“Phronesis”
Anno XII (2014), numero 21-22
LETTERE SU ERMANNO BENCIVENGA, La filosofia come strumento di liberazione (Cortina, Milano 2010).
Uno scambio epistolare fra Augusto Cavadi e Poalo
Cervari
Caro Augusto,
ho ripreso recentemente La filosofia come strumento di liberazione, che avevo attentamente
processato già alla data della sua uscita, nel 2010. E nel rileggerlo, sia pure
saltellando qua e là, mi sono ritrovato molto d’accordo con
Bencivenga. Di certo è un filosofo di alto livello e per di più attento e
informato di quanto accade nella scienza contemporanea, motivo per cui, per
esempio, a livello ontologico si rifà alla meccanica quantistica. Il libro, di
quasi divulgazione, ha il merito di mettere sul tavolo moltissime questioni
importanti, e in generale non ci risparmia affermazioni forti e sorprendenti,
così come ragionamenti sintetici ma ben articolati, in tutti i campi della
filosofia, dall’etica all’estetica, dalla politica alla metafisica, dall’ontologia all’epistemologia.
Come ti dicevo, mi sono ritrovato d’accordo con l’autore in ogni questione,
quasi in ogni passaggio, fino ad esserne insospettito. Cosa non quadra? E
meditando su questa domanda ho infine trovato una risposta: va tutto troppo
bene. Ovvero: la visione di Bencivenga è ottimistica e positiva, fonda non solo
l’essere dell’uomo, ma perfino l’intero universo sulle nozioni di gioco e di libertà, da cui la filosofia “come strumento di liberazione”, tema che
immagino sia caro anche a te, e dipinge un mondo in cui sembra quasi assente il
male. Intendo un male radicale, non un male residuale o privativo. E così mi
sono proposto di girarti la questione: che ne pensi? Mi spiego un poco di più:
secondo Bencivenga (nomen omen!) il male deriva in fondo,
riassumendo un po’, dal fatto che noi possiamo
scegliere di trattare gli altri come cose od oggetti. Ebbene mi è venuto da
pensare che tutto questo sorvola elegantemente sulla questione per l’appunto del male radicale, così come l’ha formulata
(è un riferimento, ma non vincolante) Jacques Lacan quando parla del godimento
dell’Altro: il punto chiave è che vuole godere di me, trattarmi per l’appunto come una cosa di cui disporre a piacimento. E dunque, e qui
concludo, la questione non sta tanto nel fatto che noi abbiamo la libera scelta
di fare o non fare questa bruttissima cosa, ma che per certi versi noi (si
anche noi) vogliamo e, insieme, siamo necessitati a farlo. Giusto per
girarla infine in pop philosophy, richiamando un personaggio con cui si è
misurato anche Zizeck, te lo immagini il
dialogante ed irenico Bencivenga di fronte ad Alien? Che ci farebbe, un bel
discorsetto? E dunque mi ripeto:
che ne pensi?
Caro Paolo,
una
visione può essere definita “ottimistica e positiva” solo se, preliminarmente,
si stabilisce un parametro di valutazione. Rispetto a uno Schopenhauer – ad
esempio – Bencivenga può risultare un buontempone: non così, ad esempio,
rispetto a un Leibniz…Per esprimermi meno genericamente nella questione
interessante che sollevi, distinguerei gli scenari che mi pare ti appaiono
invece assimilabili: lo scenario cosmico e lo scenario antropologico.
Dal punto di vista del cosmo, Bencivenga è un
ottimista? Forse, col metro dell’assurdismo nietzschiano o sartriano, sì: per lui,
infatti, non pare che “in principio sia l’Assurdo e l’Assurdo era Dio” né il
mondo sia “un’orribile marmellata” opaca, appiccicosa, senza senso. Ma non lo
qualficherei ottimista rispetto a quelle concezioni teistiche secondo le quali
il mondo può giocare quanto vuole e come vuole, ma sotto l’occhio previdente e
provvidente di un’Intelligenza creatrice. Sì, egli rinvia qua e là ad una
matrice “neoplatonica”, ma in chiave essenzialmente anti-materialistica: ti
sembra che per lui, come per ogni neoplatonico, il mondo sia generato dal Bene
e destinato a ritornarvi? Non direi.
