“Comunicazione filosofica”
Novembre 2014 , n° 33
L’ANA-TEISMO: DOMANDE DA UNA NUOVA PROSPETTIVA
La prospettiva
anateistica
Chi frequenta il
confine fra la ricerca filosofica e l’indagine teologica si può confrontare con
la traduzione italiana di un libro originariamente pubblicato in inglese nel
2010: R. Kearny, Anateismo. Tornare a Dio
dopo Dio, Fazi, Roma 2012. Non è un testo agevole da sinettizzare perché
l’autore, formatosi nell’ambiente francese diffidente verso ogni forma di
trattazione organica, saltella qua e là spaziando, ben al di là dei confini
disciplinari convenzionali, fra testi di letteratura, di filosofia e di
mistica. Provo comuqnue a individuare, con un certo margine di arbitarietà, un
filo rosso che attraversa le pagine fosforescenti di Kearney.
Egli condivide la lettura che Hannah
Arendt propone del tema nietzschiano della morte di Dio:
E’ forse saggio riflettere su ciò
che realmente si intende
allorché si osserva che la teologia , la filosofia e la metafisica
sono giunte a una fine: certo non che Dio è morto, qualcosa
di cui possiamo sapere tanto
poco quanto dell’esistenza di
Dio[…] , ma che il modo in
cui si è pensato a Dio per migliaia
di anni non è più convincente; se è morto qualcosa, può trattarsi
solo del pensiero tradizionale
di Dio[1].
Aggiunge che la constatazione
fenomenologica della morte di Dio, o del modo di concepirlo in Occidente, resterebbe parziale se si limitasse al registro teoretico.
Essa coinvolge, infatti, altrettanto il registro storico-esistenziale delle
inenarrabili esplosioni di odio distruttore verificatesi nel Novecento. Si badi
bene: l’inedito di questi eventi sta anche nella proporzioni matematiche (solo
la tecnica della Modernità avanzata poteva consentire di individuare, internare
e eliminare nemici a migliaia, anzi a milioni, come in Unione Sovietica o in
Cambogia), ma soprattutto nelle motivazioni ideologiche. Armeni, Tutsi,
Bosniaci sono stati sterminati -
per la prima volta nella storia – in quanto appartenenti a un’etnia, a
prescindere dalle responsabilità soggettive. Che poi fra questi popoli ve ne
fosse uno – il popolo degli Ebrei – che si autointerpretava come “eletto da
Dio” ne ha reso incomparabilmente più scandaloso il genocidio sistematico da
parte dei nazisti. Questo intreccio di pensiero e di esperienza storica non va
trascurato neppure per un momento se si vuole capire bene su quale background si profila l’anateismo:
Il Dio che è morto ad Auschwitz
era il Dio della teodicea.
La fede del
dopo-Olocausto non crede che Dio avrebbe
potuto arrestare la
tortura; e così è stato[2].
Ma
Kearney non si ferma alla diagnosi. Se il teismo è morto - o forse, più prudentemente,
si è eclissato – cosa ci attende
nel presente e nel futuro? A questo punto le notazioni oscillano fra la
prognosi e la terapia: l’autore un po’ prova a prevedere, un po’ a prevenire e
curare. Ne riprendo (commentandole brevemente) alcune che, inserite qua e là in un testo che non
eccede certo in schematicità didattica, potrebbero sfuggire a una prima
lettura.
