“Una città”
Marzo 2015 (n. 220)
UNA CHIESA CHE SI INTERROGA
Augusto Cavadi intervista don Cosimo Scordato
Don Cosimo Scordato insegna teologia alla Facoltà teologica
di Sicilia (Palermo) ed è tra i fondatori del Centro sociale autogestito, a-partito ed a-confessionale, “S.
Francesco Saverio” dell’Albergheria (quartiere di Palermo noto per il mercato
Ballarò). Autore di diversi libri tra cui, recentemente, quattro volumi di teologia dei
sacramenti (Il settenario
sacramentale, Il pozzo di Giacobbe), un volume di omelie (Libertà di parola, Cittadella) e un
volume di pastorale (Dalla mafia liberaci o Signore, Di Girolamo).
Quando, negli anni Ottanta, hai cominciato a parlare di
'Teologia del risanamento' a Palermo ti rifacevi esplicitamente alla 'Teologia
della liberazione' sudamericana. Adesso abbiamo un papa che viene
dall'Argentina: non è un esponente della 'Tdl', ma neppure un suo avversario.
Come descriveresti la sua posizione a riguardo?
L'attuale papa, anche se non è stato un
rappresentante e neppure un vero e proprio sostenitore della teologia della
liberazione, recentemente ci ha tenuto che fosse pubblicato un volume di G.
Gutierrez (fondatore della tdl)
insieme col card. Mueller, segretario della Congregazione della dottrina
della fede; credo che la posizione 'distaccata', assunta
dall'allora cardinale Bergoglio, fosse riconducibile anche a un
atteggiamento prudenziale, data la situazione di rischio di tanti teologi
vissuti sotto i regimi dittatoriali
dell'America Latina. Adesso papa Francesco si può sbilanciare
maggiormente non solo perché gli orientamenti 'liberanti' della teologia si
sono smarcati da alcune analisi, che allora sembravano un po’ troppo debitrici
al marxismo; ma ancor più perché le dinamiche del capitalismo internazionale
fanno emergere, in maniera ancora più insopportabile, le contraddizioni
emergenti da un processo di concentrazione delle risorse economiche e
finanziarie; in questo modo la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di
oligarchie di potere esponendo la maggior parte dell'umanità al bisogno, alla
dipendenza, alle difficoltà della stessa sopravvivenza. Il papa, facendo tesoro
delle acquisizioni del magistero sociale degli ultimi pontefici, può fare più
direttamente riferimento al mondo dei
poveri; anche se non rinunzia a chiamare in causa le molteplici cause di
carattere economico, finanziario, politico, che determinano la catastrofe di
una umanità martoriata da guerre, conflitti, emigrazioni di massa, speculazioni
di vario genere... la sua attenzione è concentrata sui poveri e i deprivati
della nostra umanità. Il suo interesse principale è di richiamare l'attenzione
verso di loro non solo da parte della comunità cristiana perché rinnovi quella
scelta preferenziale dei poveri, già ispirata da Giovanni XXIII e rilanciata
dal Concilio, ma anche della comunità internazionale perché riveda le politiche
che non riescono a governare le logiche del profitto, impotenti (se non
conniventi) di fronte a ciò che il capitale impone, provocando l'attuale
insopportabile situazione di 'disordine mondiale'; e della società in generale
perché maturi il senso di uno sviluppo non caratterizzato da disparità e
diseguaglianze, piuttosto volto alla emancipazione e alla promozione di tutti.
Se si leggono i documenti degli ultimi pontefici non si può
negare che i riferimenti alle fasce povere dell’umanità siano numerosi. Vedi
qualche nota di novità in questo papa?
