“Centonove”
2.7.2015
QUANDO GLI STUDENTI INSEGNANO
Una scuola “buona” ha
bisogno di aule pulite, luminose, protette dall’eccesso del caldo e del freddo.
Di bagni decenti (difesi da punizioni esemplari per i ragazzi che li
imbrattino). Di palestre attrezzate, di laboratori scientifici aggiornati, di
biblioteche aperte dodici ore al giorno. Di…Ma soprattutto ha bisogno di
insegnanti adeguati. Che significa discretamente preparati nella propria disciplina ma,
ancor più, appassionati di essa. E
così sinceramente rispettosi degli alunni da consentire il
contagio della passione, senza lo schermo della conflittualità emotiva.
Preparazione, passione, rispetto: certo, se poi c’è dell’altro (simpatia,
tenerezza, senso dell’humor, pazienza…) meglio ancora. Ma l’essenziale è in
queste tre qualità.
Quanti sono gli insegnanti
in questo senso adeguati al ruolo?
Dopo sessant’anni di vita scolastica (da alunno e poi da docente) mi
sbilancerei per un cinquanta per cento: abbastanza per non far crollare
l’istituzione scolastica, troppo poco per assicurare al Paese un futuro dignitoso.
Se poi ci si chiedesse come potrebbero i nuovi docenti imparare il mestiere e
adeguarsi al compito, risponderei: innanzitutto con l’osservazione ravvicinata
dei colleghi più anziani che abbiano le caratteristiche richieste. L’arte si
impara, essenzialmente, in bottega. Un’altra possibilità è leggere racconti
esperienziali di colleghi che – con tutti i limiti e le imperfezioni – possono
considerarsi validi modelli di riferimento. Io pretendo la mia felicità (ho
pagato tanto e adesso me la merito), a cura di Rosaria Cascio (Navarra,
Marsala 2015, pp. 80, euro 8,00) è uno di questi racconti di vita scolastica
che possono alimentare, senza enfasi fuoriluogo, una vocazione pedagogica. Nel
volumetto, infatti, l’insegnante di lettere cuce - con il filo rosso della narrazione di un anno in aula –
testi scritti da vari alunni proprio in vista della pubblicazione di un libro
che ne rappresenti progetti, timori, emozioni, sofferenze.
L’idea-guida è esposta nella
Prefazione di Pia Blandano, la
Dirigente scolastica dell’istituto (il Liceo psico-pedagogico “Regiona
Margherita” di Palermo): “Qualsiasi intervento formativo si qualifica sempre
come autotrasformazione di tutti gli attori (alunni, insegnanti, genitori ecc.)
che entrano, direttamente o indirettamente, con finalità e modalità differenti,
nel sistema oggetto d’intervento”. E, in effetti, da un’ora di lezione o di
correzione di compiti d’italiano a casa, non si esce così come vi si è entrati:
si agisce, si reagisce, si viene ‘agiti’.
La gamma degli stati d’animo
esistenziali è vasta. Dalla insoddisfazione (“Ho bisogno di voler cambiare, non
mi sento accettata dal mondo, mi sento sola anche in compagnia, mi sento
inutile”) al disagio di essere straniero (“Con il mio trasferimento qui a
Palermo, ho subito capito che i rumeni non stanno molto simpatici agli
italiani, per vari motivi, forse a volte è anche la televisione che esagera un
po’ troppo e poi ho capito che gli italiani son così, si fanno ingannare dalle
apparenze”); dal dolore per un lutto (“Otto mesi fa se n’è andata mia nonna. E’
stata una delle esperienze più brutte. In quegli attimi in cui la vedevo nella
barella, rimpiangevo di non aver passato più tempo con lei, e a pensarci,
rimpiango ancora, amaramente”) alla gioia di sperimentare i primi innamoramenti
(“Lei non è solo un’amica, ma ualcosa di più. Tengo a lei in una maniera
incommensurabile, come se fosse mia figlia, anche se non so cosa si prova ad
avere dei figli, ma penso sia la cosa più bella che nasca dall’amore di due
persone. Si è sempre presa cura di me. Con lei non mi preoccupo di parlare di
nulla, abbiamo moltissima confidenza. Penso che rapporto più bello di questo
non esista”). Anche la presenza di Angelo, il compagno “con qualche problema in
più di noi”, diventa silenziosa lezione di vita: “Penso che sia una fortuna
avere Angelo in classe con noi perché quando qualcuno prenderà in giro questi
ragazzi un po’ meno fortunati non credo che ce ne staremo zitti, piuttosto gli
faremo capire che anche quei ragazzi hanno un cuore, dei sentimenti, sono come
dei bambini innocenti che non sanno cos’è il male, la cattiveria”.