Innanzitutto:
con il teismo soffre, e rischia di spirare, anche l’anti-teismo (o, se si preferisce,
l’ateismo ‘positivo’). L’anateismo ha senso come
terza
via tra gli estremi del teismo dogmatico e dell’ateismo
militante, le due convinzioni diametralmente opposte che nel
corso della nostra storia hanno mutilato tante menti e anime.[3]
Seconda considerazione: poiché il “teismo dogmatico” e “l’ateismo
militante” erano fedi che si incarnavano in strutture religiose (con propri
padri fondatori, testi sacri, interpreti autorizzati più o meno infallibili,
canoni di ortodossia dottrinale, gerarchie, liturgie, divise e distintivi…), si
può ipotizzare di salvare le fedi
dalla disintegrazione delle religioni:
l’anateismo è proprio l’esplorazione della possibilità di una “fede senza
religione”[4]
(espressione che ha senso solo se si intende per ‘fede’ non l’accettazione di
un ‘credo’ concettualmente formulato e organicamente organizzato, bensì
l’apertura antropologica all’Oltre e all’Altro). Anche prima che le religioni
implodano, l’anateismo ha una funzione catartica da svolgere. Infatti se ogni
religione (teistica o ateistica), proprio in quanto ‘religione’ e non solo
‘fede’, è esposta al perenne rischio della degenerazione (sarebbe meglio dire
che, storicamente, cade
costantemente nella degenerazione), vi è allora bisogno, altrettanto costantemente,
di potenziare in ogni corrente religiosa la componente della fede,
dell’apertura all’ignoto, dell’accoglienza del diverso. In una parola: vi è
bisogno di enfatizzare la componente della “spiritualità “ dal momento che
“l’impegno spirituale” possiede
gli strumenti per fornire uno dei
più efficaci
antidoti al pervertimento della religione.[5]
Ma che
significa, per l’ana-teismo, valorizzare la fede (versus la religione), la spiritualità (versus il confessionalismo escludente)? Siamo a una terza considerazione di Kearney.
Significa ristabilire il primato ebraico e proto-cristiano dell’ortoprassi
sull’ortodossia:
Non chiunque mi dice
“Signore, Signore” entrerà nel regno
dei
cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
( Matteo 7,21 )
Mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò la fede
partendo dalle mie opere. Tu credi che esista un solo Dio?
Fai bene: anche i demòni credono e rabbrividiscono.
(Giacomo 18 – 19)
Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è
mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede
non può amare Dio che non vede.
(I Giovanni 4, 20).
Questo primato dell’ortoprassi
abbatte molte barriere ideali e ideologiche fra chiese, partiti, movimenti: non
può condurre, dunque, a una sorta di irenismo
pasticcione nel quale le diverse prospettive confluiscono e perdono i connotati
specifici ? Il rischio,
ovviamente, c’è, ma Kearney ce ne mette esplicitamente in guardia (e questa può
essere considerata una quarta e ultima
tappa della sua proposta):
La via più breve dall’io all’io
passa attraverso
l’altro.
[…] Nella traduzione confessionale potremmo
scoprire
in un’altra fede qualcosa di mai sognato nella
nostra. ; tutto questo sebbene – come abbiamo appena
visto – si debba abitare intimamente la propria fede
per
essere in grado di riconoscere una simile rivelazione
come nuova, come
essenzialmente altra rispetto alla
propria.
La
scoperta della saggezza di cui è latore lo straniero
presuppone che l’io riconosca se stesso come diverso dallo
straniero.[6]
Nulla di più lontano, dunque,
dall’auspicio di un potpourri
planetario: chi cerca seriamente l’Assoluto non è un turista delle religioni,
ma si concentra a vivere intensamente quella che, di volta in volta, o una
volta e per sempre, gli sembrerà più congeniale. Chi non intravede l’Essenziale
nella propria esperienza religiosa si condanna, inevitabilmente, a restare alla
superficie di qualsiasi altra tradizione religiosa.
L’incontro con Dèi stranieri ci
invita a scoprire aspetti
nascosti del nostro Dio (spesso cristallizzati nelle convenzioni);
inoltre, questo recupero delle origini recondite ci apre
ulteriormente
all’incontro con gli Dèi stranieri. Tuttavia tale
incontro, che procede in entrambe le direzioni, non comporta
l’annullamento in una totalità onnicomprensiva.[7]
Solo chi cerca con tutto sé stesso ciò che siamo abituati a chiamare Dio
può trovare anche in altre sapienze ciò che ignorava nella propria, come è
capitato a Paul Knitter che è diventato veramente cristiano solo dopo aver
conosciuto il buddhismo.[8]
Alcune
considerazioni a margine
Dopo aver tentato di
restituire alcuni passaggi costitutivi della prospettiva anateistica, mi
piacerebbe aggiungere qualche chiosa a margine dal punto di vista di un
filosofo di strada (per mestiere) e di un teologo critico a rischio costante
d’eresia (per diletto). Se non dovessero servire ad altro che ad aprire un
piccolo dibattito fra lettori di queste tematiche, queste noterelle avrebbero
raggiunto un obiettivo significativo.
Per capire – ed eventualmente valutare –
la proposta dell’anateismo di Kearny
può essere istruttivo rispondere a due distinte questioni: quale percorso ha
alle spalle? Quali prospettive davanti? E’ evidente che le due domande
consentono risposte di differente tenore: più attendibile (anche se
necessaraiemnte parziale) la risposta alla prima, più opinabile (in quanto
necessariamente ipotetica) la risposta alla seconda.
