“Phronesis”, Aprile 2012 (anno X, numero 18)
La Filosofia
di strada
di Augusto Cavadi
Sembra
proprio aver avuto in mente la poesia Sunday
night dell'americano Raymond Carver — «Mettici tutto
dentro, mettilo a frutto, non lasciare niente da parte per dopo», quando
Cavadi, nel 2010, ha licenziato questo importante Filosofia di strada. La filosofia in pratica e le
sue pratiche. Cavadi infatti non si
nasconde, né intende “lasciar da parte per dopo” acquisizioni importanti per
chiunque, filosofo o più comune mortale, voglia avvicinarsi (magari con profitto)
alla consulenza filosofica e al mondo della filosofia-in-pratica più in generale. Ci pare di poter dire che questo
Filosofia di strada, nonostante la sua specifica modernità, abbia i
contorni di una vera e propria summa nel suo andare a fare il punto sulla “cosa in
questione” a trent'anni dal suo inizio —
inizio di cui lo stesso Cavadi è stato, dal 1983, nella sua Sicilia e non solo,
coautore e pioniere. Oneri e onori, come si dice.
E
il materiale non manca. Una prima
parte, composta dai lineamenti essenziali si snoda attraverso un'introduzione al “contesto” mondano delle pratiche filosofiche
(che cosa sono e perché nascono) sino ai quattro segnavia delle cosiddette connotazioni epistemologiche (in che senso la filosofia-in-pratica è “filosofia”, in che senso è “pratica”, in che
senso è “dialettica” e in che senso, infine, è un “accompagnarsi” e non un
curare); la seconda è quella dei confronti tematici (con psicologie e psicoterapie, pratica
didattica e consulenza teologico-religiosa), la terza quella
dei confronti puntuali con i più importanti protagonisti della disciplina, analisi critiche
di ogni singola posizione articolate metodicamente in 1. Proposta 2. Consensi 3. Dissensi (Gerd Achenbach, Shlomit Schuster, Ran Lahav, Lou
Marinoff, Eckart Ruschmann, Peter Raabe, Eite Veening, Tim LeBon, Andrea Poma,
Alessandro Volpone, Neri Pollastri, Stefano Zampieri, Antonio Cosentino); per
arrivare, infine, alle considerazioni sintetiche
(provvisoriamente) conclusive. È
davvero impossibile darne conto con l'esaustività che richiederebbe, già solo
per la polifonia e la storicità, nella loro stratificazioni, delle voci che
concorrono allo spartito. Ci limiteremo di conseguenza ad alcune importanti,
sottintese questioni preliminari.
Ora, quale migliore inizio per un testo di filosofia-in-pratica del chiedersi perché la filosofia negli ultimi
decenni abbia iniziato a piacere e il suo esercizio a essere addirittura
richiesto, in concreto, nei vari ambiti dell'esistenza odierna? Come
spiegare i milioni di copie vendute in tutto il mondo, ad esempio, da Lou
Marinoff, pioniere statunitense della consulenza filosofica, senza sbalordire?
È, questo crescente successo della filosofia, un suo proprio merito? O non è
originato piuttosto dal demerito e dal fallimento altrui? O da entrambe le
cose? In che senso registriamo oggigiorno «un incremento del fabbisogno di
riflessività» se parallelamente, inversamente, «il numero degli iscritti alle
facoltà filosofiche decresce o nel migliore dei casi si mantiene stazionario»?
