Giunto al XXIII anno di vita, “Mezzocielo” (“trimestrale di politica
cultura ambiente pensato e realizzato da donne”) dedica il numero 148
(Primavera 2015) al rapporto fra il mondo femminile e le religioni, con
particolare riferimento alle
problematiche relazioni “Tra Islam estremo e Occidente”. Nell’impossibilità di
dar conto della varietà, talora persino un po’ caotica, delle intuizioni e
delle opinioni ospitate, provo a offrirne una delle possibili chiavi di
lettura.
Credenti in senso
confessionale e non-credenti condividono una impostazione che, nei due millenni
di cristianesimo, si è radicata e diffusa in Occidente: esiste il mondo
dell’esperienza (quotidiana, etica, scientifica) che ha una propria sensatezza
e avrebbe una propria serena evoluzione se non si imbattesse in alcuni macigni
(contro cui scontrarsi o da aggirare con diffidenza). Questi macigni sono le
grandi religioni istituzionali, in modo particolare le tre religioni del Libro:
ebraismo, cristianesimo e islamismo. Esse cadono dal cielo come meteoriti che,
precipitando, infrangono la logica umana, costringendo a una opzione radicale:
o continuare a pensare, a ragionare, a conoscere oppure compiere il salto
accettando dogmi che cozzano contro la ragione (un morto ritorna dall’al di là
sulla terra, per riprendere l’esempio di Adriana Palmeri) o contro la morale
(uccidere il figlio unico giovanetto avuto in tarda età, come viene comandato
ad Abramo, padre di Isacco).
Questa concezione della religione,
certamente maggioritaria e condivisa – lo ribadisco – tanto da credenti quanto
da agnostici e atei, è l’unica possibile e l’unica praticata? La risposta documentabile,
argomentabile, dovrebbe essere netta: no ! Filosofia e teologia hanno messo in
crisi questa visione verticale, gerarchica, del rapporto fra umano e religioso,
fra natura e pretesa soprannatura. Nell’ultimo secolo si è consumata una
rivoluzione in questi campi di cui il cittadino medio - che frequenti o meno le chiese - non ha neppure sentore. Neanche gli interventi di questo
numero di “Mezzocielo”, ad essere sinceri, danno una risposta netta: ma, per lo
meno, offrono spunti per sondarla.
Un primo spunto è offerto dai
contributi ‘storici’ (Rita Calabrese, Anna Scialabba, Silvana Fernandez,
Gisella Modica, Shobba, Silvana Fernandez): molti credenti, in particolare
molte donne (Hildegarda da Bingen, le “beghine”, Simone Weil, Edith Stein,
l’induista Mirabai), hanno conciliato – sia pur pagando o rischiando di pagare
prezzi elevati – l’appartenenza religiosa con il senso critico e la dignità
morale. Davanti a questi esempi anche recentissimi, come la blogger Amina
Sboui, potrebbe scattare una obiezione: non si tratta di eccezioni che confermano
la regola? Se ne parla, forse, proprio perché sono state diverse rispetto a ciò
che resta canonico, ortodosso?
Ecco perché trovo istruttive
le due voci ‘cattoliche’ (Cettina Militello e Fernanda Del Monte) che offrono
un’indicazione per fare un passo avanti: i Testi ‘sacri’ vanno decifrati,
decodificati, spiegati esegeticamente e interpretati ermeneuticamente.
L’indicazione è corretta, ma - a
mio avviso – insufficiente. Essa è viziata da un ottimismo ingiustificato.
Sostiene la Militello che un “discernimento
profondo” ci
porterebbe a scoprire un
“messaggio, originariamente paritario,
che le Scritture veicolano”. Purtroppo questa affermazione è vera solo
parzialmente. Correttamente intese, infatti, le Scritture intendono insegnare
sia una parità originaria sia una subordinazione originaria della donna al
maschio. Non possiamo trattare la Bibbia come gli avvocati trattano i codici,
per trarne ciò che conviene e far finta di non vedere ciò che non conviene.
Ma allora che
altro fare? Propongo qui il terzo passo che ha compiuto la teologia
contemporanea e che non è stato debitamente focalizzato in questo numero della
rivista: passare dalla emancipazione nelle religioni
alla emancipazione dalle religioni. E’ il sogno di John Lennon nella sua splendida
Immagine: “no countries, no religions too” . Questo lo sappiamo in molti. Che
sia stato anche il sogno di molti profeti biblici, come Amos, lo sappiamo in
pochi:"Io
odio e abomino le vostre feste, non mi piacciono le vostre solennità. Se mi
offrite olocausti e oblazioni, non le gradisco: ai vostri sacrifici di grasse
vittime non volgo nemmeno lo sguardo. Lungi da me la voce dei tuoi canti; non
voglio sentire i suoni delle tue arpe. Sgorghi invece la equità e la giustizia
come torrente perenne" (5,21 - 23; ma vedi anche Salmo 50,7; Isaia 1, 10 - 15).
Il grandissimo teologo Karl Barth ha tirato le conseguenze di questo
ammonimento profetico: dobbiamo liberarci dalla “religione” per fare spazio
alla “fede”. La religione è un
prodotto diabolico dell’uomo, la fede
un dono della grazia divina. E’ una posizione teologica che giustifica molte
formule paradossali o apparentemente tali, del genere “La fede è una cosa
troppo seria per lasciarla in mano ai preti” o “Dio è più grande della
religione”. Personalmente, però, la condivido in un senso abbastanza diverso da
Barth.