Quale background ?
Se considerato in sé stesso, isolatamente, l’anateismo può essere
recepito come poco più di uno slogan che
tenti di varare una nuova moda filosofico-teologica, effimera come tutte le
mode. Ma, a ben guardare, esso è il punto di arrivo (temporaneo) di un ben più
lungo processo di pensiero: come tutte le ri-nascite, infatti, presuppone prima
una nascita e poi una morte.
Nel
nostro caso: la nascita del teismo e
la sua morte.
Se partiamo dall nascita del
teismo, la narrazione ‘canonica’ (o sarebbe meglio dire la vulgata) è, a grandi
linee, la seguente. Un popolo mediorientale (gli Ebrei) ritiene di ricevere
l’automanifestazione di un Dio unico e lo annunzia, senza particolare sete di
proselitismo, alle genti che entrano in contatto – più o meno pacifico – con
esso. Ma è un annunzio ‘profetico’, nel senso che tutto cò che Jhvh dice di
sé lo comunica attraverso la
mediazione di uomini e donne in carne ed ossa, di soggetti concreti: dunque
l’autorivelazione dell’Eterno dipende dalla fiducia che ogni generazione presta
ai mortali da lui prescelti come portavoce autorizzati.
Questo movimento di fiducia, di affidamento, funziona – più o meno – nell’alveo
della tradizione ebraica (Mosé, i profeti…) sino all’eresia cristiana: ma
quando alcuni Ebrei che hanno
abbracciato l’interpretazione del messaggio profetico tradizionale elaborata da
Gesù di Nazareth - e dalla sua cerchia di discepoli (diretti e indiretti: tra
questi ultimi Paolo di Tarso) -
iniziano a diffonderla fuori dalla Palestina, si accorgono di una difficoltà
insormontabile. Il mondo dei Greci (e dunque, per estensione, la vasta area
mediterranea segnata dall’ellenismo) è restìo ad accettare dottrine trasmesse
per fede: con pistis si designa una
forma di conoscenza non superiore, ma inferiore alla conoscenza certa. Da qui
l’intuizione disastrosamente geniale attestata dagli Atti degli Apostoli 17, 22 – 31 : provare
a identificare il Dio dei Greci con il Dio degli Ebrei (ri-presentato, in
continuità con la migliore tradizione profetica, dal profeta di Nazareth). A
differenza della lettura di gran lunga dominante, secondo cui l’ellenizzazione
del cristianesimo (o, per alcuni come Bontadini, la cristianizzazione
dell’ellenismo) sarebbe stata provvidenziale, trovo geniale, ma disastroso, il
tentativo perché non si è provato a mescere acqua con acqua o a impastare pane
con pane, bensì a omologare acqua con pane. Fuor di metafora: il discorso dei
Greci sul divino si snodava su un registro epistemico radicalmente altro rispetto al discorso degli Ebrei
sul divino. Ai primi interessava sapere “chi” fosse Dio o, per essere più
precisi, “che cosa fosse” (e solo conseguentemente cosa volesse dall’umanità,
ammesso che si aspettasse qualcosa e non fosse, come supponeva Aristotele,
sovranamente ignaro e indifferente alle faccende terrestri); ai secondi
interessava sapere “che cosa volesse” Dio dagli uomini (rassegnati a ignorare
per sempre di “cosa” fosse fatto Dio, “come” funzionasse la sua mente
inaccessibile) e, soprattutto, cosa gli uomini potessero “fare” per Dio.
Rispetto a questa differenza irriducibile, netta, di prospettiva, altre
differenze (pur notevoli) di contenuti passano in secondo piano. E comunque
complicano ulteriormente il tentativo di traduzione dal biblicese al filosofese.