Basta l'antica distinzione tra bíos
theoretikós e bíos praktikós,
troppo frequentato il primo e troppo poco il secondo – come sembra ritenere
Cavadi – a spiegarlo? Se infatti l'Atene
della filosofia accademica piange, la Sparta delle
scienze sue pronipoti ed epigone, di certo, non ride. Tra i rami in procinto di
seccarsi che si dipartono dal tronco della filosofia Cavadi individua principalmente
la
direzione spirituale, la psicoterapia e il razionalismo onnipotente (anima, quest'ultima, non proprio indifferente
all'essenza della filosofia). Al fondo della crisi delle tre prospettive sta il
principio autoritario e asimmetrico, percepito ormai dalla gente per quello che
probabilmente è: una forma di «sottile autoritarismo», buono unicamente per
«mascherare da un lato la volontà di potenza di chi lo esercita, dall’altro la
debolezza, se non addirittura il masochismo di chi la subisce». Per la
psicologia, in particolar modo, si lamenta una mancanza di formazione
storico-filosofica che la riduce, più spesso, a «pratiche di tipo quasi
meramente riabilitativo», «meccanico, quando non manipolatorio». Là dove
invece, negli stessi ambiti, una tale ricerca sia stata fatta (Freud, Jung,
Money-Kyrle, Bion) è significativo, fa notare l’autore, come si sia finito per
fare della vera e propria filosofia; quanto alla crisi del razionalismo
onnipotente, il discorso deve invece avvitarsi, fatalmente, su se stesso: che
la crisi dei «grandi sistemi di pensiero del Novecento» (fine delle “ideologie”
e dei pensieri “forti”) coincida con lo spazio diradato di un nuovo inizio, che
«sgombrato il campo», Cavadi cita Volpone, «dai “deliri di onnipotenza” della
ragione, a livello culturale, socio-economico, politico e persino ecologico,
si possa finalmente (tornare a) parlare d’ideali a misura d’uomo», è questa, a
nostro parere, senz’altro un’illusione. Non esiste infatti in alcun luogo
«ideale» a misura d'«uomo», né a «misura» di alcunchè più in generale. Il
tramonto di secolari questioni “prospettiche” e metafisiche sul mondo è, purtroppo,
ben altro dalla loro pura scomparsa. È vero il contrario[1].
Ciò
per quanto concerne il versante ex negativo,
per così dire, dell'“altrui” demerito.
Ex positivo, di
fianco all'albero della conoscenza, da quell'albero che potrebbe essere l'albero della vita si allungano, almeno in apparenza, ben più
rigogliosi rami: quello delle giuste, benché inizialmente furiose, rivalitarie
«istanze» del «pensiero femminista», con l’interrogazione attorno all’essenza
del femminile; quello di un problematico e in definitiva illusorio «rifiuto del
dualismo» metafisico anima/corpo (o più modernamente, dovremmo dire, res cogitans/res extensa) ad
opera delle «neuroscienze», meritorie secondo Cavadi (che per primo lo segnala)
di un iniziale recupero della frattura, che è il
classico irrisolto in
tutta la filosofia, all’unità[2]; in terza ed ultima battuta, ma è sempre la
stessa questione, la «ricerca di uno sguardo sinottico», quel legame onnitenente
conosciuto fino a due secoli fa appena, in filosofia, come “sistema” e destinato
a restare, nonostante Nietzsche, la chiave di un rinnovato, ipotetico, pensiero
“filosofico” futuro. È il problema di un'unità di
pensiero progettuale e trasversale al proliferare dei
pensieri “specialistici”, raccolti ad oggi unicamente, come si sa e si
dibatteva già nella Germania del primo
Novecento, in un'unità meramente tecnica – rifiutando la quale, abbiamo detto,
si va ben poco lontani. C'è quindi come un esaurirsi e un ritrarsi della linfa
vitale della filosofia dai suoi rami più alti e più giovani (scienze tecniche e
umane), attraverso il tronco (la filosofia), verso radici che non traggono più
nutrimento dal terreno.
Appare
chiaro, d’accordo con Cavadi, e, aggiungiamo, sacrosanto, il
bisogno di «un nuovo apprendistato per una nuova e più complessa conoscenza»,
ma non più, vorremmo dire, «sull'uomo», bensì riguardo quei contesti-aperture
al cui interno l'uomo è volta a volta, storicamente, uomo. Ci pare, detto
altrimenti, un errore di metodo
prendere a modello le tecnoscienze e andare a interrogare l'uomo (il vivente
ad esempio, nella medicina, a partire dal cadavere) nella follia
dell’interrogazione in scala 1/1. Ci pare un errore tanto quanto sarebbe
assurdo e inopportuno, per un trisavolo, intendere gareggiare seriamente coi
pronipoti. Il pensiero è divenuto troppo vecchio, sapeva ancora Nietzsche, per
queste vittorie, troppo vecchio per questa sua configurazione,
consegnata e demandata a suo tempo a scienze anch'esse, ad oggi, in ritirata
(di fronte alla comprensibilità dell’essenza dell'uomo e del mondo).
