“Una città”,
ottobre 2015
LA FRENATA
Augusto Cavadi
intervista Serge Latouche
Serge, è un
brutto momento per l’Europa e per il mondo. Cosa può dire la teoria della
decrescita alla gente sfiduciata?
Che dobbiamo imparare dai Greci il senso del limite.
Abbiamo uno stomaco da riempire, sete di acqua e di buon vino da soddisfare: il
cibo e le bevande che sorpassano i nostri bisogni sono in eccesso, sono un
eccesso. L’illuminismo e il positivismo hanno eretto la crescita continua,
illimitata, a meta dell’umanità: questa è , secondo la saggezza degli antichi
filosofi, ybris, tracotanza.
Aristotele distingueva l’economia dalla crematistica: la prima produceva la
ricchezza necessaria (che non è mai né troppo né troppo poco); la seconda
perseguiva l’arricchimento fine a sé stesso, potenzialmente indefinito. E’
urgente recuperare questa differenza se non si vuole precipitare nel baratro.
Qualcuno parla di “decrescita felice”: personalmente non pretendo che la
decrescita ci regali “felicità”, mi basterebbe che ci consentisse la serenità.
Prima di
teorizzare la decrescita, negli anni giovanili, sei stato un comunista
marxista. In che rapporto stanno le tue idee di oggi con le tue idee di ieri?
Con una battuta potrei rispondere dicendo che se a
vent’anni non si è comunisti, non si ha cuore e che, se lo si è oltre i
quaranta, non si ha testa. Fuori dall’umorismo, dico che sono stato comunista ed ho molti
marxisti fra i miei interlocutori attuali. Quando discuto con loro è quasi
inevitabile sentirmi dire: “Marx sì, ma un
certo Marx”. La storia del marxismo è costellata da questo ritornello: c’è
sempre un altro Marx cui appellarsi
quando delle tesi marxiste risultano indifendibili. Per la tematica che mi
interessa, non c’è dubbio che Marx sia stato un produttivista; anche se si
possono rintracciare, qua e là, delle critiche al modo capitalistico di
intendere il lavoro. Ne ho discusso recentemente in un libro appena tradotto in
italiano, Uscire dall’economia
(Mimesis), con un marxista intelligente, Jappe Anselm. Ciò che chiedo ai
marxisti di oggi è di non restare talmente prigionieri di un’ottica
produttivistica da rendersi incapaci di una critica del lavoro quale senso e
fondamento dell’esistenza umana. Bisogna partire da Marx, ma operando quell’aufhebung hegeliana che consiste nel
negare qualcosa, nell’inverare ciò che essa contiene di valido e
nell’oltrepassarla verso posizioni più vere.
Le nuove
generazioni sembrano schiacciate dalla crisi che attraversiamo. Secondo te, c’è
un futuro per loro?
La mia generazione sapeva che, preparandosi a un mestiere,
l’avrebbe potuto svolgere. Si era molto vicini alla piena occupazione. Con
buone ragioni, molti giovani ritenevano che li aspettava un lavoro di merda con
uno stipendio di merda: non certo la inoccupazione. La società dei consumi,
come una droga, riusciva a far accettare condizioni di lavoro e di salario che,
comunque, permettavano di comprare casa, mettere su famiglia e spesso anche
acquistare l’utilitaria. Oggi
questo compromesso è venuto meno. La disoccupazione è una tragedia, ma non ci
deve fare dimenticare che in passato anche molti tipi di occupazione lo erano.
Ai giovani che si chiedono che fare, rispondo:
innanzitutto prova a pensare con la tua testa. La crisi che attraversiamo
(economica, finanziaria, sociale, culturale) potrebbe insegnarci la necessità
di pensare da sé stessi, sapendo che non c’è più una strada prefissata. Se
fossi un giovane, mi comprerei un giardino e mi preparei al disastro imminente.
Molti giovani, invece, preferiscono iscriversi alla Bocconi e prepararsi a
saper fare speculazione in Borsa: facciano pure, ma non si stupiscano se
resteranno delusi. Siamo davanti a un bivio: o decrescita o barbarie (e che
questa formula richiami la precedente “o socialismo o barbarie” non è un caso
perché la decrescita è una forma di socialismo ecologico). Per fortuna non
tutte le generazioni sono istupidite dalle fase promesse del capitalismo: nel
mondo ci sono giovani che si dedicano all’agricoltura ecologica, che creano GAS
(gruppi di acquisto soidali), che si organizzano in associazioni di difesa
dell’ambiente e di sperimentazione di nuove modalità di lavoro. E’ molto
probabile che non diventeranno ricchi nel senso finanziario, come i loro
coetanei che si impadroniscono dei meccanismi bancari: ma, a differenza di
questi ultimi, è molto più
probabile che trovino un senso della vita.
Anche nel
recente “Festival della filosofia d’a-Mare” alle isole Egadi, cui hai
partecipato nei giorni a cavallo fra aprile e maggio con Chiara Zanella e Diego
Fusaro, è ritornata una domanda che forse ti risuona ormai ossessivamente: come
si può tradurre in pratica la teoria della decrescita?