Come se ciò non fosse abbastanza, bisogna aggiungere che non si trattava
di tradurre una immagine biblica di
Dio, bensì diverse: quante sono le
concezioni presenti in una biblioteca di 73 volumi scritti lungo sei o sette
secoli di storia! Ma anche se fosse stata una
sola - o se delle tante concezioni
bibliche di Dio se ne fosse privilegiata una
sola – si sarebbe parata innanzi una seconda, colossale difficoltà: in
quale delle ‘lingue’ filosofiche greche tradurre quell’unica (ipoteticamente
unica) immagine biblica di Dio? E
in effetti la storia registra un pluralismo di categorie filosofiche adottate
da Apologisti, Padri della Chiesa e Dottori della Scolastica: ognuno di questi
pensatori ha ripensato i dati biblici (già problematici per molti versi) in uno
degli ‘alfabeti’ tramandati dalla tradizione greca (il platonico per alcuni,
l’aristotelico per altri, lo stoico o il plotiniano per altri ancora…).
Già all’alba della Modernità - diciamo fra il Quattrocento e il
Cinquecento – dirsi teisti (o monoteisti) suonava generico al punto da
risultare equivoco: che cosa avevano in comune il Dio di Abelardo, di Duns
Scoto, di Guglielmo d’Ockam, di Marsilio Ficino, di Nicolò Cusano?
Indubbiamente alcuni tratti si sovrapponevano, ma le differenze non erano certo
minori. Il Concilio di Trento aveva due strade principali: o lasciare ai
teologi, ai mistici e ai fedeli la totale libertà teoretica puntando su quel piano
operativo, caratteristico dell’esperienza ebraica e proto-cristiana, nel quale
si erano posti Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso; oppure prendere posizione sul
piano dottrinario, stabilire autoritariamente una ortodossia e avviare, anche
con l’istituzione dei Tribunali dell’Inquisizione, una strategia repressiva del
pluralismo teologico che è
perdurata sino ai nostri giorni (forse, si spera, sino all’elezione di papa
Bergoglio che appare più orientato a rivalutare l’aspetto ‘pratico’ della fede
cristiana).
Il teismo canonizzato a Trento è il monoteismo platonico-aristotelico
(sì, anche platonico, come ha ben dimostrato a suo tempo Cornelio Fabro) di san
Tommaso d’Aquino: ma se la Chiesa cattolica ha tentato (ovviamente inutilmente)
di eternizzare questo fotogramma, il film della storia è andato avanti con il
passaggio dal teismo monoteistico ancora riconoscibile in Cartesio al deismo
lockiano e illuministico. Sino a dove si sarebbe potuto arrivare in
quest’operazione di depurazione teoretica del divino? Mi pare che si possano
rintracciare tre direttive principali.
La prima è spinoziana/feuerbachiana/nietzscheana: la morte del Dio
greco-medievale per un graduale recupero della naturalità del cosmo. La seconda
direttiva è kantiana/kierkegaardiana/barthiana: delegittimare l’autorità della
ragione per lasciare all’opzione di fede l’esclusiva del passaggio dal mondo al
“Totalmente Altro”. La terza direttiva non si rassegna al tramonto
dell’onto-teologia e con Hegel, Schelling e il Neo-tomismo del Magistero
pontificio riprende il filo del pensiero “forte” come se Kant non ci fosse
(stato). Questo tentativo di riscossa metafisica, che si colloca nel segno
della continuità con la tradizione speculativa, è, ad oggi, minoritario (se non
fallimentare), anche per via delle notevoli discordanze interne al medesimo
schieramento.
La
prospettiva dell’ana-teismo, stringi stringi, è di stampo esistenzialistico e
si colloca nella seconda delle tre direttive sommariamente individuate. Non mi
pare di essere ingiusto verso di essa se vi riconosco la posizione di chi
sostiene che,
dopo il parricidio d Dio,
l’effimera libertà da un ordine
prestabilito reca con sé la necessità di pensarsi individualmente
liberi di creare nuovi valori – anche
di sottomettersi al Signore
di Abramo ed Isacco o di abbracciare la croce con il Cristo. Ma lo
si deve soggettivamente volere[9].
Se fosse così, la strada percorsa da
Kearney ci porterebbe a una specie di Speakers
Corn in Hyde Park, dove chiunque
può salire su una cassetta di legno e tenere il comizio che preferisce: resta
da chiedersi che senso abbia il confronto dialettico fra discorsi che
posseggono uguale titolo di legittimità solo perché ugualmente inverificabili
(in qualsiasi accezione si intenda la verificabilità in metafisica). Trovo in
questo esito dell’ana-teismo motivi di forte perplessità.
Quali
prospettive?