«Può
allora la filosofia costituire una risorsa per “superare gli steccati
disciplinari che frantumano la conoscenza
sull'uomo”?». Secondo Cavadi sì, e proprio a patto di rimanere
filosofia pur andando a cercare interlocuzione con uomini e donne che «fuori da quella tradizione sono nati, sono cresciuti e
oggi vivono e agiscono». Il ragionamento è giusto: va cercato il “fuori” dalla
filosofia. Solo che il “fuori” non è, a nostro parere, dove Cavadi vorrebbe
trovarlo, e cioè in strada e nell'agorà. Accademia o agorà, siamo infatti già tutti preordinati, gettati e strutturati secondo il
progetto “filosofia”, già tutti indistintamente, esperti o meno,
dentro di
essa. Non dobbiamo affatto stupirci, snobisticamente, del continuo raggiungerci
e ragguagliarci da parte dei media circa la “filosofia di vita” di questo o
quel personaggio mondano, pubblico o meno pubblico (la differenza sta
liquefandosi). E non dobbiamo stupirci perché chiunque, riflettute o meno, ha
rappresentazioni e ontologie del mondo, senza le quali, in questo mondo, non
muoverebbe neppure un passo. L'«apertura», ha
ben detto una volta Vattimo, è di suo filosofica. Ancor prima era
stato Heidegger a tematizzare l’impossibilità di «una introduzione alla
filosofia», «rappresentazione» molto diffusa che vede l’uomo quotidiano
«anzitutto fuori» dalla filosofia: «In
verità l’uomo storico sta già sempre, secondo la sua stessa essenza, nella
filosofia. Perciò non si dà alcuna “introduzione” – pensando rigorosamente –
alla filosofia […] La filosofia, in quanto autentico pensare, è la contrada –
senza dubbio lontana e ancor sempre ignota – in cui il pensare abituale
soggiorna costantemente senza esserne esperto»[3].
Se
le cose stanno così, la filosofia può esser risorsa solo su un altro
terreno, andando cioè a cercare la propria essenza fuori da
sé, comprendendosi in modo (è giusta l'intuizione di Cavadi) non-filosofico
(qui dove allora il filosofico non potrà più essere punto di partenza e di
ritorno del giro di pensiero, ma tappa intermedia tra due stadi velati).
Cercandosi là dove forse non è più “filosofia”, ma unicamente e solo pensiero.
La scomparsa e insieme il dominio incondizionato del mondo da parte della
filosofia potrebbero, da una parte, spiegare in che senso, oggi, sia come
filosofi che non-(ancora)-filosofi, non si possa decidere più nulla;
dall'altra, nella ricerca di un nuovo terreno per il pensiero, questa scomparsa
della forza propulsiva della filosofia tutta potrebbe spiegare la strana ambivalenza per la
quale mentre «si registra nel contesto sociale un “incremento del fabbisogno di
riflessività”», nello stesso istante «il numero degli iscritti alle facoltà
filosofiche decresce, o nel migliore dei casi si mantiene stazionario». Perché
qui in realtà sono nominate, benché erroneamente con lo stesso linguaggio
(filosofico), due cose diverse: mentre il numero degli iscritti alle facoltà
filosofiche decresce, aumenta la domanda sociale di pensiero – di cose pensate.
Il che è ben diverso.
Comunque
la vediamo, è possibile e auspicabile parlare
con Cavadi di una «rinascita della filosofia; ma di una filosofia che si
proponga di dare risposte sempre più dettagliate non solo alle formulazioni
‘classiche’ delle domande ‘perenni’, ma anche alle loro formulazioni cangianti,
impure, approssimative (che “non trovano adeguata soddisfazione nelle forme
storicamente determinate del sapere scientifico”)» e dunque, insieme ad essa,
del «concretizzarsi di una nuova professione, il filosofo-in-pratica». Quali allora i criterî direttivi di questa
nuova filosofia-in-pratica? Esiste una “fondazione” di questa pratica? È
possibile esibirne finalità, metodologie, fondamenti? E in ogni caso, è davvero
necessario?
