Nella "Relazione" annuale della Direzione investigativa antimafia (Roma) c'è un passaggio in cui gli estensori notano con approvazione che, dopo un lungo periodo di silenzio, anche la Chiesa cattolica si sta svegliando nel Meridione italiano e sta prendendo le distanze dalle infiltrazioni mafiose nei suoi organismi e nelle sue manifestazioni (processioni etc.).
L'agenzia di stampa "Adista" (Roma) mi ha chiesto alcune righe di commento da affiancare alle considerazioni di altri osservatori.
Il servizio, a firma di Valerio Gigante, è uscito su "Adista - Segni nuovi" del 4.4.2015.
Qui di seguito la mia sintetica dichiarazione:
"Che papa Francesco non perda occasione per
ribadire l’incompatibilità fra fede cristiana e appartenenza al mondo delle
cosche mafiose è cosa buona (soprattutto se si nota la distanza dai due ultimi
predecessori concentrati su questioni di sesso e dintorni). Sarebbe da ingenui,
però, aspettarsi dei mutamenti repentini in una Chiesa che – dalle origini
ottocentesche delle criminalità organizzate – ha optato per un’illusoria
equidistanza fra Stato e mafia, certa di poter lucrare protezione e privilegi
dall’uno e dall’altra. Serviranno ancora molti anni - e alcuni papi
– per vedere risultati. Che autorità giudiziarie sollecitino i
cattolici ad impegnarsi in questo processo di rinnovamento è altrettanto
opportuno. A patto, però, che la critica sia accompagnata dall’autocritica. In
Sicilia, per circa un secolo, le gerarchie ecclesiastiche hanno stentato
persino ad ammettere che esistesse un fenomeno mafioso. Ma, nello stesso lasso
di tempo, i procuratori generali, nelle statistiche dei reati a inizio di anno
giudiziario, omettevano persino il vocabolo 'mafia' ".
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