Più fondate le tue riserve sul piano
antropologico: egli sembra ignorare non solo ogni “peccato originale”
all’Agostino di Tagaste, ma anche ogni “male radicale” alla Immanuel Kant. Qui
però devo confessarti che non saprei se rimproverargli questo oblìo o attribuirglielo
a merito. Provo a spiegarmi meno male che posso. Che Freud o Jung abbiano
ragione nel diagnosticare un “impulso di morte”, una “ombra”, nella struttura
antropologica, non c’è dubbio: ma, d’altra parte, sostenere con Anassimandro che
dobbiamo scontare morendo la colpa d’essere nati o, con Pascal, che il
“mistero” del “peccato originale” debba essere assunto per fede come criterio
ermeneutico della condizione umana, mi sembrano posizioni francamente
ingiustificabili. Ingiustificabili teologicamente (perché nella Bibbia non c’è
la dottrina del peccato originale come l’la formulata sant’Agostino e come
viene insegnata da tutte le chiese cristiane: Matthew Fox nel suo In principio era la gioia e Vito Mancuso in tutti i suoi libri più
recenti lo spiegano ad abundantiam),
ma – e a noi come filosofi importa molto di più questa seconda angolazione –
ingiustificabili teoreticamente. Infatti l’esperienza ci dice che la natura dell’uomo
esiste, ma è storica: l’uomo non nasce libero, ma liberabile; non perfetto, ma
perfettibile. Qui l’ottimismo di Bencivenga - che mi pare riguardare l’uomo come può diventare non
l’uomo come è di fatto – mi pare condivisibile.
Dunque sono d’accordo con questo suo libro al 100% ? No, anch’io ho le
mie riserve. Comincio, per rilanciarti la pallina, con due.
La prima è quando attribuisce alla filosofia il compito di destrutturare
il senso comune, il noto. Lo diceva già Hegel che il noto è spesso nemico del
vero, ma non possiamo fare - a mio
parere – della dissacrazione un criterio rigido. Ci sono molti casi in cui la
filosofia è costretta a capovolgere l’opinio
communis, ma altri in cui deve rinunziare ad essere stupefacente a ogni
costo: altrimenti diventa schiava dell’anticonformismo di principio. Tra i
colleghi con appeal mediatico più
elevato lo trovo un vezzo diffuso.
Personalmente ritengo che la fedeltà a ciò che ci appare vero può
imporre alla filosofia di essere, per rubare a Wright Mills la sua definizione
di sociologia, la penosa elaborazione dell’ovvio.
Ma la filosofia ha a che fare con la
verità, con l’accertamento di “come stanno le cose” là fuori di noi? Tocco qui una seconda riserva nei
confronti del discorso, per tanti versi intrigante, di Bencivenga. Egli
identifica realismo e materialismo, ma per me è un abbaglio: ogni materialismo
è un realismo, ma non ogni realismo è materialismo. C’è un realismo che
consiste nel prendere atto della oggettività della materia ma che non si limita
ad essa e ritiene che, nella sfera del materiale, cova ed emerge e qualche
volta esplode un surplus di
immateriale. Essere realisti nel
senso di voler capire come è la realtà in sé può essere una ingenuità o il
sintomo di un delirio di onnipotenza o quel che si voglia, ma non
necessariamente un indice di materialismo. (Naturalmente non sto sposando le
tesi del neo-realismo di questi ultimissimi anni, se non mesi, di cui parlano
Maurizio Ferraris & company: l’ho
studiato poco perché ogni proposta teoretica che sa troppo di lancio
pubblicitario di un nuovo prodotto alla moda mi dissuade dall’approfondirla. Se
può servire un riferimento bibliografico, mi orienterei piuttosto sui testi di
Franca D’Agostini). Allora -
stringo verso la mia obiezione - se egli afferma che la filosofia debba
inventare una società diversa dall’attuale, concordo; se afferma che debba
inventare universi possibili, non sono d’accordo. Prima di disegnare utopie
(legittime e necessarie in ambito storico-sociale) la filosofia deve decifrare
il cosmo nelle sue strutture ontologiche: in costante dialogo con le scienze,
nella piena consapevolezza della differenza di competenze, la filosofia è anche
un modo di conoscere la verità dell’universo. Una verità parziale, smentibile,
completabile, ma una verità. Con buona pace di Fichte (e se non equivoco anche
di Bencivenga) questa modestia epistemica di chi vuol fare girare il soggetto
intorno al mondo (proprio come se Kant non ci fosse) la chiamo realismo: né
dogmatismo né materialismo.