Il bisogno di una fondazione epistemologica della filosofia-in-pratica è del tutto comprensibile, connaturato com'è alle
radici del progetto filosofico greco e ripropositivo, per un altro giro, di
quello che in filosofia da sempre è il problema (or ora sfiorato nel «rifiuto
del dualismo» metafisico e della «ricerca di uno sguardo
sinottico»). Ha ragione Cavadi: l'obiezione per cui soltanto la filosofia come
disciplina, e non come pratica, sarebbe legittimata alla ricerca di una fondazione
epistemologica, non è che un'inutile astrazione – il rinvenimento di una tale
fondazione sarebbe in grado, infatti, di riverberare e contrario
sulla filosofia come disciplina e sulla filosofia più in generale. Di sicuro il
tono di certe «richieste (e proposte) di una fondazione epistemologica»
risponde e corrisponde senz'altro, come dice Zampieri, a un mimetismo per lo
più accademico, tale per cui l'esigenza
fondativa risulta autoriferita e «supposta», più che reale e orientata alla
vita. Ma non può essere questo un deterrente; ancora più discutibile la
disinvoltura di chi, come Pollastri, liquida la questione dell'impossibilità di
una «teoria della consulenza filosofica» con la disarmante osservazione che una
teoria della stessa filosofia non è mai stata «neppure tentata nella storia
del pensiero occidentale», come se ciò autorizzasse l'omissione definitiva di
quella che è La
domanda, anziché riattizzarla con maggiore urgenza. Come mai, dovremmo invece
chiederci, non esiste una teoria della filosofia? In che senso proprio quel
tipo di linguaggio e di pensiero deputati in
modo eminente alla comprensione del mondo
rimane esso stesso incompreso, incomprensibile e inoggettivabile? È
ammissibile continuare a filosofare, non importa se in teoria o in pratica,
poggiando su un terreno-fondamento ancora così sconosciuto, e perciò in modo tale da aver più
solo una pallida idea di ciò che facciamo quando filosofiamo?
Per Cavadi dunque una (e non la) teoria della filosofia-in-pratica, la si chiami «identità filosofica», ma anche
solo “statuto”, «è costituita come ogni altra disciplina scientifica da un “insieme
organico pratico-tecnico-teorico”». La teoria – benché a tutt'oggi dissolta e,
come abbiamo detto, rimpianta neppure dagli addetti ai lavori – è qui anzi
tanto più importante perché va a riaffermare la differenza di statuto della
consulenza e della filosofia-in-pratica dalle altre scienze, risolte per lo più in
sperimentazione diretta e aggiustamento della tecnica (e non della teoria) di
riferimento. Citando Althusser, Cavadi argomenta che «la filosofia-in-pratica
rischierebbe di eclissarsi se accettasse di presentarsi come “una semplice
pratica che a volte, ma non sempre, dà dei risultati; semplice pratica
prolungamento di una tecnica [...] ma senza
teoria, perlomeno senza una vera teoria; che essa,
infine, può confrontarsi con i protagonisti del dibattito culturale solo se,
come ogni ‘scienza’, può, “con pieno diritto ambire al possesso del proprio
oggetto – che sia suo e solamente suo ”».
Riguardo
alle questioni terminologiche, benché maggiormente spendibile e di “successo”
in contesti privati e aziendali, «la formula ‘consulenza filosofica’ è infelice
in quanto si presta a troppi equivoci e fraintendimenti». Di conio anglosassone
infatti, il philosophical counseling (o counselling) indica qualcosa di troppo modernamente, e
pragmatisticamente, definito riferendosi in vari modi al “problem solving” e al
cosiddetto “benessere” del “cliente”; con questa curvatura di senso si rischia
di dissolvere lo statuto, appunto, e la grande specificità della filosofia-in-pratica nel mare
magnum esclusivamente moderno dei counseling.