La consapevolezza, che papa Francesco
ha lasciato trasparire nei suoi molteplici interventi (dalle brevi omelie di
Santa Marta ai discorsi ufficiali nei suoi viaggi apostolici internazionali), è
accompagnata anche da quel suo stile di
vita col quale ha tentato, fin dall'inizio del suo ministero petrino, di
rilanciare non solo l'immagine di una chiesa 'per i poveri', ma anche e
preliminarmente quella di una chiesa
povera. La sua scelta di vivere in un appartamentino, che gli consente
anche di essere vicino alle persone che si muovono nello stato del Vaticano; i
suoi molteplici gesti di semplicità, che lasciano intravedere la naturalezza
evangelica del suo modo di esprimersi e rapportarsi con chiunque; i suoi
diversi appelli rivolti alla curia romana (e ai cardinali) al superamento di
ogni forma di carrierismo e di mondanità, oltre che la determinazione (sulla
scia del tentativo precedente di Benedetto) di portare lo Ior alla massima
trasparenza gestionale anche in vista di un suo inserimento nella White List... sono tutte manifestazioni
di quella svolta che Francesco, prima di proporla all'esterno della Chiesa,
vuole praticare per primo lui stesso, cercando di coinvolgere coloro che,
essendo ufficialmente suoi collaboratori, dovrebbero trovarsi in prima fila
accanto a lui. Tutto questo non è facile da realizzare, data l'opacità che ha
caratterizzato diversi aspetti della vita di quello che sommariamente chiamiamo
'Vaticano'; il papa stesso ne è consapevole; ma gli scandali accumulati negli
ultimi decenni, oltre che gli squallidi giochi di potere e di corruzione, più
volte venuti alla luce da inchieste e da indagini giornalistiche, hanno reso
più urgente la decisione di papa Francesco di dare, per fedeltà al vangelo e
per rispetto della Chiesa, un cambio di direzione che, seppure è appena agli
inizi e lanciato con gesti concreti ma con prevalente valore simbolico, ha il
compito di indicare che la prima conversione deve essere condivisa e maturata
all'interno della Chiesa; prima di additare al mondo le beatitudini di Gesù, i
cristiani debbono essere i primi interpreti e testimoni della gioia del vangelo
(l'evangelii gaudium). Il progetto di
papa Francesco, su questo versante, è avviato; ma, come si può comprendere,
deve diventare sempre di più il progetto di tutta la Chiesa; come tale esso
richiede che le diverse componenti della comunità ecclesiale (dai vescovi alle
più piccole aggregazioni laicali) lo facciano proprio interpretandolo in
proporzione alle possibilità locali.
Tutto questo ci sembra importante e
preliminare a tutto il resto; i discepoli di Gesù non possono non ritrovarsi
accanto a chi soffre (dai poveri agli sfruttati agli immigrati) e spesso loro
stessi condividono le diverse situazioni di deprivazione. La collocazione del
credente è già segnata: è dalla parte degli ultimi, dei crocifissi della terra
con i quali condividere il cammino di risurrezione e di riscatto.
La dimensione esistenziale, a livello personale e
comunitario, è certamente necessaria. La ritieni anche sufficiente?
Ovviamente no. Non va trascurata la dimensione politica di detta problematica; infatti,
ormai è acquisito che il fenomeno della povertà e dei poveri, pur riconducibile
a tante cause storiche, culturali, sociali… se vuole essere superato deve
approdare al livello politico; se l'attenzione al povero nella sua concretezza
ha la precedenza su ogni altro discorso, la risoluzione della povertà passa
necessariamente (anche se non esclusivamente) dall'intervento della politica,
intesa come l'arte che riconosce i nessi di causa-effetto dei fenomeni sociali
e tenta di approntare le soluzioni permanenti, non intervenendo solo sugli
effetti, ma lavorando ancor più sulle cause che li provocano. Certamente, negli
interventi di papa Francesco si coglie in primo luogo il grande afflato, che lo
spinge verso i poveri, in quanto persone compromesse nei propri diritti ed
esposti alle solitudine dell'emarginazione e dell'abbandono (non sempre, però,
in maniera incolpevole). Ma forse altrettante forza e determinazione
andrebbero manifestate nei confronti della conversione
della politica e dei politici. Alla politica, infatti, è affidato il compito
più delicato e più prezioso di dare priorità al bene comune dandogli la forma
in istituzioni adeguate, che salvaguardino tutti nei loro diritti e doveri;
mentre spetta ai politici il compito di mediare il bene comune tra le diverse
istanze della collettività, attraverso leggi, delle quali essi dovrebbero
essere i primi osservanti, orientando (e ridimensionando) l'interesse proprio o
di gruppo verso la realizzazione del bene della comunità.