Ma forse così hai abbastanza materiale da cui
prendere le distanze…
Caro Augusto,
più che “materiale da cui prendere le distanze” mi
hai dato un’overdose di materiale:
hai citato una ventina tra filosofi, correnti e pensatori e credo che, qualora
convocati tutti, il dibattito eventuale scadrebbe, benché tu non abbia citato
cinici, in cagnara.
Mi limito pertanto ai pochi punti in cui mi pare
apparire con chiarezza nella tua lettera una tesi. E parto dalla tue
considerazioni sui rapporti tra “lo scenario cosmico e lo scenario
antropologico”. Mi accusi di averli assimilati. Può darsi, non ne ho fatto
credo una tesi, ma può darsi che non ne abbia accuratamente discriminato i
confini. Ma c’è un perché. In primis sarebbe cosa lunga, ma in
secondo luogo credo che la radice di tale tua impressione stia in alcune
opzioni filosofiche che forse non condivido con te. La prima è che credo che il
primato , il primum, filosofico non
sia il conoscere ma l’agire, e pertanto l’etica, e solo da lì possiamo a mio
parere costruire un ontologia. Detta in parole povere, seconda tesi, non credo
che esista un mondo, e in questo sono del tutto d’accordo con Bencivenga, ma
caso mai più mondi, da noi stessi e altri costruiti, poiché qualsiasi
osservazione comporta il comportamento di un osservatore (il riferimento è a
Varela, ma spero di citare pochi filosofi!), e pertanto la sua azione
osservativa fa parte del sistema osservato, cosa che a sua volta implica una
scissione originaria nell’ontologia stessa (è una posizione fichitiana? Forse).
Ciò comporta una posizione a favore della
molteplicità dell’essere, di ascendenza aristotelica, quando invece tu mi
sembri un po’ platonico (è vero? Che ne pensi?). E questo forse a sua volta spiega il tuo passaggio in cui mi
imputi in modo implicito, o comunque tiri in ballo come tesi da negare, il
“sostenere con Anassimandro che dobbiamo scontare morendo la colpa d’essere
nati o, con Pascal, che il ‘mistero’ del ‘peccato originale’ debba essere
assunto per fede come criterio ermeneutico della condizione umana” dicendo che
ti sembrano “posizioni francamente
ingiustificabili”. Più che Pascal, concorderei con Anassimandro, ma con questa
precisazione: tralasciando l’interpretazione che ne diamo oggi,
irrimediabilmente individualistica (e quindi cristiana), leggerei la parte
maledetta evocata dal greco come una conseguenza di quanto detto prima: se
costruiamo mondi e non possiamo fare altro che farlo, per tanti che ne
costruiamo, tanti altri ne tralasciamo, distruggiamo e condanniamo al silenzio.
E qui forse c’è la radice del Male a cui accennavo nella mia precedente
lettera, che a sua volta dipende dalla libertà che ci prendiamo di fare mappe e
mappe di mappe di ciò che poi chiamiamo un
mondo. Non si tratta di infrangere una regola, trasgredire un’ingiunzione,
rinnegare questo quest’altro: distruggere e costruire sono due lati della
stessa medaglia, e qui sta a mio avviso la radice della crudeltà intellettuale
del filosofo, che sotto questo
profilo certamente, costruisce mondi possibili, come tutti peraltro, anche i
non filosofi.