Piuttosto
la consulenza filosofica ha a che fare, essendone un sottoinsieme, con le
cosiddette pratiche filosofiche, nate nel secolo scorso — il Sokratisches Gespräch di Nelson, la Philosophy for children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach, il Cafè philó e la Consultation philosophique di Sautet — e accumunate da una doppia dislocazione del
filosofare (di luogo: dall'accademia alla strada, e di attori: dal
docente-discenti al filosofo-uomini di strada). Diversamente da queste pratiche
però, che «hanno senso anche in rapporto a soggetti che non siano particolarmente
motivati all'interazione specifica con un filosofo» (i bambini in una Philosophy for children ad esempio), «la consulenza filosofica si dà solo
quando un soggetto (o una pluralità di soggetti) chiede esplicitamente e
formalmente di entrare in rapporto dialettico con un filosofo (conosciuto e
riconosciuto e cercato in quanto tale).
Confrontarsi
con le definizioni, con tentativi, dunque, in qualche modo sistematici è, come
abbiamo detto, per un filosofo, esercizio doveroso oltre che lodevole. Ecco le
coordinate di Cavadi: «la filosofia-in-pratica o è una filosofia o è un bluff».
E ancora: «la filosofia-in-pratica, in quanto è filosofia, è la dimensione costitutiva
di ogni pratica filosofica». In essa è questione di «rendere l'atteggiamento
filosofico tradizionale (anche) un motore di trasformazione del tessuto
antropologico» e di «soddisfare una esplicita domanda di confronto razionale
dialogico su problematiche esistenziali o sociali, proveniente da singoli o
gruppi». Il filosofo ‘praticante’ o ‘consulente’ (come preferisce
chiamarlo Cavadi, posponendo di posizione e significato il termine ormai
inflazionato e negativo – specialmente in Italia – di “consulente”) «può essere
tante cose, ma prima di tutto ed essenzialmente deve essere un (almeno
discreto) filosofo». Anche qui, sfuggendoci lo statuto più intimo della
filosofia, resta da capire in che senso un filosofo sia e
possa esser tale. Apparentemente meno impegnativa, più sbrigativa e
anglosassone (benché altrettanto insidiosa) la proposta di Andrea Poma, per il
quale la connotazione di “esperto in filosofia” — la cui competenza specifica non è elaborar
dottrine e ontologie da offrire al consultante, ma mettere a sua disposizione
strumenti, metodi e teorie della storia del pensiero (già pensato) — si
rivela la più adatta. Non già filosofo, bensì unicamente esperto. Ma se è lo
stesso Poma, obietta Giorgio Giacometti, a indicare nella “problematizzazione
infinitamente aperta e aprente” (quel ripensare al già-pensato detto da
Achenbach “secondo pensiero”), l'esercizio filosofico fondamentale, come può
uno che è unicamente un “esperto” condurlo in porto con successo? A meno che
tecnico (esperto) e filosofo, obiettiamo a nostra volta, non si inverino l'uno
nell'altro e non siano, in definitiva, che un'identica persona.
Delineata
l’identità della professione, «un’attività filosofica», e i suoi fini, «operare una trasformazione pratica», restano da
trattare «i metodi con cui tale fine può essere perseguito». Ora, «il domandare
della filosofia», interloquendo con Sini, «non ha in sé un metodo e neppure è
metodo esso stesso», tuttavia, puntualizza giustamente Cavadi, «la filosofia ha
diversi metodi, è cioè un'attività plurimetodica». E in ogni caso un
metodo la filosofia-in-pratica ce l'ha nella dialettica, ossia nel
linguaggio (logos) socialmente condiviso (dia) e pazientemente
argomentato. Di più, questo tratto duale o comunitario del dialogo filosofico
ha la particolarità di esercitare un più vasto controllo sui presupposti del
darsi della consulenza: la dia-logica mette sotto esame la sua stessa
possibilità e può pertanto orientare al cambiamento dei presupposti della
consulenza come pure a una sua interruzione. «La filosofia», rilevano
achenbachianamente Cavadi e Contesini, «è quel sapere che non può non
chiedersi che cosa sta facendo, non può usare un metodo senza dare conto del
metodo stesso», un sapere ben allineato e attestato su una «meta-teoria
praticante» e su un «lavorare non tanto con i metodi, ma sui
metodi». Dall'alto di questa postazione fintamente favorevole, in quanto
superiore (“sui” metodi), dal distaccarsi metodico da ogni metodo (il
«metodo del non-metodo», lo chiama giustamente Giacometti) è desunto il
fondamento di ogni «pratica autenticamente filosofica». Corretto. Qui iniziano
però anche i problemi. Aggiunge infatti ancor più lucidamente Lucina Regina,
creando, almeno nei razionalisti, un certo scompiglio, che questa «peculiare
convivenza di rigore e sregolatezza nella filosofia risiede nella necessità di affidarsi
al concetto e di fidarsi del concetto, sperando nella sua verità».