Non è un
caso che, negli anni dopo il Concilio, si è potuto parlare di carità politica, intendendo la politica
come lo spazio privilegiato nel quale concretizzare e mediare l'amore per la
comunità; e, viceversa, intendendo la carità non solo come atto singolare e
privato, ma come attitudine a farsi coinvolgere in tutto quello che ridonda a
beneficio e promozione dell'intera comunità. La ripresa di questi temi non
potrebbe che dare ulteriore consistenza al servizio dei poveri quanto più si
riesce a rimuovere la loro povertà e quanto più ognuno di loro diventa non solo
destinatario degli interventi altrui ma anche promotore del bene degli altri.
Sinora ti sei riferito alla povertà tipica di chi stenta ad
avere i mezzi sufficienti per mangiare, bere, istruirsi, curarsi,
riprodursi…Tuttavia sappiamo che nel mondo si registrano nuove forme di
povertà: la solitudine, l’esclusione, l’emarginazione. Penso a chi non ha
trovato un compagno di vita; a chi lo aveva trovato ed è stato abbandonato; a
chi lo ha trovato ma, poiché è dello stesso sesso, deve vivere clandestinamente
il proprio rapporto di coppia. Ritieni che la Chiesa – su impulso del papa
argentino – possa operare per alleviare, da parte sua, questo genere di miseria
psico-sociologica?
Vorrei sottolineare, nello stile di
Francesco, la sua attenzione a quello che, un po’ ottimisticamente, potremmo
chiamare ‘stile sinodale’.
In primo luogo, mi riferisco non tanto
al sinodo che ha convocato quanto a tutto ciò che lo sta preparando attraverso
un’ampia consultazione della base ecclesiale; infatti tutte le diocesi, ma
anche i vari gruppi ecclesiali sono stati interpellati per dare un loro contributo
e, come viene ribadito, non si tratta soltanto di dare risposte alle domande
già formulate ma anche di offrire considerazioni e prospettive anche al di
fuori delle domande proposte.
Inoltre, i primi Lineamenta, ovvero il primo materiale offerto per la consultazione,
pur costruiti a partire da una base contenutistica tradizionale, contengono
anche una serie di domande che hanno il sapore della novità. Il fatto stesso di
interrogarsi su problemi o situazioni (risposati, omosessuali…) rispetto ai
quali nel passato si sarebbe già data per scontata la risposta, rappresenta un
fatto molto significativo del senso ecclesiale; interpellare i fedeli significa
disporsi ad ascoltare anche risposte che non siano allineate sugli orientamenti
tradizionali; d’altra parte, il tanto invocato sensus fidei (senso della fede) o il consensus fidelium (consenso dei fedeli) non deve essere
interpretato nel significato passivo di chi non può se non ‘calare la testa’
alle decisioni del magistero papale o episcopale, quanto piuttosto nel suo
significato attivo, attraverso il quale il popolo cristiano interagisce col
ministero ordinato.
Infine, anche la decisione del papa di
restare un passo indietro rispetto alle decisioni che sono emerse dai dibattiti
del pre-sinodo, senza ritagliarsi un compito di controllo, supervisione o di
decisione autonoma, non solo esprime un grande rispetto nei confronti del
momento sinodale, riconosciuto in tutta la sua portata ecclesiale; ma anche
lascia intendere che detta esperienza ecclesiale va vissuta per davvero
accettandone anche tensioni, incertezze e soprattutto il travaglio di una
ricerca. Non ci sarebbe niente di confezionato, piuttosto emerge la voglia di
lasciarsi interrogare per davvero dal disagio della gente e dal desiderio di
interpretare sempre più intensamente la misericordia di Dio, che vuole la vita
e la gioia dei suoi figli.
Comunque, riteniamo importante la
presente consultazione perché ancora una volta essa chiama in causa la
soggettualità dei laici in quanto essi sono i primi interpreti della loro
condizione nel mondo; sarebbe strano che un questionario sulla famiglia, che
certamente va pensato alla luce dell’evangelo, non dovesse accogliere la voce
di coloro che vivono in prima persona le gioie e i problemi, le speranza e le
attese di quella vita familiare della quale, pur con tante difficoltà, i laici
sono i titolari. Come ci meraviglieremmo se i laici volessero sentenziare sulla
vita monastica, così ci sorprenderemmo se non fosse preso in
considerazione quanto verrà
espresso da coloro che vivono dall’interno la vita familiare.