E ancora, anche nella tua tesi che l’uomo “non nasce
libero, ma liberabile” ravviso una tendenza all’unificazione che non mi
appartiene, e non tanto nell’idea che esista “l’uomo”, quanto nell’idea che
esso “nasca”: vedo del creazionismo in questa tua idea, dove per creazionismo
intendo un modo di pensare che a mio parere appartiene pure ad Heidegger e a
tutti quei pensatori che ancora mantengono un orientamento ad affermare
l’assoluta differenza dell’uomo rispetto al resto del mondo (dei mondi).
Anch’io propendo per un primato antropologico, ma per me coincide col fatto che
siamo l’osservatore (e l’osservatore di osservatori…) e quindi più che una
luminosa eccellenza piuttosto un’accecata particolarità condannata a non vedere
l’occhio che guarda con il medesimo occhio che guarda ciò che viene guardato:
insomma siamo sempre posizionati.
Motivo quest’ultimo per cui l’idea di potere “conoscere la verità
dell’universo”, compito che tu assegni alla filosofia, mi fa oscillare tra sdegno
e ilarità. La verità? L’universo? Ma per favore! Perdonami il
tono, ma stiamo giocando a disputare… e un po’ di sputi riscaldano il processo…
Concludendo e tornando al tema da cui siamo partiti,
ricucendo un poco altre cose che hai di passata sostenuto: non sono realista
(materialista poi nemmeno per idea) se per realismo intendiamo la tesi per cui
ci sono cose nel mondo e il mondo è la somma di queste cose che ci sono dentro.
E nemmeno interpretazionista puro,
perché con Ferraris e altri convengo che vi siano oggetti fisici con statuto
diverso, per usare la sua terminologia, dagli oggetti sociali. Penso che
tuttavia che pure gli oggetti fisici non siano da noi appresi per quello che
sono, ma solo come mappe che ci facciamo di un qualcosa che con buona
approssimazione posso ricondurre a qualcosa di non distante dalla cosa in sé
kantiana. E convengo con Bencivenga che tutto quanto sopra comporti dialogo,
gioco e libertà. Ma per chiudere il cerchio ancora una volta, ritengo che il
nostro autore trascuri i contrari che ne discendono per logica: imposizione,
condanna e lavoro.
E non c’è bisogno per ammettere questo né di un Dio
Maligno né di un peccato originale, ma nemmeno, anzi al contrario, di pensare
che in principio vi sia la gioia, che tutto questo sia gioia. E’ semplicemente
il modo con cui ci ritroviamo ad essere: una fuoriuscita dall’Eden? Si, ma
l’Eden è una favola che abbiamo costruito dopo…
E polemos è la madre di tutte le cose.
Caro Paolo,
comincio con una nota marginale, una sorta di breve parentesi, sulla
“ventina di filosofi” (ti piace esagerare, vedo!) da me citati. Tu sai che, nell’esercizio della nostra
professione di filosofi consulenti, ne citiamo pochi o punto. Non così – almeno
io – quando discutiamo da lettori di filosofia con colleghi della medesima
area: infatti citare un autore mi serve per alludere con un nome a un universo
di pensiero che sarebbe prolisso ri-narrare. A parte il fatto che è un
elementare atto di onestà intellettuale: non penseremmo se non fossimo dentro
una tradizione che ci precede e, spero, ci sopravviverà.
Ti sono grato per la chiarezza con cui esponi la tua prospettiva: sei
(fichtianamente o meno, questo davvero poco importa in questo momento) un
filosofo che “costruisce” mondi. Poiché io sono un filosofo che cerca di
“scoprire” l’unico mondo esistente (sia pure analogicamente esistente in più dimensioni, a più livelli), è ovvio
che i nostri giudizi su Bencivenga possono concordare, su qualche passaggio, per accidens: in radice partono da
angolazioni opposte. Possiamo in questa sede argomentare le ragioni teoretiche
di ciascuna delle nostre opposte visioni del filosofare? Suppongo che converrai
con me sulla negativa. Mi limito dunque a fare mia una domanda della De
Agostini (la domanda che conclude un suo brano dalla Introduzione alla verità del 2011): la nostra generazione è stata
condizionata fortemente da “una prospettiva filosofica che si è dichiarata antimetafisica, ma spesso si è rivelata
portatrice di una metafisica implicita, molto restrittiva, e tanto più dogmatica quanto inconsapevole. Una possibile descrizione, in breve, è la seguente:
si tratta di una interpretazione della indipendenza
della realtà (esiste una realtà “in sé” che non è “per noi”) in termini di
inaccessibilità. Per avere V devo avere realtà indipendente, ma poiché
l’indipendente è inaccessibile, V risulta essere un concetto insensato (o deve
essere radicalmente riformato). Ma chi ha detto che l’indipendente è
inaccessibile?”.