Verbi maggiormente consoni, com'è evidente, a un contesto teologico (“sperare”
e “aver fede”) più che razionale-ontologico. Si prospetta dunque anche
nella pratica filosofica il salto in un buio (similmente al salto nel
buio della fede nel credo religioso-teologico) solo declinato sul
versante ontologico: il salto nel buio del concetto. Quale che ne sia
la rappresentazione-guida (fede, concetto o altro...) e per quanto esplicativa
essa possa essere, sappiamo ora che il pensiero filosofico resta guardato da
una velatezza che fondamentalmente gli sfugge e che un tale sfuggire riguarda ogni
suo versante (riguarda, com'è stato detto una volta, l'«onto-teo-logia» per
intero).
Precisa comunque Cavadi che possiamo intendere per
metodo il discorso a
patto di non intendere per discorso una “procedura”, «una via canonica seguendo
la quale è certo che si arrivi a una meta prevista». È vero il contrario
(seguendo la quale è certo che ogni meta prevista sia disattesa). Il discorso
è metodo in quanto via al non-arrivare, “punto di non arrivo”. Sempre più
metodo, capiamo, e sempre meno vita conosciuta, cose pensate. Tutto destruens.
È
chiaro che «cadere nell'inconcludenza», ammette Cavadi, è un attimo. Anche se
questo, aggiungiamo noi, non è un rischio specifico della “professione” filosofica che, come ogni
altra in questo caso, ha “obbligo” unicamente di prestazione, “di mezzi”,
piuttosto che “di risultato”.
Non
esiste – ma nemmeno, dovremmo dire, ci interessa – procedura in grado di
attivare dialoghi filosofici, né di assicurare preventivamente un risultato.
Come diceva Socrate nel Teagete il dialogo è governato dall'enigma, da una
potenza insolita e non prevedibile. Così non a tutti la sua conoscenza
procurava giovamento. Alcuni interlocutori, non avendo orecchie giuste al suo
ragionare, non accedevano ad alcuna verità. Per lo stesso motivo duemila anni
dopo, alla fine di questa stessa parabola di pensiero, Nietzsche chiamava il
suo Zarathustra “un libro per tutti e per nessuno” (per tutti coloro che hanno
occhi e orecchie per intendere e per nessuno di coloro che non ne ha). Non
dev'essere una nostra preoccupazione.
Quanto
a Socrate, prosegue Cavadi, il continuo richiamarsi «al Socrate platonico»
dell'odierna letteratura sulla consulenza filosofica, ha generato l'errata
impressione che il rapporto dialogico filosofico a due sia «asimmetrico» o
«asintotico» (non convergente, secondo la capziosa precisazione di Giacometti)
e che una tale asimmetria produca di per se stessa quell'odiosa unilateralità
e dipendenza caratteristica, invece, delle psicagogie. Non è il nostro caso.
Infatti, benché «la “determinazione” principale della filosofia-in-pratica»
sia quella di «essere una filosofia per non-filosofi», Cavadi ci insegna
che il consulente «deve essere in grado di utilizzare la disparità di
conoscenze/abilità/competenze iniziale per abolirla: per mettere l'altro nelle
condizioni di poter dialogare con tale libertà interiore e psicologica da
diventare un pari grado».
Di
più, proprio la disparità è la risorsa, in quanto è lo spazio e la distanza
percorrendo le quali, in un senso e nell'altro, consulente e consultante
saggiano e ponderano, nella distanza stessa, le rispettive e reciproche
posizioni. L'asimmetria è così indicazione, se mai, di una relazione di
pensiero praticabile. E in questo andirivieni di entrambi, la
sorpresa del filosofo (più che dell'ospite), la miglior garanzia di riuscita.
