonostante di quest’ultimo,
versione religiosa e vintage
dell’ignorante ipermoderno, nel Vangelo non si dicesse, diversamente dal povero
(Mt, XXVI, 11), che siamo destinati
ad averlo sempre con noi”. Oggi però questo gioco rischia di capovolgersi in un
boomerang: se l’ignorante è troppo
ignorante, gli mancherà persino l’alfabeto elementare per dirsi – o meno –
cattolico. Gli diventerà impossibile, linguisticamente, “far parte di una
religione che sia qualcosa in più di una nebbiolina dolciastra ed emotivistica
per cui la New Age risulterà ben più
attrezzata rispetto alla possente struttura teorica, storica e liturgica della
Chiesa”. Anche il ceto intellettuale ha le sue responsabilità: tende a
chiudersi autoreferenzialmente, accettando di ignorare la gente comune quanto
di essere da questa ignorato, nell’illusione che una minoranza di illuminati
possa sopravvivere al naufragio generalizzato. E’ la prevalenza del modello
atomistico, monadico, rispetto al modello illuministico e romantico del “dotto”
come maestro e stimolatore delle masse. Si può e si deve essere critici nei
confronti del passato, senza ingenue idealizzazioni, ma come non ricordare – e
Miccione lo ricorda – che grazie a intellettuali quali Croce e Gentile i
problemi della scuola e dell’università erano al centro del dibattito
nazionale? Oggi vale il si salvi chi può (tanto più che, fuori dagli atenei, la
gente non immagina a cosa si sono ridotti gli studi universitari). Ma si
sottovaluta che tattiche individuali senza strategie collettive sono destinate
al fallimento.
Quali che
siano i passaggi storici e le responsabilità di vari attori, la situazione
attuale è dominata - in ogni categoria sociale – da questo
“sottoproletariato cognitivo” che “non è interessato alla politica, non
contestualizza la propria situazione, non è disponibile a federarsi per
aumentare il proprio potere, sospetta di tutti ma cade in ogni tranello”.
Insomma: siamo in presenza di un cancro che avanza nel silenzio generale e che
erode le radici stesse di ogni democrazia. Detto così, può suonare ancora
astratto: la democrazia non è un valore assoluto, ma un mezzo (forse il meno
inadeguato sinora escogitato) per avvicinarsi alla giustizia nella libertà.
Possiamo dunque, con Miccione, ridirlo meglio: il sottoproletariato cognitivo
è, prima di tutto, un pericolo per sé stesso. Solo con la sua diffusione
pervasiva si può spiegare “l’assenso di persone con reddito da lavoro, e non da
capitale, a politiche che favoriscono il progressivo spostamento dell’economia
italiana dal lavoro al capitale, dall’industria alla finanza”.
Il quadro è preoccupante, ma l’autore - da buon filosofo ‘pratico’ – non se ne
lascia paralizzare e passa dalla diagnosi (molto più ampia, documentata e
articolata di quanto sia riuscito a sintetizzare in poche righe) alla terapia. Guidato da un assunto di
principio: la crisi morale e civile in
cui si dibatte il nostro Paese (e, se non è l’unico nella melma, non c’è da
consolarsene) è, in radice, un difetto cognitivo. Socraticamente, Miccione
pensa che, al dominio del”non sapere di non sapere” (tipico degli ignoranti
impenitenti), bisogna opporre un “sapere di non sapere” che sia propedeutico al
voler sapere, almeno l’essenziale. Dal punto di vista più operativo, infine,
“cinque proposte per iniziare a desottoproletarizzare l’Italia”: “aumentare i
finanziamenti per tutto il comparto cultura”; ripristinare i concorsi pubblici;
ridimensionare il ruolo della famiglia nei processi educativi; recuperare i
minori “dispersi” dal punto di vista scolastico; valorizzare “l’acquisizione di
titoli di studio” da parte di detenuti come “unico parametro per ottenere
sconti di pena”. Insomma, ce n’è abbastanza per apprendere e per darsi da fare.
Almeno per i lettori ancora immuni dal morbo dell’ossimorica “educazione
all’ineducazione”.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
5 commenti:
Ciao Augusto,
condivido pienamente nello spirito e nel contenuto la tua riflessione sull'interessante testo di Miccione. Oggi, la società è immersa in una forma di "omologazione culturale" (bellissima l'intuizione profetica di Pasolini, che Miccione giustamente riprende) al ribasso, in cui domina l'arroganza cialtrone del denaro, mentre la spinta all'emancipazione culturale - portata avanti da grandi educatori ormai "inattuali", come Danilo Dolci, don Lorenzo Milani, Aldo Capitini, Tommaso Fiore e altri ormai dimenticati - sembra essere lontana anni luce. Le cosiddette agenzie formative, dalla Chiesa, ai partiti, ai media, alla stessa famiglia, ammanniscono una melassa maleodorante, in cui si mescolano ipocrisia, indifferenza, autoreferenzialità. Dobbiamo reagire, a costo di essere "noiosi", richiamando valori fondanti soprattutto alle nuove generazioni.
Mauro
Buongiorno gentili interlocutori potenziali.
Arrivo qui grazie a una ricerca di recensione del libro in oggetto, alternativa a questa, su roars.it.
Trovo qui uno stimolo a cercare di "reagire", a costo di farmi dare del filosofo anche da un "filosofo-in-pratica", mettendo in evidenza, in modo sperimentale, il potenziale offerto da alcuni commenti alla recensione su roars.it.
Cordiali saluti.
Egregio Luigi,
sono talmente convinto della necessità di transitare continuamente dal virtuale al reale che ho un blog (non un sito !) e una pagina FB.
Già queste due finestre sul mondo mi occupano allo stremo delle forze: altro non posso.
Cordialmente,
A. C.
Gentilissimo Prof Augusto,
se sapessi farlo cercherei di spiegare a mio nipote, di 16 anni, la differenza tra un ponte, che permette di "transitare" [da una realtà ad un'altra], e un'interfaccia, che permette [a due realtà, magari una "soft" e l'altra "hard"] di "interoperare".
Agli ignoranti consapevoli, del mio tipo, servirebbe un ambiente che permetta loro di percepirsi come "applicazioni portabili e interoperabili" .... ma purtroppo chi dovrebbe saperlo sembra non lo sappia.
Spero di non essere frainteso e resto a disposizione per eventuali chiarimenti.
Cordialmente,
LB
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