Altre perplessità mi suscitano le proposte per così dire in positivo, o
in prospettiva, avanzate da Kearney. Le elenco un po’ schematicamente (e perciò
brutalmente).
a)
Egli (come ho riferito sopra) presenta l’anateismo quale terza via fra
il tesimo dogmatico e l’ateismo dogmatico: ma è possibile, però, obiettargli
che non ogni teismo è “dogmatico” (e militante) né ogni ateismo è “militante”
(e dogmatico). C’è un teismo sobrio, problematico, sofferto (penso al Dio dopo
Auschwitz di Hans Jonas o al Dio dopo Darwin di Vito Mancuso) così come c’è un ateismo sobrio, problematico,
sofferto (penso al cosmocentrismo di Karl Loewith o al naturalismo darwiniano
di Orlando Franceschelli): se qualcuno si riconosce nell’uno o nell’altro, che
ragioni intellettuali e etiche gli restano per abbracciare l’ana-teismo?
b)
Egli (come riferito sopra) basa la sua proposta sul capovolgimento
gerarchico della ortodossia rispetto all’ortoprassi. Trovo questo ribaltamento
assiologico fondato esegeticamente, liberatorio esistenzialmente, proficuo
socialmente: come tollerare l’intolleranza ecclesiastica, dal IV secolo a oggi,
che ha mandato al rogo vittime di tutte le chiese (non solo della chiesa
romana)[10]?
Tuttavia… Tuttavia, affinché la sacrosanta battaglia contro l’intolleranza non
diventi a sua volta intollerante, bisognerebbe aggiungere ciò che Kearney non
dice mai: che l’ortoprassi, necessaria e sufficiente dal punto di vista teologico, non può essere usata come
arma impropria per combattere, in ambito filosofico,
i tentativi dell’intelligenza umana di indagare la dimensione noumenica.
Teismi, ateismi, agnosticismi: quali di queste teorie guadagnerà l’assenso
intellettuale della comunità mondiale dei pensanti? E’ una domanda a cui non si
può rispondere a priori. Ciò che si
può, anzi si deve, dire è che non saranno un versetto della Torah o una frase di
una Lettera attribuita a Paolo o di una sura coranica a valere come argomento
filosofico, logico-razionale. Ma se qualcuno rinunzia a parlare in nome della
Bibbia o di qualche altro testo sacro, gli si deve riconoscere tutto il diritto
(intellettuale, intendo, chè quello giuridico è fuori discussione) di elaborare ipotesi, mostrare
dati scientificamente attendibili,
costruire visioni-del-mondo…in cui egli proponga una sua concezione di Dio o
del divino (una sua concezione teo-logica nell’accezione aconfessionale, laica,
teoretica del termine). Alla vita
di fede le speculazioni metafisiche su Dio fanno male (nella meno peggiore
delle ipotesi, fanno perdere tempo); ma per la vita intellettuale sono
irrinunciabili. Mario Ruggenini ha ripetutamente sostenuto, da posizioni estranee a qualsiasi
tradizione confessionale, che senza la domanda su Dio la filosofia perde il
proprio cuore. Torni dunque il Dio della prassi auspicata da Kearney, ma senza
concorrenza con un eventuale Dio del pensiero che venga proposto con onestà
intellettuale e rispetto delle differenze epistemologiche.
Questa prospettiva - riservare alla fede la competenza
sulla pratica di vita (Spinoza diceva sulla “obbedienza”
al volere divino) e alla ragione
filosofica la competenza sulla riflessione intorno al divino - non è quella di Kearny: forse ne
rappresenta addirittura il capovolgimento. Egli, infatti, afferma chiaramente:
la mia posizione ermeneutica in
quest’opera è filosofica
piuttosto che
teologica[11].