Venendo alla reale apertura del papa
sui problemi della vita famigliare e dintorni, la prima impressione che ho
avuto, leggendo uno dei primi volumi delle sue interviste antecedenti al
pontificato, è stata quella di riscontrare un lui una concezione
fondamentalmente ispirata al Concilio ma con una forte base tradizionale; il
che mi ha indotto a pensare che, a partire da suddette premesse, non ci fosse
grande possibilità di andare avanti nella esplorazione di nuove comprensione e
nuove soluzioni,
A poco a poco ho compreso, invece, che
egli, più che preso da considerazioni di carattere teorico (che comunque
restano sullo sfondo), è maggiormente richiamato dalla condizione di sofferenza
che caratterizza la vita di tante persone; di primo acchito egli sente, entra
in sintonia, con questa sofferenza e intende farsene carico, come il buon
samaritano del vangelo, e solo successivamente si pone il problema di come
ricercare soluzioni più ‘umane’ e come conciliarle con la tradizione.
Il fatto
stesso che ha voluto da parte dei sinodali la ricerca più coraggiosa e il
confronto più frontale tra i diversi orientamenti lascia intendere che,
nonostante le sue premesse tradizionali, egli stesso è interessato ad
ascoltare, a farsi attento a nuove possibilità e ad esplorarle in forza della
misericordia e della tenerezza, rivelata e donata da Dio alla sua Chiesa.
Questo che dici
riguarda un po’ il metodo. Per entrare nel merito, a che punto siamo secondo te
con la riflessione sulla crisi del modello tradizionale di famiglia?
Nello specifico di questa domanda, mi
piace ricordare un documento approvato dalla nostra comunità sul tema “Famiglia
e familiarità”. Vorremmo condividere alcune considerazioni per un
approfondimento dell’attuale tematica familiare; essa, per la novità di tanti
aspetti, è più grande di noi e richiede pacata riflessione e disponibilità a
capire, prima ancora di offrire tempestivamente idee chiare e distinte (incluse
le presenti!). Le riassumo per punti principali.
Tenere alla famiglia - E’
opportuno che la comunità cristiana ribadisca il valore positivo della vita
familiare, così come è maturata in quasi tutte le culture ed è stata recepita
anche dalla tradizione ebraico-cristiana; essa prevede il vincolo coniugale tra
partners eterosessuali e la nascita dei figli all’interno del loro rapporto.
Per i credenti tutto questo viene considerato un dono di Dio e quindi
possibilità di incontrarlo e celebrarlo nel rapporto di amore tra i diversi
membri della famiglia; la realizzazione della famiglia richiede una scelta
consapevole e responsabile; il riferimento all’inclinazione naturale non è sufficiente, ci vuole
una maturazione personale; non si
può affermare che tutti di fatto
sono chiamati al matrimonio e alla vita familiare; resta aperta la domanda
sull’autorealizzazione di coloro che non avessero la suddetta vocazione.
Il tema del matrimonio, a
fondamento della famiglia, va ripensato intorno all’esperienza dell’amore di
coppia; il matrimonio ha senso se riesce a dare forma all’amore di due persone,
pronte a donarsi reciprocamente, a elaborare un progetto comune della propria
vita e a condividere la gioia della propria esperienza con altri (bambini/e).
Ciò che conta è che detto amore sia coniugale, cioè capace di congiungere per
davvero le due esistenze, orientandole in un cammino che le proietta verso tutta la vita. Solo l’amore
coniugale, e quindi una relazione che impegna in maniera unica l’interezza
delle proprie persone (corpo, mente, spirito), è la garanzia perché si dia
un’autentica realizzazione del matrimonio nella duplice celebrazione liturgica
ed esistenziale.
Famiglia: quale modello? - Storicamente la famiglia ha avuto diversi modelli di
realizzazione; in essi hanno preso corpo diverse precomprensioni antropologiche,
diversi orientamenti culturali e giuridici, diverse connotazioni psicologiche e sociali… si pone il problema
sul modello di famiglia che sta maturando nel nostro tempo e nell’ambito della
cultura occidentale (termine ancora troppo generico); si pone altresì il
problema del rapporto con gli altri modelli di famiglia, che si affacciano
ormai da tempo sulla scena occidentale; si ritiene opportuno che l’accettazione
e l’integrazione tra di diversi modelli di famiglia abbia come criterio di riferimento
il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana.
