www.tuttavia.eu” , luglio 2015
SOFFERENZA NECESSARIA, SOFFERENZA SUPERFLUA
Nella sofferenza del malato
non abbiamo ancora imparato a distinguere un nucleo duro, irriducibile, da un
contorno aggiuntivo, superfluo. Il nocciolo d’acciaio, ineliminabile, è
inscritto nel DNA del nostro essere:coincide con la nostra vulnerabiità
genetica. Possiamo fare o meno i conti con la morte, intesa come evento
conclusivo della vita biologica: ma non possiamo sottrarci al confronto,
quotidiano, con la nostra mortalità. Essa è una dimensione costitutiva della
nostra esistenza e ci accompagna, inseparabilmente, sin dai primi vagiti: per dirla con sant’Agostino, “nasciamo
e, di questo, moriamo”. La medicina ci insegna, d’altronde, che proprio questa
esposizione innata e continua agli stimoli dolorosi ci preserva da mali
peggiori: se fossimo insensibili a qualsiasi minaccia esterna o interna alla
nostra salute vivremmo di meno e peggio, non di più né meglio.
Ma il dolore fisiologico e
inevitabile è accompagnato, e come avvolto, da strati di dolore supplementare, superfluo. Abbiamo il
diritto – e per molti versi il dovere – di contrastare queste dosi gratuite di
sofferenza. Come ?
Innanzitutto con gli
strumenti farmacologici. La ricerca scientifica appronta ogni anno sostanze, e
cocktail di sostanze, analgesiche di cui i pazienti, i parenti dei pazienti,
gli operatori sanitari sono spesso ignari. Così ogni giorno nel mondo milioni
di persone sono inchiodate a croci insopportabili che una diversa cultura
terapeutica potrebbe eliminare o, per lo meno, ridurre drasticamente. (Qui la
logica del discorso porterebbe alla questione dell’eutanasia che, per la sua
rilevanza, merita una trattazione a sé).
Ma la sofferenza evitabile, e da evitare, non è solo fisica.
E’ anche di natura psicologica e mentale. E’ la sofferenza che si radica
nell’orizzonte intellettuale del paziente. E’ quanto ha intuito, ad esempio,
Victor Frankl – “mezzo dottore e mezzo filosofo” – durante la sua prigionia ad
Auschwitz: tra gli internati, chi vedeva un barlume di senso in ciò che provava
(perché in qualche modo lo inseriva all’interno della propria prospettiva
ebraica o della propria prospettiva comunista o di qualche altra concezione del
mondo e della storia) resisteva anche fisicamente più, e meglio, di quanti
trovavano del tutto assurdo ciò che stavano vivendo.
Cosa può insegnarci quanto Victor Frankl racconta
nel suo Uno psicologo nei lager e in
tanti altri testi da lui dedicati alla riflessione filosofica sulla sofferenza
umana? Che siamo animali “affamati di significato”: che, per dirla con
Nietzsche, se intravvediamo un “perché”
siamo in grado di sopportare “quasi ogni come”.
E’ qui che si inserisce il ruolo del filosofo-consulente:
del filosofo di strada, disponibile a scendere dalla cattedra per entrare nei
luoghi della quotidianità e degli interrogativi esistenziali autentici – come
appunto, ad esempio, gli ospedali. Non è certo il ruolo del juke-box da cui attendersi risposte
pronte-da-portare. Se mai, riprendendo la metafora di Socrate, è il ruolo
dell’ostetrica che aiuta la donna gravida a partorire ciò che ha concepito al
proprio interno. Se non sono stato
io a trovare - o per le meno ad attribuire – al mio
dolore un qualche senso, nessun suggerimento che mi provenga dall’esterno potrà
davvero farmi luce. Il filosofo-consulente può offrirsi come interlocutore per
la mia ricerca di ciò che significa
soffrire.
E se il dolore non avesse nessun senso, nessun
significato ? Se fosse intrinsecamente e irrimediabilmente assurdo? Anche in questa ipotesi, per così dire
estrema, il filosofo avebbe comunque un compito critico da assolvere: aiutare
il “consultante” che lo interpella
a liberarsi dalla false risposte che, in quanto infondate, finiscono per
accrescere inutilmente la sofferenza. Mi limito a un solo esempio, non raro in
un Paese di tradizioni cattoliche. Quante volte il malato oncologico, specie se
in fase terminale, si chiede cosa abbia fatto di male per meritare da Dio tale
pena? Il filosofo può essere personalmente credente in senso cristiano o meno,
ma – in ogni caso – sa (o dovrebbe sapere) che questa visione arcaica della
malattia come punizione voluta da Dio è stata contestata più volte da Gesù di
Nazareth . Ad esempio, al capitolo 9 del vangelo secondo Giovanni, a chi gli
chiede se la cecità di un cieco nato è conseguenza di peccati suoi o dei suoi
genitori, il Rabbi risponde che ha peccato né lui né i suoi genitori.
Similmente, al capitolo 13 del vangelo secondo Luca, è sempre Gesù a spiegare
che i Galilei trucidati da Ponzio Pilato, come le diciotto vittime del crollo
accidntale della torre di Siloe, non erano più peccatori dei sopravvissuti.
Allora il filosofo, in
dialogo, può sollecitare l’ospite a riflettere sulla contraddizione fra il
dirsi cristiano e il ritenersi destinatario di una punizione divina; fra l’accettare
il vangelo originario che parla di un Padre amorevole e la convinzione popolare
che sia Dio stesso ad ‘assegnare’ le malattie come castighi. In modo che il
paziente arrivi o a non dirsi più cristiano o a liberarsi dalla concezione
mitica del Dio castigatore.
L’esemplificazione di una conversazione con un cattolico
potrebbe, con le debite modifiche, appplicarsi alla conversazione con un
musulmano o con un buddhista o con un ateo. In tutti i casi, la strategia è la
stessa: supportare l’interlocutore nella ricerca di una coerenza fra la sua
visione-del-mondo in generale e l’interpretazione, in particolare, della propria malattia fisica.
Questa armonia ‘interna’ non è condizione sufficiente ad
affrontare il dolore, ma è di certo necessaria. Liberati dalle contraddizioni
logiche fra i pezzi della nostra concezione della vita siamo predisposti, se lo
vogliamo, a confrontare tale nostra concezione con le prospettive altrui: e dal
confronto dialogico, dalla “lotta amorevole”, potremmo guadagnare nuovi punti
di vista e nuovi parametri di giudizio per avvicinarci, sia pur
asintoticamente, alla saggezza accessibile ai mortali.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Caro Augusto,
un testo splendido. Ne dovremo riparlare. Sto lavorando molto sul tema della morte, anche su me stesso...
Un abbraccio, ed a presto caro amico.
Luca
Posta un commento