Anzi, per trasparenza, aggiunge di fare
riferimento a una determinata prospettiva filosofica,
quella fondata, da una parte,
sulle teorie moderne della
fenomenologia e dell’esistenzialismo, e, dall’altra, sui concetti
postmoderni di poststrutturalismo e decostruttivismo.[12]
Se è così, la convinzione che col crollo delle pretese conoscitive della
teologia debbano implodere le pretese conoscitive della filosofia, vale quanto
valgono le teorie di “Derrida, Levinas, Kristeva”[13] o Vattimo (che non a caso firma la Introduzione all’edizione italiana del
libro). Ma è una convinzione che mi lascia assai perplesso. Non per giocare con
le reminiscenze platoniche, ma quando Kearney - per limitarmi a una sola esemplificazione fra le molte
possibili – scrive che
solo ammettendo di non conoscere
effettivamente nulla
di Dio, possiamo iniziare a ripristinare la presenza del sacro
nella carnalità dell’esistenza terrena[14],
mi frulla spontaneamente una domanda: non bisogna sapere qualche cosa di
minimale su Dio (dare un minimo di significato al semantema “Dio”) per poter
sapere di “non conoscere effettivamente nulla di Dio”? Così come per poter
affermare di non conoscere le equazioni di secondo grado devo avere una qualche
nozione, per quanto approssimativa e confusa, di “equazione”? E’ bene che la
riscoperta della fede autentica, in quanto riscoperta della dimensione erotica
e soprattutto agapica dell’esperienza antropologica, ci liberi dai dogmatismi
confessionali; ma non sarebbe altrettanto auspicabile che ci liberasse (ammesso
che fosse possibile) dalla
benedetta condanna ad interrogarci incessantemente, in quanto animali
pensanti, su ciò che intendiamo
quando parliamo - per ammetterlo o
per negarlo – di “divino”, di “santo”, di “sacro”.
L’ineliminabilità di un logos intorno
al theos, o al theion, insomma di una teologia filosofica, laica, sembrerebbe confermata anche
dall’osservazione della storia del pensiero occidentale recente. In esso
qualche studioso ha distinto, a proposito del nostro tema, due percorsi
principali. Il primo esclude come irrilevante la questione su Dio. Ma un secondo
percorso che
riconduce la filosofia verso il
tema originario e
fondamentale
dell’Essere e dell’Intero, ossia del senso
ultimo della realtà;
verso
un pensiero metafisico inusitato
che, facendo
propria la lezione
nietzschiana, vada oltre la superata
ontologia
occidentale, basata sull’Essere di Parmenide
e sulla Sostanza di
Aristotele – in tal senso esso si manifesterà
paradossalmente come
‘anti-metafisico’ – senza per questo
rinunciare a porsi la
domanda fondamentale: “che cos’è
l’Essere?[15].
Il “disegno di una metafisica
innovativa” - quale ci viene
prospettato, da postazioni assai diverse, da protagonisti come Heidegger[16]
e Wittgenstein[17] (per limitarci a due fra i molteplici
riferimenti possibili) –
risponde, in ultima istanza, al
bisogno dell’uomo contemporaneo
di
riconsiderare sotto una diversa luce, relazionale, globalizzata, ecumenica
e, soprattutto,
“pratica” il tema del divino[18].
Se Dipalo ha ragione, non si tratta di opporre la prassi alla teoria, ma
di elaborare una nuova teoria in cui la dimensione pratica abbia tutto lo
spazio a cui ha diritto (o, meglio, di cui noi mortali abbiamo bisogno).
c) Non
vorrei chiudere la riflessione sulle prospettive dell’ana-teismo senza
aggiungere almeno un’ultima notazione (questa volta soltanto di consenso).
L’ana-teismo non può non indurci a guardare con occhi più attenti, e
orecchie più disponibili, alle spiritualità lontane dalle nostre tradizioni.
Significativa la scelta di Kearney di proporre il Mahatma Gandhi come
l’ultima figura […]
esemplificativa del momento
sacramentale
che caratterizza l’anateismo.[19]
Tra i tanti aspetti della sua testimonianza, infatti, egli
è stato coraggiosamente
interreligioso, in quanto
riteneva che ogni tradizione sapienziale aspira a una
vita di servizio per gli altri. Per lui, tutti i percorsi
spiritauli
erano “differenti vie che convergono nello
stesso punto”. E avendo presente ciò , non gli fu difficile
dichiarare che, benché fosse un hindu, era anche “un
musulmano, un cristiano, un ebreo e un sikh”.[20]
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
[1]
H. Arendt, La vita della mente, il
Mulino, Bologna 2009, p. 91, cit. in
R. Kearny, Anateismo, cit., p.
77.
[2] R. Kearny, Anateismo, cit., p. 80.
[3]
R. Kearny, Anateismo, cit., p. 3.
[4]
Ivi, p. 4.
[5]
Ivi, Prefazione, p. XXIII.
[6] Ivi, p. 235.
[7] Ivi, p. 239.
[8] Cfr. P.
Knitter, Senza Buddha non potrei essere
cristiano, Fazi, Roma 2010.