Famiglia… d’ amore e d’accordo! - La famiglia solo
in quanto è fondata sull’amore della
coppia e quindi si sviluppa nella condivisione di amore con i figli e resta
aperta ai bisogni della società va considerata come spazio autentico di
realizzazione delle persone che in essa crescono.
Laddove l’amore non fosse il principio
ispiratore ed alimentatore della vita familiare e in essa dovessero prevalere
rapporti di prevaricazione, di mancanza di rispetto e di libertà, essa non può
essere sostenuta di per sé, piuttosto va aiutata a recuperare le condizioni
minime di convivenza tra i suoi membri e, se ciò non avvenisse, va accettata la
separazione.
D’altra parte la costruzione della vita familiare richiede
impegno da parte di tutti i suoi membri e della comunità. Riteniamo possibile
tuttavia sviluppare forme nuove di
condivisione e mutuo aiuto tra le famiglie in una visione di piccole comunità
interfamiliari. Si parla ancora di chiesa domestica con una visione di famiglia
‘sola’ e chiusa nel proprio guscio. È nel cammino con altre famiglie che spesso
si scoprono forme nuove di espressione della fede all’interno della domus. Dalla messa in comune delle esperienze di tutti e dal
dialogo costante con ciascuno, in momenti comuni e nel rispetto di tutte le posizioni, può emergere il profilo
di una famiglia in grado di affrontare le sfide della modernità in chiave
positiva.
Allora la sfida per la Chiesa è di
sostenere la coppia a crescere nell’amore reciproco, nella pari dignità tra
uomo e donna e nella sua autonomia in tutti i suoi aspetti: in una fecondità
che va ben oltre quella genitoriale, nella ricerca di una paternità
responsabile, in una affettività e sessualità unitiva, nell’accoglienza dei figli,
in uno sguardo aperto al prossimo e alle sue necessità, in una sobrietà di
stile di vita, ecc. La coppia così
formata sarà quindi capace di vivere nella realtà avendo sempre presente gli
ideali a cui si ispira in un esercizio responsabile della cittadinanza e di
presenza adulta all’interno della Chiesa.
Nella mentalità cattolica la valorizzazione della famiglia è
stata enfatizzata al punto da diventare, o per lo meno da apparire, una legittimazione
del familismo (più o meno “amorale”). Pensi – pensate tu e la tua comunità –
che extra familiam nulla salus ?
Affermare la positività della famiglia non
significa che sia negativo tutto quello che non è famiglia; se la vita di
coppia eterosessuale che realizza la famiglia è modalità antropologica fondamentale
sia per la vita delle persone che per la convivenza civile, essa non è l’unica forma di realizzazione
dell’amore. Finora si è dato per scontato che esistono altre forme di
familiarità e di realizzazione della persona; basti pensare alle famiglie
religiose della tradizione e alle nuove forme di aggregazioni (religiose) tra
persone che, in rapporto di amore reciproco, condividono valori e scelte di
vita; accanto alla condizione ottimale della vita idilliaca familiare (che resta
desiderabile), va riconosciuta una vasta gamma di altre opportunità.
Sono possibili forme di vita nell’amore
anche se non sono segnate dalla definitività e dalla totalità e dalla
eterosessualità; la decisione di stare insieme con la possibilità dell’unione
di vita nella misura in cui non arreca danno a terzi e promuove il bene degli
interessati può essere accolta come esperienza salvifica, seppure proporzionatamente alle
modalità della sua realizzazione; a partire dalla precedente considerazione non
va considerato valido il principio “o tutto o niente”, ma va riconosciuta la
positività anche della ‘parzialità’ delle diverse esperienze di amore.
Riteniamo opportuno, inoltre, che lo
Stato e la Chiesa, nel rispetto delle reciproche competenze, prendano posizione sui problemi precedenti.