Come vedi, sono un generoso: ti ho servito
in un piatto d’argento altri buoni motivi per sdegnarti (come non ti
consiglierei per la salute del tuo fegato) o per scompisciarti dalle risate
(cosa che riterrei estremamente più raccomandabile). Comunque, per finire, non
voglio sottrarmi, dato che lo spazio a nostra disposizione non è illimitato, a
due o tre tue curiosità ad personam
(meam).
Sono più neoplatonico che
aristotelico? Non direi. A meno che, scajolanamente, non lo sia a mia insaputa. Certe citazioni (“Il
mondo viene dalla grande Gioia e va verso la grande Gioia”) avranno potuto
trarre in inganno: erano posizioni neo-platoniche che richiamavo non perché le
condivida (sono in riflessione su
questo punto cardinale), ma per ipotizzare un parametro di riferimento opposto
al tuo, in confronto al quale il discorso di Bencivenga, per te troppo
‘ottimista’, potrebbe risultare al contrario ‘pessimista’.
Ritengo che l’essere umano non
sia riducibile al resto del mondo più per “una luminosa eccellenza” che
per “un’accecata particolarità”? Qui , direbbe il famoso filosofo del
linguaggio molisano Antonio Di
Pietro, ci azzecchi. Preferirei che
nel mondo ci fosse un Totò Riina in meno e una Felicetta (la mia gattina
tenerissima) in più. Tuttavia devo riconoscere - al di là della psicologia – che un mondo tutto di felicette e senza totòriini sarebbe, necessariamente, un mondo senza Gandhi, Martin
Luther King, Che Guevara, Falcone e Borsellino. Perché il prezzo che si deve
pagare per l’eccellenza morale di alcuni è la possibilità dell’abiezione morale di altri. Sarebbe insomma un mondo più
tranquillo, ma più piatto. Questo
è “creazionismo”? Non lo so e, francamente, poiché mi riferivo alla nozione
greca di “natura”, direi di no. Ma, se proprio lo fosse, pazienza: nella vita
mi è capitato di sostenere tesi peggiori.
Ciò di cui sono certo è che la
filosofia, se esercitata come vorremmo noi filosofi-in-pratica, potrebbe
aiutare il mondo in cui ci troviamo di fatto ad avere per il futuro meno Hitler
e più Bonhoeffer, meno Stalin e più Pasternack. O (vedi di quanto poco mi
accontento ?) meno Mastella e più Prodi.
Caro Augusto,
sulla funzione della pratica filosofica
che schizzi nel tuo ultimo paragrafo sono assolutamente d’accordo. Così come
comprendo la necessità di citare filosofi e correnti filosofiche allo scopo di
evitare lunghe argomentazioni. Credo, tuttavia che, come ho già scritto, ciò
comporti in realtà la complicazione, per lo meno potenziale, delle
argomentazioni e per questo, tanto nella pratica filosofica quanto in ciò che sto
dibattendo con te, cerco di rimanere il più possibile parco in merito. Del
resto anche qui facciamo pratica filosofica, così come la facciamo sempre
giacché, converrai spero con me, la filosofia è in se stessa una pratica
filosofica.
Insomma prediligo il linguaggio tetico. E pertanto riprendo quanto tu mi
proponi, in merito alla metafisica e alla citazione della De Agostini, per
chiarire la mia posizione. Non credo che la realtà sia inaccessibile, per lo
meno nel senso che mi pare intenda tu. Ma soprattutto vorrei chiarire cos’è per
me la realtà. Per me è ciò di cui cerchiamo di farci un’idea, allo scopo di
decidere che fare. Che sia indipendente, per lo meno in parte e rispetto a me,
mi pare ovvio. Che sia accessibile… dipende da cosa intendiamo per accessibile.
