“Madrugada”
Marzo 2015
NAZIONE
In politica è
difficile, se non addirittura impossibile, trovare una categoria ideale immune
da strumentalizzazioni che ne deformano il significato originario. “Nazione”
non fa eccezione. Essa nasce, tra la seconda metà del Settecento e la prima metà
dell’Ottocento, come idea-simbolo nel senso etimologico del termine ‘simbolo’
(ciò che cuce, mette insieme, aggrega). E aggrega un popolo (il popolo degli
Stati Uniti d’America prima, il popolo francese poi e via via altri popoli
europei ed extra-europei) affinché la consapevolezza della propria identità
(etnica, linguistica, culturale, etica) lo sostenga nella lotta di liberazione
da popoli stranieri, invasori o comunque sfruttatori, o da governi opprimenti.
Purtroppo ben
presto la nazione, da bandiera degli oppressi, diventa una clava che gli
ex-oppressi brandiscono per opprimere altri popoli: e contro le armate
napoleoniche il filosofo prussiano Fichte proclama i suoi celebri Discorsi alla nazione tedesca.
Quest’opera può costituire un interessante oggetto di osservazione in
laboratorio. In essa infatti la difesa della nazione patria è realizzata in
maniera ineccepibile, ma con argomenti e toni che preparano il passo
successivo: il passaggio, disastroso, dal principio
di nazionalità al nazionalismo.
Proviamo a capire come.
Fichte (siamo all’inizio del XIX secolo) sostiene che un popolo è tale se unito
da una medesima lingua, intendendo con questo termine un fattore spirituale e
non certo una convenzione tecnica fra individui. Aggiunge che la lingua tedesca
è una lingua “viva”, a differenza delle lingue neo-latine che sarebbero
“morte”: dunque una lingua che sola può creare “qualcosa di nuovo” sul
palcoscenico della storia. Tale privilegio è per i tedeschi anche una
responsabilità: come il “dotto” è superiore alla media dei contemporanei e,
proprio per questo, deve mettersi alla loro guida ma in atteggiamento di
servizio, di “missione”, così la “nazione tedesca” deve svolgere una funzione
di guida e di illuminazione nei confronti del resto dell’umanità.
Non siamo dunque al nazionalismo come imperialismo
aggressivo (anche perché Fichte sostiene che la Prussia debba chiudersi in sé
stessa, senza “accogliere in sé e mescolare con sé un popolo di altra lingua”):
ma la storia registrerà, in pochi decenni, il passaggio da una superiorità
etica e diaconale a una superiorità politica, militare e addirittura razziale.
Il nazismo (ricordiamo che il nome sintetizza la formula più ampia
“nazional-socialismo”) costituirà l’esito tragico di questa evoluzione – o
piuttosto involuzione. Né la traiettoria è molto diversa se si osservano le
ambizioni imperialistiche della Gran Bretagna, della Francia e persino
dell’Italia fascista.
Le generazioni nate dopo
le ceneri della Seconda guerra mondiale avvertono, comprensibilmente, un
rigetto viscerale verso tutto ciò (“patria”, “nazione”…) che – pur non
presentandosi come “nazionalismo” – ne evoca lo spettro. I campionati mondiali
di calcio sembrano l’ultimo luogo in cui ci si ricorda, con ambigua fierezza,
di essere tedeschi, francesi o italiani. Come valutare questa tendenza
culturale?
Per contribuire ad
elaborare una (non facile) risposta si potrebbe iniziare con due dati. Il primo
è di sradicare ogni pretesa di essere, come individui o come popoli, gli
“eletti da Dio”: l’odio anti-semitico è stato ed è il frutto di un’invidia che
vorrebbe sostituire la propria “elezione” alla pretesa altrui di essere stati
“eletti”. Agli occhi di Dio tutti siamo (potenzialmente) prescelti e tutti (potenzialmente) reprobi: chi di noi ha giocato
correttamente e fruttuosamente la partita lo si saprà sempre a posteriori.
Il secondo dato è che ogni
aggregazione è funzionale alla relazione: una coppia è tale se l’intimità è
funzionale all’accoglienza; una città è tale se la coesione interna è
funzionale alla cooperazione esterna; così una nazione. La consapevolezza di
appartenere a una lingua, a una storia, a una terra, a una tradizione culturale
ha senso solo come presupposto all’apertura più ampia verso le altre lingue, le
altre storie, le altre terre, le altre tradizioni culturali. Il principio di
nazionalità è destinato a perdere senso se non come palestra, luogo di
allenamento, per maturare un principio di solidarietà planetaria.
Augusto
Cavadi
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