L’apertura alla procreazione è considerato, nell’ottica
cattolica, se non più l’unica ragion d’essere del matrimonio certamente una
delle finalità costitutive. Ex cathedra
papa Francesco non si è mai pronunziato, ma ex
microphono ha fatto scalpore con qualche battuta semiseria (“I cattolici
non sono obbligati a fare figli come i conigli”). Una vostra riflessione in
proposito?
Riguardo
alla missione genitoriale dei coniugi ci richiamiamo all'affermazione della Gaudium
et Spes, n. 50: "I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore
di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita
umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro
propria" e quindi trarne l'invito ad "annunziare e promuovere
efficacemente la apertura alla vita e la bellezza e la dignità umana del
diventare madre o padre". Quel che invece ci lascia perplessi è il
richiamo ai "metodi naturali" come unici strumenti per la paternità e
la maternità responsabili. Su come combattere la piaga dell'aborto, ci sembra
che il vero discrimine non sia fra i vari metodi contraccettivi, la cui scelta
dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei coniugi, ma fra la
contraccezione e le pratiche abortive, che invece sopprimono una vita umana in
formazione. Continuare a sostenere l’unicità dei metodi cosiddetti naturali
rischia di allontanare dalla vita sacramentale quei pochi cristiani che ancora
ritengono un obbligo morale questa prescrizione della Chiesa o, peggio, di
favorire la mentalità per cui certi precetti si devono proclamare, ma non vanno
presi sul serio.
Suppongo ti riferisci al riconoscimento giuridico - e prima ancora sociologico e morale –
delle “coppie di fatto”, specie se fra partner
del medesimo sesso.
Circa l’accoglienza degli omosessuali ci sono parse di
apertura le proposizioni nn. 50, 51, 52 della Relatio post disceptationem della prima sessione del Sinodo,
delle quali però non si trova più traccia nei Lineamenta. In
particolare: n. 50. “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire
alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone,
garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse
desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre
comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento
sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e
matrimonio?"
A noi sembra che le comunità stiano
sempre più maturando quanto la cultura contemporanea comincia a considerare
acquisito; la condizione omosessuale non è più ritenuta una malattia, ma una
modalità della realizzazione dell’umano. Tutto questo non può non portare al
ripensamento radicale dei problemi tradizionali della ‘legge naturale’ e del ‘peccato
contro natura’, dando precedenza assoluta all’affermazione che ognuno vale in
quanto persona e in quanto capace di amare; tanto più se consideriamo la
condizione di figli di Dio donataci in Gesù Cristo e nel suo Spirito.
Pensiamo che la Chiesa dovrebbe
astenersi da ogni giudizio morale sulla condizione omosessuale e mettere in
atto azioni di accoglienza e di integrazione per creare al proprio interno un
consenso tale da rendere possibile l’accettazione, anche formale, delle coppie gay e lesbiche con un effettivo
accompagnamento pastorale degli omosessuali senza intendimenti “missionari” di
redenzione dal peccato. Purtroppo, dobbiamo registrare una chiusura totale di
molte chiese particolari nei confronti sia delle situazioni considerate
“oggettivamente disordinate” dal punto di vista della sessualità, sia dei
tentativi di legiferare in tale direzione. La nostra chiesa locale si è
dimostrata negli anni favorevole
ad una legge sulle unioni civili e già accoglie e sostiene con amore fratelli e
sorelle omosessuali condividendo con essi sia l’Eucarestia domenicale sia
visioni e programmi di partecipazione per le campagne di solidarietà sociali,
ecc.
Negli
ultimi anni, grazie anche alla tenacia dei gruppi di omosessuali credenti,
alcune diocesi hanno avviato timidi tentativi di pastorale verso persone
appartenenti alle minoranze sessuali. Partendo dal presupposto che gli
omosessuali sono persone come le altre e, quindi, crediamo che la Chiesa,
affinché possa offrire cammini di vita cristiana adeguati al loro vissuto, non
debba individuare dei percorsi pastorali specifici. Piuttosto dovrebbe rendere
più flessibile il proprio atteggiamento, abbandonando la concezione
antropologica del passato e riconoscendo l’amore omosessuale. apporto di
affetto continuato e fedele, puntando a garantire anche il futuro della coppia
stessa; le storie di vita di tante coppie omosessuali testimoniano, non meno
delle coppie eterosessuali, capacità di donazione, fedeltà di impegni, voglia
di realizzazione nella comunione. Da madre la Chiesa deve solo desiderare che i
propri figli possano realizzarsi a partire da quello che sono, riconoscendo che
l’amore omosessuale non solo è possibile, ma è già una realtà sperimentata da
tante persone e verso la quale va incanalata la tendenza omoaffettiva.