Vedi, io non sono un costruttivista radicale radicalissimo, e penso che noi
della realtà facciamo delle ipotesi (le ho chiamate mappe) e che queste ipotesi
siano molteplici e non necessariamente tra loro coerenti. Inoltre, ritengo che
se facciamo una certa mappa, escludiamo da quella mappa cose che un’altra
invece comprende. Credo che la differenza sostanziale tra me e te consista nel
fatto che per te esiste un unico territorio, idealmente descrivibile da una
sola mappa, la mappa perfetta. Io invece ritengo che questa mappa perfetta sia
a rigori impossibile. Mi spingerei addirittura ad affermare che sia l’impossibile (forse era ciò che
intendeva Lacan quando affermava che il Reale è l’impossibile?). Quindi non
credo che esista là fuori un solo e unico territorio… e dunque cosa c’è? Non lo
so e credo che non lo si possa sapere. Non in modo assoluto. Ci sono solo mappe
che funzionano più o meno bene in funzione di scopi mutevoli. Ed è qui che
secondo me entra in ballo l’etica come primum. Lo scopo orienta la mappa, come
peraltro il contrario, ma qui mi verrebbe da citare l’adagio dell’uovo e della
gallina, oppure, più dottamente, di rimandare alla nozione di accoppiamento
strutturale.
Credo che Bencivenga condivida in pieno il
mio punto di vista. Con un po’ troppo ottimismo, come ho già argomentato nelle
precedenti lettere. E di conseguenza convengo con te che siamo su posizioni
molto distanti, e a questo punto mi verrebbe da chiederti di spiegarmi, per
concludere questo carteggio, che cosa per te è affermabile, in forma tetica, su
quanto ho di passata e in modo certamente vago e manchevole, argomentato,
ovvero quanto tu chiami “l’unico mondo esistente”. Ma come fai a sapere che si
dia un “unico mondo esistente”? E te lo chiedo perché ho il sospetto che in
quanto aggiungi dopo, ovvero che tale mondo sia “analogicamente esistente in più dimensioni, a più livelli”, si nasconda una segreta convergenza con
le mie posizioni. Perché se è solo analogicamente
esistente in più dimensioni, a più livelli, allora mi verrebbe da chiederti che
ne sai di ciò di cui è l’analogo. E mi verrebbe pure da chiederti in che
termini un’analogia possa essere esistente, e che cosa sia “esistente”… ma non
voglio abusare della tua pazienza…
Caro Paolo,
non è
per evitare abusi…pazienzali da parte
tua che cercherò di essere breve, quanto per non perdere il riferimento
principale che ci è stato suggerito dalla direzione della rivista: il testo di
Bencivenga che è molto più affine alle tue concezioni che alle mie. Egli scrive,
a p. 36, che ciascuno dovrebbe essere in grado - per così dire fisiologicamente – di “dare un suo
senso al mondo e a quanto conosce:
un senso personale e soggettivo, fragile e mutevole”. Frasi come questa pongono
almeno due questioni.
La prima è
ontologica: esiste un mondo? La mia risposta è: sì, indubbiamente. Esiste uno e un solo “territorio” (in ciò dissentiamo), di cui non conosciamo né
lo spessore né i confini (in ciò concordiamo) , che è strutturalmente analogo. Nel linguaggio aristotelico-tomistico
medievale direi che il mondo (l’essere come l’intero di ciò che è) è
intrinsecamente analogo, di analogia se non di attribuzione, per lo meno di proporzionalità:
intendo dire che il mondo forse è
l’analogo secondario di un modello originario (l’Essere assoluto, necessario),
ma certamente si dispiega su strati,
su livelli, che hanno qualcosa in comune e molto di differente.
La seconda questione è
gnoseologica: c’è qualcuno che può farsi un’idea adeguata di questo mondo, che
può coglierne la struttura intelligibile, il senso? Tra i mortali, no di certo.
