23.11.2014
Augusto Cavadi: "I mafiosi non cambiano. Sono sempre inseriti nella società siciliana"
Scrittore e insegnante, Augusto Cavadi, palermitano, è presidente della scuola di formazione etico - politica “Giovanni Falcone” di Palermo. Tra i suoi ultimi volumi Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2009) e 101 storie di mafia che non ti hanno mai raccontato (Newton Compton, 2011).
Omertà,
riservatezza, sobrietà erano una volta i tratti dei boss di Cosa
nostra. Adesso invece il neo capomafia dell’Arenella, Domenico
Palazzotto, si fa i “selfie” davanti a piatti di aragoste, ed è molto
attivo sui social network. Insomma, l’era narcisistica del “Ciao, come
sto?” sembra aver contagiato anche i nuovi boss della mafia…
“Noi
conosciamo solo i comportamenti che affiorano, perchè finiscono nelle
inchieste giudiziarie o nei giornali. Allora si, possiamo dire che
alcuni boss delle generazioni più giovani hanno questo tipo di vita, ma
io non so se sia fondata una generalizzazione, dal momento che molti tra
i membri di Cosa nostra vivono ancora oggi nascosti. I mafiosi sono
delle persone comuni, e anche loro risentono delle mode”.
Il
fatto è che noi ci immaginiamo un modello di mafioso un po’
sterotipato, quindi vedere questi ragazzi alla moda che girano il mondo e
si concedono il lusso più sfrenato senza inibizioni ma un po’ effetto.
Se
andiamo indietro negli anni troviamo comportamenti simili, che anche
allora destavano uguale scalpore. Penso a Tommaso Buscetta, ad esempio,
che da pentito si fece fotografare mentre era in crociera. Il mafioso
sobrio in realtà non è mai esistito, i boss si sono goduti la vita come
hanno potuto. Magari per Totò Riina godersi la vita era farsi una
mangiata di capretto, in campagna, con il vino buono, e oggi per un
giovane di mafia godersi la vita significa farsi i selfie per le strade
di New York.
La vita dei boss dunque non cambia…
No,
cambia la nostra percezione, una volta che l’invadenza dei mezzi di
comunicazione entra nel privato di tutti, e quindi anche nel loro. Oggi è
difficile separare pubblico e privato, per tutti, dal presidente
francese Hollande - lo abbiamo visto - al giovane boss. Ma, ripeto, dal
mio punto di vista, non sono i boss che hanno cambiato mentalità,
siamo noi che siamo capaci di leggere il loro dietro le quinte, perchè
siamo tutti noi occidentali ad avere meno vita privata.
Possiamo dire che se oggi il giovane Totò Riina avesse avuto uno smartphone in mano avrebbe fatto la stessa cosa?
Certamente.
Riina, ad esempio, accumulava denaro e gioielli E anche questa immagine
di Provenzano che mangia pane e cicoria è da rivedere, perchè si
dimentica sempre che si sta parlando, comunque, di un boss latitante: se
andava a mangiare al ristorante, faccio un esempio, sarebbe stato
beccato con facilità. Poi, infatti, Provenzano, quando si è dovuto
operare alla prostata, è andato in una delle migliori cliniche in
Europa, addirittura in Francia, mica in un posto di fortuna. Ciò
significa che ognuno ha le sue priorità, e i suoi criteri. In altre
parole, tornando a noi, i giovani mafiosi di oggi sono perfettamente
inseriti nella società, non sono anomali.
D’altronde la mafia, per definizione, non è mai “anomala” rispetto alla società.
Esatto.
La mafia non vive in conflitto con la società, non è terrorismo, non è
delinquenza comune. Cerca di plasmarsi nella società che lo circonda e a
sua volta di condizionare gli altri alla sua forza.
Oggi
per un ragazzino è facile accendere il computer, e seguire le gesta di
un giovane mafioso che si autocelebra tra il lusso e le belle donne.
Cambia in questo contesto la pedagogia mafiosa?
Mi
occupo di queste cose da più di trenta anni. Prima il ragazzino subiva
il fascino della mafia perchè aveva il caffè pagato al bar, poteva
posteggiare dove voleva, trovava un lavoro. Adesso l’appeal è cambiato
ma il tema di fondo è sempre questo: la mafia cerca di adescarti
facendoti capire che può migliorare la qualità della tua vita, il tuo
agio. Trenta anni fa crescere significava avere una macchina a diciotto
anni, adesso il sogno è un telefonino di ultima generazione . Anche da
questo punto di vista non è cambiato molto.
In
Cattedrale, a Palermo, è stata vietata la cresima al figlio del boss
Giuseppe Graviano. Nella stessa chiesa, infatti, è sepolto Don Pino
Puglisi, fatto uccidere dal padre. Eppure il ragazzo è alunno dei
gesuiti, ha seguito un percorso con gli altri compagni. E’ giusto?
Sopprimono
il sintomo per non vedere la causa. La chiesa cattolica non tiene
minimamente conto delle situazioni locali, cioè della mentalità mafiosa.
E’ facile dire: siccome tuo padre era mafioso, allora non ti cresimo nella cattedrale.
Ma il discorso sta a monte: questo ragazzo è stato mai stato messo in
condizione di capire la differenza tra vangelo e lupara? Ha avuto parole
e gesti concreti di distacco dalla mentalità mafiosa? Se sì , va
cresimato. Se no, è tutta apparenza. La mia idea è che non sia stato
messo in condizione di interrogarsi sulla compatibilità tra vangelo e
mafia. E quindi si è scelta, alla fine, la via più clamorosa: non
cresimarlo in cattedrale, cresimarlo altrove, per nascondere il problema.
1 commento:
Caro Augusto,
stamane, sfogliando "Il Fatto Quotidiano" del lunedì, ho letto con grande piacere la tua bella e profonda intervista sulle trasformazioni della mafia.
La cultura - ed anche la scuola - italiana hanno bisogno di persone come te, che fondano preparazione e chiarezza espositiva, ma che soprattutto abbiano la schiena diritta! Grazie, un grato abbraccio!
Lorenzo
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