La storia di molte coppie - omosessuali ma anche eterosessuali – è segnata dal
desiderio di una unione definitiva e dall’impossibilità pratica di realizzare
tale desiderio iniziale (per responsabilità di uno dei coniugi o dei due o
talora di nessuno dei due). Nei casi più fortunati, il sogno originario si
realizza in un secondo o in un terzo tentativo di unione matrimoniale (o anche
di convivenza). Che riflessioni avete maturato in proposito, anche alla luce di
ciò che sembra muoversi anche nel più ampio orizzonte ecclesiale?
Per quanto
riguarda la condizione dei divorziati risposati forse è venuto il momento per
radicalizzare la riflessione sulla validità del sacramento comprendendola
sempre più come meta da raggiungere e, in ogni caso, verificabile solo alla
fine, quando cioè la coppia ha compiuto tutto il suo percorso. Questo potrebbe
aiutare a superare l’idea che il matrimonio o è valido o è nullo; ovvero o è
totalmente valido o è totalmente inesistente. Questa posizione è conseguenza di
una impostazione prevalentemente giuridica del sacramento, che approda
all’idea: o tutto o niente. Ma siccome il contenuto del matrimonio è la
relazione di amore, essa non è facilmente riconducibile al contratto come se si
trattasse di impossessarsi di qualcosa; piuttosto ha a che fare con lo sviluppo
e la maturazione delle due persone e della loro vita di coppia, che li impegna
continuamente a verificare l’autenticità della loro scelta.
Non
possiamo ignorare che in vari casi, il matrimonio sacramentale, frutto di una
decisione consapevole e vissuto originariamente come impegno definitivo, può
subire una crisi lacerante, la quale porta i coniugi alla separazione. Per
alcuni di loro la nuova condizione può risultare umanamente molto gravosa e
determinare la decisione di stabilire un nuovo legame affettivo, volendo
comunque vivere in modo pieno l’appartenenza alla Chiesa. La quale dovrebbe
prendere atto della caducità umana riconoscendo che il matrimonio, in quanto
relazione fra persone, può, purtroppo, concludersi. Nella nostra esperienza
avvertiamo che i battezzati divorziati e risposati sono desiderosi di
attenzione per la propria storia di sofferenza e di rispetto per il fallimento
della loro storia coniugale e chiedono di poter partecipare pienamente alla
vita della Chiesa, e quindi di accedere ai sacramenti che la Chiesa stessa
indica come nutrimento indispensabile di una fede e di una vita cristiana. È certamente molto importante che
essi vengano accolti senza alcuna
discriminazione all’interno della comunità cristiana in cui vivono, prendendosene
cura.
L’accoglienza, l’inclusione e l’unico
amore di Dio per tutti i figli deve essere il metro per lenire sofferenze,
rimarginare ferite e riscoprire la gioia del Vangelo. “L’arte dell’accompagnamento” è una necessità
evidenziata nel dibattito sinodale con particolare riferimento alle famiglie
ferite. Riteniamo che l’accompagnamento rispettoso e pieno di compassione
dovrebbe essere una prerogativa imprescindibile non solo della Chiesa ma di
ogni essere umano credente e non credente. E’ doloroso e sconfortante lo
sguardo giudicante e punitivo di quella parte della Chiesa che si ritiene
detentrice di un potere assoluto e discrezionale sull’accesso al Sacramento
dell’Eucaristia per i divorziati risposati come se fosse proprietà
‘disponibile’ alla Chiesa e non dono di Dio.
Se dovesse ritenersi necessario, un eventuale percorso di riammissione
ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia, che ricordiamo è offerta non per
i giusti, ma per chi sa di dover essere salvato, e quindi particolarmente riservata
a chi è nel bisogno, potrebbe farsi riferimento alla prassi
attualmente in vigore nelle Chiese ortodosse che prevede la possibilità di
seconde nozze dopo il divorzio. Un percorso di revisione che potrebbe agevolare la comprensione dei
motivi del fallimento del precedente matrimonio e la individuazione di
atteggiamenti e scelte di vita atti ad evitare il ripetersi di situazioni
foriere di sofferenze.