Ognuno di noi ha dunque una sua “mappa” che non coincide con la “mappa” di
nessun altro (e qui siamo d’accordo). Ma la moltiplicazione delle mappe implica
la moltiplicazione dei mondi? Ovviamente penso di no: e qui mi distanzio da
tutti quelli che pensano (o
sembrano di pensare) che moltiplicare le mappe significhi - quasi in un delirio onirico idealistico
– moltiplicare i mondi. E queste mappe, certamente diverse, sono anche equivalenti?
Sono tutte egualmente lontane dal “mondo”? Se il mondo “in sé” non avesse senso - e se, perciò, il senso fosse solo una
produzione antropologica – sarebbe certamente così. Ma, per ragioni impossibili da argomentare in questa sede,
propendo per ritenere che il mondo “in sé” abbia un senso proprio (esattamente
come pensava Eraclito quando accennava a un Logos che è da sempre, per sempre e
dappertutto): dunque le nostre rappresentazioni, le nostre mappe, per quanto
“personali e soggettive, fragili e mutevoli”, non sono tutte ugualmente
distanti dal dato ontologico originario.
Per scomodare ancora Eraclito, c’è la mappa del
dormiente, la mappa dello sveglio e la mappa di chi vaga in dormiveglia. Grosso modo è come mettere a confronto
dieci pittori che raffigurino la torre Eiffel: secondo me sarebbe possibile
(anche se travagliato: la fatica del dialogo) redigere una graduatoria della
perspicacia interpretativa di ciascuno dei dieci pittori, dal banale
riproduttore di forme esteriori al poeta che coglie ed esprime l’esprit di quella torre nel contesto
storico in cui è nata e geo-sociale attuale. Il senso che ciascuno di noi
afferra (non crea!) dell’universo – non sto parlando di quella minima
porziuncola di cosmo che è la storia dell’umanità, dove c’è poco da scoprire e
quasi tutto da creare - non è mai
il senso completo, esauriente; tuttavia c’è differenza, noterebbe Aristotele,
fra chi fallisce il bersaglio per un centimetro e chi lo fallisce per un metro.
Posso concedere a te e a Bencivenga che non potremo mai stabilire con certezza
assoluta chi di noi fallisce per un centimetro e chi di noi manca il bersaglio
di un metro; ma se proprio non ci fosse nessuna differenza, neppure agli occhi
di un ipotetico Arbitro assoluto, personalmente troverei molto meno intrigante
fare filosofia. Tanto varrebbe limitarsi alla immaginazione poetica…che
oltretutto è più piacevole esercitare rispetto al lavoro concettuale.
Nell’attesa di stabilire come stanno le
cose ontologicamente, bisogna pur vivere: qui riconosco il primato dell’etica
che ti sta tanto a cuore. Ma è un primato tautologicamente pratico: nel senso
che è meglio partire dal comune riconoscimento che un neonato va allattato e,
poi, cercare di argomentare le ragioni filosofiche di tale riconoscimento anzicché
partire dalla disputa “se i bambini abbiano diritto ad essere alimentati” e
passare all’azione solo dopo aver risposto con chiarezza argomentativa alla
questione (anche perché intanto di bambini ne morirebbero a milioni…). Possiamo
trasformare questo primato pratico dell’etica in primato teoretico nel senso
che – alla Kant o alla Levinas – possiamo fondare
la nostra “mappa” del cosmo sulle nostre istanze etiche? Qui, ancora una volta,
le nostre prospettive si differenziano. Preferirei dire che non so se l’uomo è
libero, se l’anima è immortale e se Dio esiste -e che sono alla ricerca di una risposta razionale e
ragionevole a questi interrogativi – piuttosto che accettare quella sorta di
pia autoillusione kantiana di poter recuperare, per “postulazione”, dalla
finestra dell’etica ciò che è uscito dalla porta della teoretica. Ma forse
quando tu scrivi che fondi l’ontologia sull’etica ti riferisci a un’operazione
più convincente di quella realizzata da Kant nella Critica della ragion pratica: perciò, alla prossima occasione (meno
cartacea, più verbale), sarò felice di ascoltare il tuo autentico pensiero in
proposito.
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