Lasciare che gli altri, dice bene Zampieri, benché indirettamente, attraverso
la loro comprensione, ci arrivino e ci trasformino (“la parola di un non filosofo può deviare la mia
traiettoria nel mondo”).
«Da
Socrate ai giorni nostri», chiarisce infine Cavadi, «il dialogo filosofico ha
per lo più assunto i caratteri di un apparato retorico-didattico finalizzato a
condurre l'interlocutore verso conclusioni prefissate: esemplare la formula
“dialogo ecumenico” che, senza neppure troppi sottintesi, serve alle chiese
cristiane per contaminare le altre delle proprie teologie e, nel caso di dialoghi
ecumenici interreligiosi, per ottenere dalle confessioni religiose differenti
la legittimazione della propria identità». Quindi dialogo come procedura volta
al controllo, al dominio e alla riaffermazione di un sé già-noto (la
«conservazione-accrescimento» del proprio «punto di vista del valore») e come
tattica esplorativo-conoscitiva in ordine a un esito di tipo paternalistico
(manipolazione, psicagogia, conversione o sé-duzione, pilotaggio).
Modalità
per noi ingiustificabile nemmeno se la finalità fosse il problem solving,
«la risoluzione del problema dell'interlocutore». Dunque non il “dialogo”
(come si è venuto storicamente inverando) ma, come indicato da Pollastri e
Miccione, piuttosto la “conversazione” intesa come «modalità interamente
comunicativa “più libera, più gratuita, nella quale ci si confronta umanamente
e non tecnicamente, nella quale l'argomentare va avanti senza finalità e, per
questo, fa accadere il suo proseguimento, non lo insegue né lo causa”:
“l'obiettivo è che succeda qualcosa, ma non che questo qualcosa sia
determinato”». Cavadi suggerisce però
secondo noi a ragione, al posto del debolistico “conversazione”, il termine
“colloquio”, o al limite anche lo stesso “dialogo”, ma a patto di intendere
«senza possibilità di equivoci che “esso è esigente e ha uno scopo preciso, che
è la verità. Dunque può essere anche duro. Ma non è né la discussione eristica
tra due che si vogliono sopraffare, né la persuasione occulta esercitata da chi
cerca solo di plagiare l'altro”». La verità è infatti il presupposto del
dialogo, «che ciascuno dei due interlocutori “voglia veramente trovare la
verità”». Perciò non «si deve sgambettare per partito preso un avversario, ma
neppure blandire, ruffianamente, un cliente». Verità indica qui la
sottomissione non solo della posizione dell'altro, ma anche della propria,
all'unica legge del pensiero, quella di contraddizione.
Il
metodo è allora «dis-corso», dis-correre, scorrere “qua e la” (dis) della
“cosa”, tra i dialoganti non meno che tra i rami dell'albero dell'essere (i génh toû 3ntoj
di Platone), e dunque per ben due volte dialettica. Gli esiti, però, generalmente scettici
(lett. di pura “osservazione”) di una tale dialettica sono respinti con forza
da Cavadi, assieme «all'opinione diffusa fra i consulenti attuali che il
modello in proposito sia Socrate [...] come maestro di scetticismo» e la conseguente
fondazione della filosofia-in-pratica come attività di pensiero «fondata di diritto su
prospettive scettico relativistiche [...] mero esercizio critico sulle diverse
discipline [...] priva di capacità conoscitiva autonoma». Il dialogo «non va
assolutizzato» poiché piuttosto è con e attraverso di esso che riusciamo a
toccare e ad essere toccati, se siamo fortunati, le e dalle “cose stesse”.