Anche nella I E (come in
molte classi del Meridione italiano), in vista delle feste di natale, arriva
puntuale la febbre della contestazione. Lo sguardo di Rosaria Cascio si rivela
qui particolarmente lucido: noi insegnanti “per ogni protesta fatta abbiamo
ottenuto soltanto la detrazione dallo stipendio per la giornata di sciopero e,
a lungo andare, ne abbiamo perso il senso e il valore. Ma voi no, voi non
perdete la voglia anche se dietro a quell’improvviso senso di ribellione
alberga, camuffata, una diversa voglia di mettere in mostra tutta la vostra
tempesta ormonale spaventosamente in atto. […] Sempre meno si scrivono proposte
ed ncor meno si chiedono audizioni nei palazzi del potere che, faranno pure
ribrezzo, ma restano pur sempre i luoghi delle decisioni. Sulla scuola e sulle
nostre teste. Alcuni di voi prendono la cosa sul serio; altri – soprattutto i
più piccoli – ne approfittano per nascondere, sotto l’impegno dei grandi, la
possibilità di divertimento e di libertà senza pericolo”.
Il libro si chiude con la
testimonianza dell’ultima arrivata (a gennaio, dopo più di tre mesi di scuola):
“Ehi turca ! Queste sono le parole che spesso mi sento dire. Queste parole ogni
giorno mi feriscono sempre di più. Essere una di colore non vuol dire essere
diversa. Io amo la notte, perché di notte tutti i colori sono uguali ed io sono
uguale. Ho sempre lottato contro il razzismo; fin da piccola le persone non mi
hanno mai accettato e penso che non mi accetteranno mai per quella che sono.
Sono stufa di essere guardata dalla testa ai piedi solo perché sono nera…il
razzismo esiste ovunque vivano gli uomini. Il razzismo è nell’uomo; si è sempre
lo straniero di qualcuno…Alcuni pensano che noi neri non abbiamo un cuore
invece ce l’abbiamo e soffriamo come tutti gli altri, non importa se la mia
pelle è diversa dalla tua. Quello che conta è ciò che abbiamo dentro…un cuore è
il mio ed è uguale al tuo. Dopo la strage dei migranti a Lampedusa sentire dire: ‘Erano troppi;
ora abbiamo poche bocche da sfamare’. Come si fa ad essere tanto crudeli? Già
mi rattrista il cuore pensare al numero dei morti. La confusione lascia spazio
al silenzio davanti alle immagini di quelle vite spezzate…forse per venire qua
a trovare un lavoro e mandare del denaro alle famiglie. Prima che arrivassero i
bianchi in Africa noi eravamo cittadini e anche se non sapevamo mangiare con le
posate, non conoscevamo la fame. Oggi invece siamo solo dei “clandestini” che
vengono nel loro paese a rubare il lavoro quando loro sono stati i primi a
derubarci di dignità. Credo che il mondo deve essere un pianoforte che da testi
neri e bianchi estare una dolce melodia…Non tutti i bianchi o neri sono razzsti
e questo l’ho capito da come i miei nuovi compagni mi hanno accetatta per
quello che sono. Mi fanno sentire una di loro ed è un sentimento bellissimo che
dopo anni e anni finalmente mi sento me stessa: Il mio nome non è ‘turca’ …”.
Insomma: la scuola come casa di risonanza delle dinamiche sociali, ma forse
anche – in minima parte – agenzia di trasformazione delle coscienze e, in
prospettiva, delle dinamiche sociali stesse.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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