Prima di tutto perché intendo la “fede” non come un dono esclusivamente
divino, ma prima ancora come un’apertura costitutiva dell’animo umano verso
l’ulteriorità, la novità, il futuro, l’infinito. E’ qualcosa di molto simile a
ciò che Egle Palazzolo chiama “il senso alto della religione”, restando
affezionata al vocabolo “religione” che può creare equivoci. E’ dunque quella
fiducia originaria che dà senso alla ricerca in tutte le sue forme
(scientifiche, poetiche, filosofiche, teologiche…): per intenderci è il
medesimo senso in cui Adriana Palmeri può intitolare il suo pezzo Credo nella scienza, con una espressione
che certamente non appartiene al registro linguistico di nessuna scienza !
In secondo luogo, pur condividendo la diffidenza di Barth verso ogni
religione, sono convinto che essa è un prodotto che l’essere umano non finirà mai di produrre. Il XX secolo è
in questo senso tragicamente istruttivo: illuminismo e storicismo avevano
affondato il cristianesimo ed ecco che fascismo, nazismo e socialismo sovietico
lo hanno rimpiazzato con la proclamazione di classi sociali o interi popoli eletti, libri sacri, , caste
gerarchiche, liturgie, processioni, santi carismatici, ortodossie,
tribunali d’inquisizione, eretici… Caduti i totalitarismi, ci si
sarebbe aspettato il trionfo incontrastato della secolarizzazione: invece il
capitalismo liberista ha
proclamato i suoi dogmi (denaro, potere, successo) e inventato i suoi riti (dai
campionati di calcio senza interruzioni sino alle domeniche nei grandi
magazzini dal mattino al tramonto); ha tentato di esportarli in Oriente e in
Medio-oriente col risultato di suscitare movimenti politici di resistenza al
capitalismo occidentale che utilizzano l’islamismo come arma identitaria e di
mobilitazione delle masse. Se la dimensione religiosa, con tutte le sue
ambiguità, è costitutiva della natura umana (ricordate Il Piccolo principe? Il faut
des rites…), più che tentarne l’impossibile eliminazione, è preferibile
vigilare criticamente per la sua continua purificazione, razionalizzazione,
umanizzazione. Personalmente trovo nella filosofia l’attrezzatura per
discernere in ogni proposta religiosa ciò che promuove la vera “fede” (nelle
facoltà umane, nella solidarietà sociale, nel futuro del pianeta…) da ciò che la
soffoca e la mortifica. Una filosofia senza dimensione religiosa rischia di
restare un’avventura individuale, astratta, soggettiva; ma una esperienza
religiosa senza critica filosofica rischia di scadere nella superstizione, nel
fondamentalismo e nell’integralismo.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
PS: A mio parere la formula “Credo nella scienza”
usata da Adriana Palmeri sintetizza una doppia valenza.
Da una parte vi vedrei una valenza
critica: ci mette in guardia dall’intendere in maniera letterale,
materialistica, le metafore della fede (come l’affermazione che “Gesù è
risorto”): se con questo annunzio si volesse affermare che un uomo, vissuto per
più di trent’anni nell’ambito della sfera mondana, sia morto e dopo tre giorni
sia ritornato, biologicamente, a battere le strade della terra, sarebbe un
annunzio contro la ragione (e, in quanto tale, inaccettabile). Se,
invece, come ritiene la maggior parte dei teologi contemporanei, “Gesù è
risorto” significa che egli è davvero morto, è davvero scomparso dall’orizzonte
empirico, per entrare in una dimensione assolutamente altra (di cui non
sappiamo nulla) nella quale entrano i morti di tutta la storia, allora questo
“annunzio” non può essere né dimostrato né confutato dalla ricerca scientifica.
Appartiene al meta-empirico, al meta-scientifico: chi ritiene che esiste solo
la dimensione spazio-temporale (su cui regna, sovrana, la scienza) sospenderà
il giudizio; chi ha ragioni per sospettare che la sfera mondana non è l’intera
realtà, potrà osare “credere” che la pienezza della vita - almeno per gli uomini e le donne che
l’hanno spesa con generosità – è oltre la vita biologica sul pianeta.
Vedrei
nel titolo di Adriana (“Credo nella scienza”) anche una seconda valenza
positiva, propositiva: con Kant, con Jaspers, vi vedrei un atto di “fede
razionale” nella ricerca scientifica, di “fede filosofica” nei poteri
esplorativi della ragione umana, di “fiducia fondata antropologicamente” nella
leggibilità dell’universo. Come ogni fede, anche la fede nella scienza corre il
rischio di lasciarsi intrappolare da una religione (la scienza sa diventare
anch’essa una trappola religiosa con i suoi dogmi, i suoi riti, le sue
gerarchie…); ma, proprio come ogni fede autentica, è in sé una ricchezza
irrinunciabile. Senza fede nella scienza non ci sarebbe tanto impegno, tanta
passione, tanto slancio nel cercare di capire come è fatto l’universo in cui
siamo immersi e che cosa possiamo, concretamente, fare per renderlo meno ostile
alla nostra sopravvivenza.
1 commento:
Ottima critica dei fondamentalismi religiosi.
Ciao, Elio
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