[9]
F. Dipalo, Il divino dopo la morte di
Dio: verso un nuovo concetto di spiritualità ecumenica nel mondo contemporaneo
in AA. VV., Dio e il divino. Quante vie
sono possibili in filosofia per sapere se Dio esiste e, se esiste, per sapere
chi è?, Il giardino dei pensieri, Bologna 2013, pp. 128 – 129.
[10]
Un “Elenco provvisorio degli italiani uccisi in quanto ‘eretici’ ” lo si trova
in Appendice (pp. 199 – 202) al
volume di V. Mancuso, Obbedienza e
libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi,Roma 2012.
[11]
Ivi, p. XXVII.
[12]
Ivi.
[13]
Ivi.
[14]
Ivi, p. 5.
[15] Ivi, p.
129.
[16]
“Quella di Heidegger è una concezione
del divino ‘debole’ e ‘al femminile’. Un Dio absconditus (nascosto) che non ‘riempie’ , ma ‘contiene’, non
s’impone attraverso la violenza del concetto , ma gentilmente si fa da parte
affinché le sue creature - gli
enti – possano dar vita ad una fenomenicità danzante. Un Dio siffatto, non
essendo concettualizzabile, non dogmatizza , non si lascia strumentalizzare né
dà adito a fondamentalismi. Ad esso l’Occidente può pervenire recuperando
quello spazio di spiritualità che la tecnica trionfante sembra aver del tutto
estinto ” (Ivi, pp. 142 – 143).
[17]
”Anche in Wittgenstein, dunque, il divino si configura come ulteriorità. La sua
‘indicibilità’ non produce affatto un silenzio rassegnato, nichilistico, ma
sviluppa nuove possibilità di comprensione, in senso meditativo ed
esperienziale” (Ivi, pp. 146 – 147). Poiché, secondo Ernst Jungel (Dio, mistero del mondo, Queriniana,
Brescia 1982), il soggettivismo cartesiano e kantiano, abbracciato
entusiasticamente dalla maggior parte dei teologi moderni, porta dritto dritto
alla “morte di Dio”, Fergus Kerr ha sostenuto che la critica di Wittgenstein a
questa “epistemologia mentalistica e individualistica” ed il recupero da lui
attuato della “dimensione corporea, storica ed istituzionale” del soggetto
umano costituiscano un passaggio inaggirabile per salvare la possibilità di una
teologia autenticamente cristiana (La
teologia dopo Wittgenstein, Queriniana, Brescia 1992, p. 30).
[18]
Ivi, p. 130.
[19]
R. Kearney, Ana-teismo, cit., p. 212.
4 commenti:
Dopo aver letto il titolo del libro ho detto a Kearny: Anateista sarai tu! nel senso che nel mio frequentare «il confine fra la ricerca filosofica e l’indagine teologica» pur trovandomi prossimo a numerose posizioni di Kearny che hai sintetizzato, mi sembra riduttivo definire la complessità di un percorso -sia pratico che teoretico- con un’etichetta. Se ho ben inteso “ana” di Anateismo è inteso come ‘all’insù, in alto, sopra’; rimanendo nell’asfittico orizzonte delle etichette che nel caso di specie indicano, forse con eccessive pretese, inedite “terze vie” avrebbe anche potuto definirlo Anaateismo. Suona male e si modificherebbe il punto di partenza ma, tutto sommato, in questo sostituire l'ordine dei fattori, il prodotto finale rimarrebbe invariato.
Caro Augusto le tue “considerazioni a margine” risolvono le mie perplessità.
Ho appena finito di leggere il tuo articolo sull’anateismo di Kearny. Una delle peculiarità della concezione buddista è proprio di distinguere il piano della prassi, cui viene data la preminenza, rispetto alla teoria. Considera che la svolta ortopratica e terapeutico-soteriologica viene impressa dal Buddha storico su una tradizione di pensiero mitilogico, liturgico ma anche altamente intellettualizzato che intorno alla metà del primo millennio prima di Cristo, di fatto, non aveva rivali in nessuna parte del mondo. Ciò non toglie che nei secoli successivi all’ortopratica si sia affiancata una produzione filosofico-intellettuale di grande rilievo, senza per questo che i due aspetti siano finiti per confliggere come nella dicotomia tra tradizione biblica e tradizione filosofica greca.
