“Repubblica
– Palermo”
3.4.2015
QUEI PIONIERI DIMENTICATI DELLA CHIESA
ANTIMAFIA
La
lettura integrale della Relazione annuale che Procuratore e Direzionale
nazionale antimafia hanno presentato recentemente al Parlamento regala molte, e
molto istruttive, indicazioni sulle criminalità organizzate del Meridione
italiano. La prima delle quali, in ordine di esposizione, è la Ndrangheta di cui si ribadisce la
preminenza sulle altre, Cosa nostra
compresa. Proprio questa sezione della Relazione si chiude con un riferimento
che ha sorpreso non pochi osservatori, aprendo un dibattito dai toni talora un
po’ troppo accesi. Dopo aver accennato ai noti condizionamenti mafiosi
registrati anche in occasione di processioni religiose, il testo rileva: “Non
sfugge il messaggio subliminale sotteso a queste espressioni e a queste
manifestazioni, dove il mafioso si rappresenta agli occhi del suo popolo come nutrito della sua stessa cultura e delle
stesse tradizioni, quasi significando che tutte queste bene convivono con le azioni e i metodi da lui
applicati”.
Sin
qui tutti d’accordo. Le righe ritenute più provocatorie sono le successive: “A
fronte di tanti segni di falsa religiosità, chi doveva coglierli e contrastarli
davanti allo stesso popolo non lo ha fatto; preti e Vescovi in Calabria,
Sicilia e Campania sono stati, salvo rare e nobilissime eccezioni, silenti e
hanno perfino ignorato messaggi forti che pur provenivano dall’alto: basti
pensare a quelli di Giovanni Paolo II ad Agrigento e di Benedetto XVI a Palermo”.
Si
tratta di una diagnosi ingiusta? Tutto sta nel peso che si dà all’inciso “salvo
rare e nobilissime eccezioni”. Che la stragrande maggioranza del clero – e più
in generale del mondo cattolico – non si sia mobilitato per prendere le
distanze dalle cosche mafiose è un dato oggettivo (che può essere solo
integrato dall’osservazione che, in questa distrazione, i cattolici non sono
stati né peggiori né migliori della media dei concittadini). Da determinare è, invece, la
consistenza – numerica e qualitativa – di quei preti e di quei vescovi (ai
quali andrebbero aggiunti frati, suore e ‘semplici’
battezzati) che non hanno “ignorato” gli appelli di Giovanni Paolo II e
di Bendetto XVI.
Dal
prosieguo del testo, infatti, risultano due aspetti in qualche misura
contrastanti: si tengono debitamente presenti delle “nobilissime eccezioni”, ma
solo sulla base della loro rilevanza mediatica, trascurando quanti sono
impegnati nel territorio, quotidianamente, lontano dai riflettori. Leggiamo
infatti: “ Tra i segni concreti di cambiamento, va ricordato il Decreto del
Vescovo di Acireale del 20 giugno 2013, che ha vietato nella sua Diocesi il
funerale in chiesa al mafioso condannato che non abbia manifestato, nel foro esterno, alcun segno di
ravvedimento; provvedimento questo certamente innovativo e che quasi anticipa
il senso religioso della scomunica lanciata ai mafiosi da Papa Francesco in
Calabria. In questa occasione il Papa ha pronunciato parole di grande impegno,
quasi un programma antimafia e dopo quella visita l’atteggiamento della chiesa
locale è cambiato: sono così finalmente risuonate esplicite parole di condanna
contro quella blasfema manifestazione di finta religiosità avvenuta a Oppido
Mamertino e sono stati maggiormente sostenuti giovani preti che operano
sull’esempio di due eroi dell’antimafia che sono don Peppino Diana e don Pino
Puglisi, uccisi a causa dei valori che divulgavano”. Che un nostro conterraneo,
monsignor Raspanti, da alcuni anni vescovo di Acireale, venga citato come
modello non può che far piacere; lascia perplessi, però, il silenzio su quegli
altri vescovi e preti che, con decenni di anticipo sui martiri e sugli stessi
papi, in Sicilia (ma non solo), hanno assunto posizioni di esplicito,
coraggioso e rischioso contrasto alle infiltrazioni mafiose nel mondo
ecclesiale.
Al
di là delle polemiche contingenti, comunque, più della cronaca trascorsa merita
concentrazione e impegno la strada, non certo agevole, che sta davanti. La Relazione della Dia
la indica a chiare, condivisibili, lettere: “La mafia, nei suoi vari
atteggiamenti, si può sconfiggere realmente solo con la cultura e con la
divulgazione di valori etici e civili, pertanto il mutato atteggiamento della gerarchia
ecclesiastica non può sfuggire: esso può essere determinante per una crescita
di cultura e legalità fra quelle popolazioni”.
Aggiungerei
solo due precisazioni. La prima:
il pluralismo religioso, per fortuna sempre più variegato nel Meridione
italiano, comporta la corresponsabilità pedagogica non solo della chiesa
cattolica, ma delle altre chiese cristiane e delle comunità di altre religioni.
La seconda: la secolarizzazione galoppante riduce, di anno in anno, l’influenza
educativa delle chiese. In proporzione, dunque, altre agenzie educative (la
scuola innanzitutto) devono incrementare le strategie pedagogiche in proposito,
anche per evitare che in una
futura Relazione si legga – non senza fondamento - che, “tranne nobilissime
eccezioni”, esse sono state sonnacchiose.
Augusto
Cavadi
* Nell'articolo ho evitato di fare nomi perché la lista, per quanto lunga, avrebbe trascurato sicuramente molti. Qui, sul blog, posso permettermi qualche evocazione puramente orientativa: tra i vescovi don Riboldi, padre Nogaro, mons. Bregantini, monsignor Naro; fra i preti don Francesco Michele Stabile, don Cosimo Scordato, don Salvatore Resca, don Antonio Garau.
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