2 commenti:
Mi ha favorevolmente colpito quell'inciso riguardo la miseria personale:
«non sempre, però, in maniera non incolpevole»,
l'ho avvertita digressione preziosa che merita approfondimento e sviluppo: invece di considerare il povero vittima di sempiterni funzionamenti magici, destino che fagocita miserabili incapaci di intendere e volere, viene implicitamente proposta una personale imputabilità produttrice - ben inteso CON tutto il resto, a iniziare dalla politica - di personale redenzione.
Grazie all’intervistatore e all’intervistato per la bella intervista, cui aggiungo qualche mia riflessione (il testo completo su www.italialaica.it dal 25.04.2015).
Un abbraccio a entrambi,
Elio
BILANCIO DI UN BIENNIO DI PONTIFICATO
All’intervistatore gesuita che gli chiedeva chi fosse Jorge Mario Bergoglio, il papa gesuita rispose definendosi un peccatore, e poi aggiunse: «Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo» (Civiltà Cattolica 19/9/2013). I primi due anni di pontificato mi pare che abbiano ampiamente confermato tale auto definizione, che riecheggia l’esortazione evangelica “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo 10, 16) ed è in linea con la fama di maestri di diplomazia che da sempre accompagna i membri dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola.
In pochissimo tempo, infatti, Bergoglio è riuscito a conquistare, e non solo tra i fedeli, un entusiastico consenso già con la scelta di un nome evocativo come quello di Francesco e poi con uno stile di vita sobrio, perciò assolutamente inconsueto ai piani alti della gerarchia ecclesiastica, e con parole e gesti che esprimevano la sua calda umanità e una sincera partecipazione alle sofferenze degli ultimi.
La popolarità del papa è cresciuta nel corso dei mesi a seguito di scelte sicuramente apprezzabili, come la decisione di recarsi a Lampedusa per il suo primo viaggio da pontefice, la dichiarata volontà di fare pulizia in casa propria, con particolare riferimento alla piaga del carrierismo e agli scandali della pedofilia e dello IOR, la convocazione di un sinodo sulla famiglia, preceduto da un’ampia consultazione tra i fedeli e che forse si concluderà con qualche apertura circa la comunione ai divorziati.
Ma i fatti a mio avviso più rilevanti, e che non a caso hanno avuto minore eco sui grandi mezzi d’informazione, sono stati la pubblicazione (24/11/2013) dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium e il breve Discorso indirizzato (28/10/2014) ai rappresentanti dei Movimenti Popolari nel corso dell’incontro promosso dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e dalla Pontificia Accademia delle scienze sociali.
(...)
Sarebbe cioè necessario mettere in discussione – con l’idea, che non ha alcun fondamento nel vangelo, di un potere autoreferenziale che ha il suo vertice in una struttura monarchica sacralizzata che si pretende depositaria della verità – un intero impianto dottrinale: infatti, se non muta la comprensione che il cattolicesimo ha di se stesso, dei propri dogmi e della stessa organizzazione ecclesiastica, tutti i cambiamenti saranno scritti sulla sabbia. Ma da Bergoglio non ci si può aspettare nulla del genere, perché egli condivide la visione tradizionale della fede, la vive intensamente e agisce di conseguenza. In effetti, è ridicolo chiedere a un papa di fare la rivoluzione: e del resto, se mettesse in discussione la dottrina, Francesco sarebbe subito accusato di eresia, provocando scissioni insanabili all’interno della struttura ecclesiastica.
Il programma riformatore di Francesco, quindi, credo che, pur senza farsi illusioni, vada apprezzato, perché a un papa non si può chiedere di più. Anzi, può tentare una simile impresa solo un papa gesuita, un uomo, per tornare alle sue parole citate in precedenza, che sa muoversi; che sa quando parlare, a chi parlare e che cosa dire; che sa ciò che può e vuole cambiare e ciò che non può e non vuole cambiare e, soprattutto, con quali tempi innovare per non fare saltare in aria l’intera baracca.
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