“Adista – Notizie”
4 aprile 2014
Come sanno i lettori di questo blog, "Adista" è un'agenzia di stampa di Roma che ospita su ogni numero un commento a un vangelo domenicale redatto da qualcuno che sia "Fuori tempio". Questa volta mi è stata chiesta una riflessione su una pagina del vangelo secondo Giovanni.
PASTORE, MA NON DI PECORE
Commento a Giovanni 10, 11-18
Per
quanto di raffinata istruzione, il redattore del quarto vangelo canonico - un teologo esperto di Scrittura
quanto di filosofia greca e tradizioni sapienziali gnostiche – sapeva di
rivolgersi ad una società in cui il 90 % delle persone erano impegnate in
attività agricole e pastorizie. Egli può dunque presupporre nei lettori - o, per meglio dire, ascoltatori – una
serie di esperienze e nozioni che mancano totalmente a noi abitanti delle
metropoli del XXI secolo. E questa lacuna la paghiamo cara in termini di
equivoci e di banalizzazioni.
Il fraintendimento cruciale può riguardare
la figura del pastore e il suo rapporto con il gregge. Nell’ottica comune
l’allevamento è funzionale allo
sfruttamento e alla macellazione dell’animale. Ciò è verissimo, ma non è tutta
la verità. Infatti, nel vissuto di un pastore (che non sia diventato
l’imprenditore odierno di immensi lager anonimi) la logica dello sfruttamento
convive, sin quasi a confondersi, con un atteggiamento di familiarità, di
affezione, quasi di confidenza con ciascuna delle sue pecore. Come si possa
macellare una mucca o un agnellino, dopo averne avuto cura per mesi o per anni
sino a chiamarli per nome, resta enigmatico e di ardua spiegazione (specie se
non si tengono in debito conto inveterati pregiudizi antropocentrici): ma resta
il fatto che per il pastore-proprietario il gregge è un’estensione del nuceo
familiare. Ed è su questo versante, su questa valenza, che gioca la metafora
evangelica.
Può un pastore riconoscere ed
essere riconosciuto da una sua pecora?
Può essere disposto a rischiare la propria incolumità per difenderla da
aggressioni estranee? Chi di noi ha condiviso anni di intimità con un cane, un
gatto o un cavallo può intuire le ragioni di una risposta affermativa. Chi non
ha fatto mai simili esperienze affettive può essere agevolato nella
comprensione dal confronto fra il pastore-proprietario e il pastore-mercenario.
Quest’ultimo, infatti, è presumibilmente un salariato occasionale: in quanto tale,
non ha avuto il tempo di maturare un rapporto di reciproca complicità
psicologica con ciascun membro del gregge; qualora, poi, dovesse sostenere un
attacco di lupi, la prospettiva di perdere uno o due animali non sarebbe per
lui tanto disastrosa da giustificare reazioni eroiche di difesa.
Gesù viene qui
comparato, dunque, a un pastore-proprietario esclusivamente da alcune
angolazioni, non da tutte: l’analogia, come sempre, coglie delle somiglianze
senza escludere delle dissomiglianze ancora maggiori. Egli infatti non può
disporre della vita e della morte dei discepoli, ma della propria: a differenza
dei pastori in senso letterale, raggiunge il compimento della propria missione
quando sacrifica non la vita altrui per la propria sopravvivenza, bensì la sua
vita per la sopravvivenza e il benessere degli altri.
Se questi aspetti
della metafora fossero stati ben presenti alla mente delle guide delle comunità
cristiane, nessuno avrebbe osato attribuirsi - del tutto abusivamente, per altro, rispetto al testo
evangelico che parla esclusivamente di Gesù – il titolo di “pastore”. Tale si è infatti solo quando, e nella
misura in cui, si dona la vita per i fratelli più deboli. Ogni altra
attribuzione suona forzata, se non addirittura falsa.
Questa pagina biblica vuole
evidenziare la dignità irriducibile e originale di ciascun discepolo, non certo
confinarlo in una condizione di inferiorità mentale né di subordinazione
gregaria. Nessuno deve obbedire a nessuno come una pecora al proprio padrone;
nessuno può mungere né tosare nessuno per accumulare latte o lana per sé. E la
stessa iscrizione che campeggia nella basilica di San Pietro – “Ut unum sint” –
suonerebbe blasfema se si riferisse al progetto di ricondurre i credenti del
pianeta sotto la giurisdizione papale: si riferisce, infatti, al desiderio di
Gesù di essere riconosciuto come la porta del Regno di Dio a cui sono chiamati
uomini e donne di ogni angolo della terra.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.it
1 commento:
Autentica e intrigante, la tua riflessione. In piena sintonia con analoghe riflessioni di d.Cosimo Scordato, su tale brano evangelico.
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