La domanda ha un suo senso e penso che occorra
sapervi rispondere con chiarezza e pazienza. La mia parola d’ordine è
provocatoria, ma non prescrittiva.
Vuole smascherare le bugie in campo economico,
convinto - come è stato già affermato – che si può fregare
qualcuno per sempre e tutti gli altri per una volta, ma non è possibile ingannare
tutti e per sempre. La decrescita è prima di tutto una ribellione alla teologia
del mercato capitalistico basato sul dogma della produzione e del consumo senza
limiti. Certe volte ricorro al vocabolo a-crescita
ricalcato su a-teismo. Con questo non
intendo aggiungere una dottrina economica alle tante sinora esposte, da Adam
Smith ai nostri giorni. Direi che intendo indicare un orizzonte di senso
all’interno del quale ognuno deve inventare creativamente un proprio modo di
concretizzarlo. E’ ovvio che la
prima concretizzazione dovrebbe avvenire nel proprio stile di vita quotidiano e
nel raggio delle proprie relazioni sociali più prossime, dalla famiglia al
quartiere. Tuttavia la sfera individuale, per quanto necessaria, non è
sufficiente. La testimonianza personale dovrebbe contagiare tanti altri e
diventare movimento, azione politica. Cosa significa ciò in dettaglio? Non sono
un profeta né ritengo che il futuro della storia lo si possa prevedere come se
si trattasse di una concatenazione di eventi ineluttabili. Penso piuttosto,
come suggerisce il titolo di un mio testo, che si tratti di una “scommessa”:
riuscità l’umanità a salvarsi dall’autodistruzione irreversibile, comprendendo
finalmente ciò che un bambino di cinque anni può già da ora comprendere, vale a
dire che un pianeta finito non può sopportare una crescita infinita? Non lo so.
Ovviamente, però, mi auguro di sì. Spetterà poi ai governi, ma soprattutto alle
organizzazioni non governative e alle associazioni dei cittadini, tradurre in
progetti legislativi e in buone pratiche amministrative l’orizzonte di senso
della a-crescita. E ciò che sarà urgente in Canada non lo sarà altrettanto in
Congo, ciò che sarà possibile in Giappone non lo sarà in Guatemala. So che la
ricaduta politica della mia proposta è indispensabile, ma non ho ricette per
tutte le tavole e per tutte le date del calendario.
La tua
formazione è fondamentalmente nutrita di antropologia culturale, economia e
altre scienze umane. Perché allora
hai accettato di partecipare a un festival di filosofia?
Non sono interessato a costruire nuovi sistemi
filosofici, concettualmente elaborati. Ma la “filosofia di strada”, come la
chiami tu, è molto vicina alla mia convinzione che non ci sarà opposizione,
resistenza, alla crescita senza un mutamento di mentalità, di desideri, di
norme morali, di comportamenti effettivi. Vivere a Favignana tre giorni in
compagnia di persone convenute per
passione gratuita, disinteressata, verso la ricerca di senso, le bellezze
naturali, il buon cibo… è stato come vivere in piccolo un’esperienza di cosa
potrebbe essere un mondo liberato dall’ossessione del profitto e della
carriera. La filosofia intesa così mi interessa, e come !
Proprio in
questi giorni, a proposito del tuo soggiorno in Sicilia, si sono scatenate in
internet delle critiche verso di te. Tra le più gravi: saresti un fascista
mascherato che vuole convincere la gente a restare povera, anche per mantenere
il tuo privilegio di ricco.
A settantacinque anni non sono attacchi inediti per
me. Certamente chi propone delle nuove idee deve essere disposto a ricevere
critiche. Ma una cosa sono le obiezioni e le riserve che mi avete avanzato a
Favignana, in un’atmosfera – direbbe il mio maestro Ivan Illich – di “convivialità”; e tutt’altra cosa sono
le invettive. Dare del fascista a chi la pensa diversamente da me è il mero
ribaltamento del vezzo di dargli del comunista: in entrambi i casi, più degli
insulti, valgono gli argomenti. Una frenata alla crescita economica e
finanziaria sarebbe, nella mia prospettiva, benefica non solo dal punto di
vista ecologico, ma anche sociale: si tratterebbe, infatti, di rivedere gli
attuali sistemi di distribuzione dei beni materiali per stemperare - e tendere ad abolire – le attuali,
fortissime, differenze fra una fascia e l’altra dei cittadini. Certo, questa
tesi è eretica rispetto al marxismo ufficiale che non vede come l’accumulazione
capitalistica abbia raggiunto il proprio vertice e non sarebbe né possibile né
auspicabile che andasse oltre per far scoppiare la rivoluzione proletaria. Ma
basta contestare un aspetto della dottrina di Marx per essere definito fascista?
Quanto poi al riferimento alla mia vita privata, forse poco elegante, mi
limiterei a precisare che non mi sono mai ritenuto un perfetto,
impeccabile, seguace della teoria
della decrescita. Sono però uno che si interroga e si propone, ogni giorno, di
avvicinarsi sempre di più alla coerenza
fra ciò che dice e ciò che fa. Non so se questo sia sufficiente per
essere riconosciuto come un santo da venerare sugli altari, ma penso che lo sia
per essere annoverato fra quelli che definisci “filosofi-in-pratica”.