I due corni della questione sono presenti anche nella tua persona. C’è la grecità dia-logica di Socrate con la sua urgenza di ricerca intellettuale, la sua inquietudine razionale. E c’è l’impegno etico-politico, sorretto sia in termini esperienziali-umani che teoretici dalla teologia agapica cristiana che si affianca e dà corpo al socratismo. Ma poi c’è anche un’altra dimensione, più intima, più personale, che sono sicuro tu conosci, e che si pone al di là della filosofia filosofata a colpi di argomenti, passione nobile erotica, e dell’impegno, altrettanto nobile, con la gente, ispirato dall’agape cristiana. Mi riferisco all’esperienza della kenosis come esercizio spirituale di svuotamento dall’egocentrismo, e di ricollocamento in un altrove pacifico, attingendo al quale si possono poi trovare le energie “giuste” per il primo ed il secondo tipo di attività. Ecco kenosis, svuotamento è detto in altri termini il cuore della pratica meditativa buddista (lì si parla di vuotezza, sunyata).
Se non ho agio a far i conti con me stesso, se non imparo la semplicità, l’umiltà del confronto con la mia interiorità, tutto diventa più difficile. La ragione s’inceppa, lo spirito di servizio verso l’altro si consuma. Occorre avere un “posto dove tornare”. Qualcosa mi dice che intendi perfettamente quello che intendo, al di là delle parole. Ecco, nella tradizione buddista, accanto a testi di grandissima profondità filosofica, troviamo una letteratura a supporto della pratica della sperimentazione del sé: consigli su come rettamente concentrarsi, su come sedere, su come camminare, su come mangiare, ecc. La prova non è affidata tanto alla razionalità degli argomenti – che pure è spesso evidente – o al comandamento divino – che è invece del tutto assente – quanto alla empiria: fallo e poi mi dirai.
Insomma, lo stesso Socrate, che pure non era mai a corto di argomenti, quando parla del daimon che, tacendo, si limita a non vietargli questa o quella cosa, fa riferimento anch’egli ad una dimensione che è oltre-logica, divina, spirituale, o chiamiamola come ci pare.
Seguendo il tuo ragionamento sull’anateismo abbiamo bisogno: 1) di riscoprire le radici di una spiritualità praticata, da cui attingere risorse per un’etica condivisa; 2) ripensare il divino in termini filosofici, non dogmatici. Davvero, da questo punto di vista la tradizione buddista ha molto da insegnarci. Questa è sostanzialmente anche la mia tesi, fermo restando che sono un pessimo praticante (in senso buddista) ed un pessimo filosofo (in senso occidentale).
La parola chiave per me suonerebbe “umanismo ecumenico”: se riuscissimo a creare delle categorie pratiche trans-culturali di ricerca umanistica, non avremmo bisogno di dogmatizzare su Dio, sarebbe lì, si rivelerebbe da solo, per quello che ci è dato saperne: non-onnipotente, ulteriore, aperto, energetico-materiale, padre, meravigliosamente vuoto e per questo meravigliosamente accogliente.
Va beh dai tanto io non rischio niente, nemmeno una cripto-accusa di eresia. Chissà che un domani non si riesca a lavorare ad un testo congiunto su questi temi, declinando in maniera innovativa greco, cristiano e buddista.
Apprezzo moltissimo che alle parole tu faccia seguire sempre i fatti. Virtù rarissima, tra colleghi ed editori.
A presto
Francesco
Chi cerca trova... è vero!!! Ma vieni a cercare nel posto giusto. Scopri cassetta di sicurezza travestita da dizionario. Vai su http://www.vitalbios.com/A/MTQ3MDMxNjE2OSwwMTAwMDAxMixjYXNzZXR0YS1kaS1zaWN1cmV6emEtdHJhdmVzdGl0YS1kYS1kaXppb25hcmlvLmh0bWwsMjAxNjA5MDEsb2s=
Molto interessante il tuo articolo filosofico; non mi convince, però, quest’affermazione: La seconda direttiva è kantiana/kierkegaardiana/barthiana: delegittimare l’autorità della ragione per lasciare all’opzione di fede l’esclusiva del passaggio dal mondo al “Totalmente Altro”. La nozione di fede di Kant mi pare troppo diversa da quella degli altri per metterli assieme.
Mi pare giusto che la ragione umana si fermi alle soglie del mistero perché, quando cerchiamo di attraversarle, adoriamo i nostri idoli.
Posta un commento