Doveroso
rivolgere un ultimo sguardo a una questione puntualmente ricorrente nel dibatito
sulla consulenza e sulla filosofia-in-pratica – se e in che senso, cioè, sia
“cura”. «Il pensiero occidentale nutre da diversi secoli un forte disagio di
fronte alla richiesta di confrontarsi con le vite di singoli umani. Un disagio
che [...] viene fatto sparire aprendo rapidamente la botola della malattia. Chi
nutre un interesse a pensare la propria esistenza fino in fondo è consigliabile
che oggi viva nascostamente [...] se facesse troppo clamore attirerebbe il
medico o il sacerdote. Gli si chiederebbe di essere un malato o un fedele»
(Miccione). Ed è proprio a questi “perplessi”, «che non si lasciano convertire
né alla medicalizzazione né alla teologizzazione del disagio», che si rivolge
la filosofia-in-pratica. Ora, nonostante Heidegger e ogni pur legittimo
tentativo di ricontestualizzazione, il termine “cura” si rivela qui, alla
nostra bisogna, del tutto fuorviante, o come ha ben detto Pollastri «una
nozione da usare con cura». Quand'anche volessimo parlare di «una cura dei... sani», rileva giustamente Cavadi (ma l'accordo tra i
consulenti italiani è pressoché unanime), andremmo a infilarci nel
cortocircuito di un ossimoro che lascia solo spaesati: ci sarebbe qualcuno di
“si-curo”, di non esposto ad alcun pericolo (sine
cura) perché ancorato al fondamento di una qualche
sapienza (il filosofo), che assumerebbe paternalisticamente su di sé la cura,
l'affano, il pericolo di un ospite invece “intimidito”. Ma questa è proprio la
cifra di ogni altra professione, non di una consultazione filosofica,
non di un colloquio pensante. È vero l'inverso. Proprio la presunta assenza di
pericolo (la sine cura) delle nostre rappresentazioni quotidiane (in
cui indebitamente e per abitudine finiamo per mettere residenza) è ciò che per entrambi,
filosofo o apprendista tale, si tratta di abbandonare. Proprio l'esposizione al
“pericolo”, l'allontanarsi, «senza alcuna rete protettiva» (Rovatti),
dall'ombelico delle proprie pre-compren-sioni, fa di un semplice dialogare un
colloquio filosofico, un lasciarsi giocare – secondo le sue proprie,
imprevedibili regole – dal gioco della verità e di due (o più) semplici
sconosciuti, veri compagni di strada, ancorché per breve tempo, nella tenebra
di una notte che da troppo tempo tarda a rischiarare.
Senz'altro
da leggere.
Roberto Bigini
[1] A proposito dell’oltrepassamento
della metafisica qui adombrato è
stato osservato una volta (tra il '36 e il '46) da Heidegger che «la scomparsa
non esclude, ma anzi implica, che ora per la prima volta la metafisica pervenga
al dominio incondizionato nell'essente stesso, identificandosi con questo
essente inteso come forma priva di verità del reale e degli oggetti [..] La
metafisica non si lascia metter da parte come un'opinione, come una dottrina a
cui non si crede e che non si sostiene più [..] La metafisica oltrepassata non
scompare. Essa ritorna sotto forma diversa e mantiene il suo dominio come
permanente distinzione dell'essere rispetto all'essente».
[2] Difficile infatti pensare che
proprio le neuroscienze, ultimissime nate dal tronco della Filosofia, riescano
là dove questa, malradicata sin dall'inizio, non è riuscita in due millenni di
evoluzioni. Il “rifiuto” della distinzione resta problematico non tanto perché
il dualismo e la distinzione siano veri,
ben posti, “pensati”. Al contrario, perché conformemente alle supermetafisiche
di riferimento indicate da Cavadi (ebraismo, buddhismo, fenomenologia
husserliana, neurofisiologia), le neuroscienze utilizzano la distinzione, filosofica e già compiuta,
tra sensibile e non-sensibile per
rifiutarla, utilizzano, cioè, indebitamente ciò che dicono
di rifiutare — che «la mente» sia «tempo incarnato, situato, cosciente di sé,
intenzionale e pervaso di significati», addirittura «un grumo di tempo fattosi
corpo nell’umano» non “spiega” né ridice in alcun modo quest'esistenza a cui
vorremmo finalmente avvicinarci e, almeno noi filosofi di strada, magari,
accompagnarci (che cosa sono
qui infatti “mente”, “tempo”, “coscienza”, “intenzionalità”, “significato” e
addirittura “incarnarsi”?). Il “rifiuto della distinzione” nelle neuroscienze
non è allora che un ennesimo, nietzscheano, “rovesciamento sul luogo del
rovesciato”.
[3] Cfr. Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e
poetare, Bompiani, Milano, 2009
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