Corsi e ricorsi dei rapporti tra clan e Chiesa
“il manifesto”22 agosto 2015
Nel 1990, nella stessa parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà
che l’altro ieri ha ospitato il funerale in stile “Padrino” di Vittorio
Casamonica, furono celebrate le esequie di Enrico “Renatino” De Pedis,
uno dei boss della banda della Magliana, il cui corpo venne poi tumulato
– con l’autorizzazione del Vicariato – nella cripta della basilica di
San Apollinare (dove è restato fino al 2012, quando poi fu cremato).
Corsi e ricorsi storici che, al di là delle coincidenze, mostrano
quanto le relazioni fra Chiesa e mafie siano state e siano ancora
intrecciate. Una storia che comincia da lontano, e lontano da Roma, già
nell’800, quando i livelli erano contigui e sovrapposti. Fino al 1963,
quando a Ciaculli c’è la prima grande strage di mafia, e la Chiesa
comincia a porsi il problema, anche perché a Palermo il pastore valdese
Panascia aveva preso una posizione pubblica netta, mentre il cardinale
Ruffini minimizzava. Per arrivare alla prima svolta bisogna aspettare il
1993, con l’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi e
l’omicidio di don Puglisi (e, l’anno successivo, di don Diana, a Casal
di Principe).
Da allora la riflessione si sviluppa e le iniziative antimafia si
moltiplicano, fino alla «scomunica» ai mafiosi pronunciata da papa
Francesco. Ma la consapevolezza non è unanime in tutta la Chiesa, così
come l’impegno è a macchia di leopardo: accanto a preti e gruppi in
prima linea, continuano ad esserci silenzi, omissioni, collusioni, feste
patronali e processioni religiose guidate dai boss che in questo modo
consolidano potere e prestigio, con la benedizione ecclesiastica (a
giorni la Conferenza episcopale calabra pubblicherà le proprie linee
guida sulle processioni proprio per evitare infiltrazioni).
Il funerale del proprio famigliare organizzato dai Casamonica –
benché Roma sia una realtà sociale diversa – si colloca in questo
contesto. «Tra i messaggi più persuasivi che le organizzazioni mafiose
lanciano per raccogliere consensi c’è l’ostentazione dell’impunità e da
questo punto è stato un capolavoro di promozione dell’immagine pubblica
del defunto e dei suoi eredi immediati», spiega Augusto Cavadi, autore
fra l’altro del saggio Il Dio dei mafiosi (Edizioni San Paolo).
«In una società ancora imperfettamente secolarizzata, l’impunità
terrestre, per quanto rilevante, non è esaustiva. Allora con gli
elicotteri e la carovana dei fuoristrada sbatto in faccia la mia
superiorità rispetto ai poteri civili, ma con la ritualità religiosa
tolgo ogni eventuale dubbio sulla mia impunità post mortem. La volontà del padrino è legge incontrastata in cielo come in terra».
«Credo di aver fatto solo il mio dovere. Sono un prete, non un
poliziotto e nemmeno un giudice», scrive sul sito internet della
parrocchia don Manieri, che ha celebrato il funerale. «Se un signore mi
chiede di celebrare il funerale di un suo congiunto lo celebro, non è
scritto da nessuna parte che debba indagare su chi è, personalmente non
conoscevo il nome del boss dei Casamonica per me poteva essere il più
lontano dei parenti». Il vescovo del settore est di Roma (dove si trova
la parrocchia), mons. Marciante, dichiara a Radio Vaticana di non essere
stato informato – del resto anche il parroco ha ammesso di non aver
informato nessuno –, spiega che «il funerale non si poteva proibire», ma
aggiunge che «se avessimo saputo che dietro questo funerale c’era
questo spettacolo avremmo suggerito di celebrare le esequie in un modo
più discreto».
Ed è quello che è già avvenuto in altre situazioni e in contesti più
difficili rispetto a Roma, perlomeno sotto l’aspetto del controllo del
territorio da parte delle organizzazioni mafiose. Nel 2007, per esempio,
l’allora vescovo di Piazza Armerina, mons. Pennisi, non vietò il
funerale al boss gelese Emmanuello, ma negò l’uso della chiesa
principale e celebrò le esequie in forma strettamente privata nella
cappella del cimitero. Il vescovo di Acireale, mons. Raspanti, invece
nel 2013, ha emanato un decreto che proibisce in tutta la diocesi i
funerali religiosi ai condannati per mafia. Un passaggio decisivo
secondo Alessandra Dino, sociologa palermitana, autrice di numerosi
saggi sul rapporto fra Chiesa e mafia, fra cui La mafia devota (Laterza): «Non si può più dire non sapevo o non avevo capito, c’è una dimensione pubblica che la Chiesa non può ignorare».
Luca Kocci
1 commento:
Buono l'articolo di Kocci. Assai pertinente - direi dovuta - la citazione del tuo ottimo saggio "Il Dio dei mafiosi".
Posta un commento