Nella cultura ebraica raccontare storie è sempre anche riviverle: se non
fosse così, nell’era della scrittura, che senso avrebbe ri-raccontare vicende
che sono state fissate sulla carta già tante volte? E’ sempre con un velo di
commozione, dunque, che noi anziani – testimoni partecipi di ciò che è accaduto
in Sicilia fra la fine degli anni Settanta e l’inizio del Terzo Millennio –
rileggiamo i testi di giovani che, con tenacia, si mettono a ri-scrivere per
l’ennesima volta una stagione particolarmente efferata di mafia e
particolarmente gloriosa di antimafia.
Certo alcuni dettagli, l’angolazione stessa da cui alcuni fatti storici
sono evocati, possono lasciarci qua e là perplessi e, quando ci è chiesto un
parere (come nel caso dell’ autrice di questo saggio, docile nel senso originario e più bello della parola), proponiamo
qualche limatura e qualche ri-orientamento: ma sulla base della convinzione che
nessuno ha il monopolio della verità, neppure - o forse meno ancora – chi è stato coinvolto in prima
persona e non ha né potuto né voluto guadagnare la distanza necessaria per
‘oggettivare’ i vissuti.
Quali i motivi principali per aggiungere questo titolo a una
bibliografia che, pur nella varietà dei livelli scientifici, è ormai
abbondante?
Ne elenco tre nella certezza che ogni
lettore ne aggiungerà altri, a seconda delle sue esigenze e aspettative.
Prima ragione: la monografia contiene
testimonianze di prima mano di persone che hanno vissuto da protagonisti le
vicende di cui si tratta (vedi, ad esempio, i racconti di Rosanna Pirajno a
proposito delle “Donne del digiuno” dopo le stragi dell’estate 1992, Cosimo
Marasciulo, Enrico Di Trapani e Marco Bertelli).
Seconda ragione: la monografia si
interroga sulle condizioni necessarie a un’associazione antimafia per
comunicare il proprio messaggio, trovare fondi e soprattutto nuovi militanti. E
risponde facendo appello non solo a “regole scritte e obiettivi
dichiarati”, ma soprattutto a “valori condivisi”. C’è qualcosa di più attuale
da recuperare in una fase di scarsa credibilità del movimento antimafia,
inquinato da esponenti sospettati di connivenze mafiose e, in qualche caso,
colti in flagranza di reato ?
Terza
ragione: al di là delle difficoltà contingenti (che ci auguriamo facilmente
superabili), il movimento antimafia soffre di tare congenite. Tra queste, in
ciascuna associazione, la scarsa democrazia interna e l’alta litigiosità
esterna (con organizzazioni e sigle dalle finalità convergenti). Che una
studiosa della comunicazione provi ad applicare al movimento antimafia le
acquisizioni della psicologia e della sociologia relative a questa dimensione
costitutiva dell’esperienza umana (individuale e collettiva) non può che far
bene a chi abbia orecchie per intendere. “La missione di un’associazione è la
finalità che persegue” – scrive a un certo punto la Zerilli. E continua:
“Compito della comunicazione è portare entrambi i suddetti fattori all’esterno
dell’associazione per consolidarne la legittimazione, ma anche riproporle ai
soci e alle risorse umane per rafforzarne cultura associativa, motivazione e
senso di appartenenza”. Tale duplice finalità non è perseguibile se
un’associazione è tutta imperniata su un leader
cui si debba non solo gratitudine come al fondatore, ma anche devozione cieca
come a un guru. Infatti “ la
strategia dev’essere condivisa dagli associati, deve mettere a punto programmi
e iniziative coerenti con lo scopo che persegue e deve essere oggetto di
occasioni di confronto e comunicazione all’interno dell’associazione”. Nè
l’identità collettiva maturata va mai brandita come una clava per abbattere la
concorrenza esterna.
Poiché mafia e antimafia sono fenomeni
in divenire, ci auguriamo - per Eloisa Zerilli e soprattutto per il futuro del
Paese - che questa pubblicazione sia
solo l’incipit di una lunga
serie di analisi e di proposte critiche. Repressione giudiziaria e prevenzione
educativa sono armi irrinunciabili, ma entrambe presuppongono il dispiegamento
degli strumenti intellettuali a disposizione dei giusti.
Augusto Cavadi
ww.augustocavadi.com
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