“Monitor”
13. 2. 2015-02-13
SINO A QUANTO VALE LA PENA
LOTTARE PER UN TRAGUARDO ?
Il figlio di mia sorella,
Guido, ha posto ai suoi interlocutori di Facebook
– come me – un quesito: “Quando tra noi stessi e il nostro obiettivo si
frappongono degli ostacoli, e altri ostacoli poi continuano a spuntare
all'improvviso a complicare il tutto, significa che quell'obiettivo non deve
essere raggiunto?”
Più d’uno dei suoi amici
telematici hanno saputo rispondere, non io. Infatti mi pare che si tratti di
una domanda formulata in maniera ancora eccessivamente generica perché possa
ottenere una risposta argomentata razionalmente (e non soltanto retorica, del
genere: “Tieni duro, è solo un modo in cui la vita ti mette alla prova per
temprarti”).
In una conversazione a due – come quelle che si svolgono nel
corso di una “consulenza filosofica” -
avrei avuto necessità, innanzitutto, di sapere in concreto quale fosse
“l’obiettivo” e quali gli “ostacoli”. Mi pare evidente, infatti, che ci sono
obiettivi, méte, per cui vale la pena di affrontare ostacoli di ogni
difficoltà; ed altri obiettivi per i quali vale la pena di affrontare certi
ostacoli limitati, ma non altri più impegnativi. Questo, almeno, è il criterio
cui mi sono attenuto nel corso della mia esistenza. Mi spiego con due esempi
effettivi.
Negli anni degli studi
universitari avevo concepito l’idea di intraprendere, una volta laureato, la
carriera di docente nella stessa Facoltà di lettere e filosofia: mi attraeva
molto la possibilità di contribuire, dall’alto di una cattedra prestigiosa,
alla formazione di tanti giovani che, a loro volta, si sarebbero sparpagliati
come rondini nelle varie scuole siciliane. Perciò, qualche mese dopo la laurea,
feci domanda per una borsa di studio che, all’epoca, costituiva il primo passo
per un’eventuale carriera accademica: La sera prima dell’esame un amico mi informò
dell’opinione espressa al bar della Facoltà dal presidente della commissione
che mi avrebbe valutato: “Qualcuno conosce un certo Cavadi? Dev’essere una
presuntuosa testa di c…zzo perché, su venti concorrenti, è l’unico che non si è
fatto raccomandare. Bisognerà dargli una lezioncina”. Ricevuta, il giorno dopo,
la lezioncina di vita accademica,
dopo un anno circa riprovai con un altro concorso: fra i dodici candidati uno
era stato, per alcuni anni, assistente volontario del presidente di commissione
e – per ovvie ragioni – aveva introiettato tanta sapienza dal maestro da
risultare primo nella graduatoria finale. Su sollecitazione di un altro
docente, anni dopo tentai una terza volta, ma senza fortuna: poiché la
graduatoria dei concorrenti rispecchiava fedelmente il grado accademico dei
rispettivi professori con cui collaboravano, fu lo stesso docente con cui avevo
svolto l’incarico di “esercitatore” a sconsigliarmi di insistere (“Non sono
riuscito a diventare professore ordinario, dunque nessuno dei miei collaboratori
avrà mai la possibilità di entrare all’università”). Optai per il concorso di
docente liceale, lo vinsi senza dovermi piegare a chiedere raccomandazioni, da
quarant’anni sono felice di contribuire alla formazione non solo di futuri
insegnanti di filosofia (come avrei fatto all’università), ma anche di
magistrati e medici, economisti e artisti, politici e giornalisti.
In altri casi l’obiettivo
propostomi era tale, invece, da giustificare la paziente sopportazione di
ostacoli d’ogni genere. Mentre infatti ho rinunziato senza troppi rimpianti
alla carriera universitaria, mi sarebbe dispiaciuto profondamente non avere la
possibilità di scrivere le mie riflessioni e di sottoporle a un pubblico più
vasto dei miei amici. Ho perciò atteso per anni, con serenità ma anche con
tenacia, che qualche testata giornalistica di rilievo (come il quotidiano
“Repubblica” o il mensile “Narcomafie”) e qualche editore di qualità (come
Newton Compton o Di Girolamo, San Paolo o Rubbettino) si accorgessero delle mie
cosette e accettassero di ospitarle. Gli anni dell’attesa (senza spasmodica
ricerca di contatti “giusti” e di canali “preferenziali”) non sono stati vani:
con l’età e l’esperienza si maturano le proprie convinzioni, si smussano le
asperità unilaterali. E se proprio neppure così si dovesse raggiungere il
proprio obiettivo prima di morire, già averlo coltivato nell’animo sarebbe un
modo per vivere la vita significativamente.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
2 commenti:
Un aspetto della problematica di numerosi giovani è che, aizzati dalla propaganda maxmediatica degli ultimi due decenni, talvolta dicono obiettivo e pensano “sogno”. Lemma ambiguo e insidiosissimo, confuso e gonfio d’implicita dismisura.
Colgo l’occasione per uno stringato bilancio del mio obiettivo professionale. Oltre tre decenni fa tra gli innumerevoli modi di produzione avevo optato per quello del piccolo produttore indipendente. Così oggi, artigiano erborista, vivo e lavoro in mezzo agli ulivi lontano dal paese, raccolgo le piante, le trasformo e vendo nell’erboristeria contigua al laboratorio di produzione.
Obiettivo raggiunto? Indipendente per davvero?
Un bel po’ si: non tengo padrone, faccio e vendo il mio prodotto e invece di sottostare alla richieste del cliente, quasi sempre, lo consiglio.
Un po’ no: dipendo da un paio di fornitori, quello che mi vende i flaconi vuoti e l’altro che mi procura qualche pianta che non cresce dalle mie parti. Obbedisco inoltre a centinaia di normativa onerose e asfittiche -chissà com’è che su questo pianeta ognuno incontra una qualche testa di ca... che dal bar s’intrattiene nel tentativo di esautorare la sovranità altrui- normative tanto contraddittorie tra loro al punto che è praticamente impossibile ottemperarle tutte: metà artigiano erborista, metà burocrate. Tale secondo impegno non era il mio obiettivo eppure mi ha offerto l’inaspettata opportunità di vivere oltre all’etica del libero implementare anche quella della resistenza. Qualche filosofo afferma che è tra le più nobili. Grazie a tutti i testa di ca... del mondo per le opportunità che loro malgrado ci elargiscono!
Obiettivi, sogni velleitari, progetti a lungo termine ... grazie di queste tue riflessioni che aiutano a fare chiarezza dentro di sè.
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