POSTFAZIONE
in
A. Spatola, Il
principio interiore. Quando la psichiatria riscopre l’anima, Leonardo da
Vinci, Roma 2014, pp. 187 –
189.
Da più di dieci
anni con un gruppo di amici ci riuniamo quindicinalmente presso lo studio
legale di uno di noi per la “cenetta filosofica dei non…filosofi”. La modalità
è estremamemnte semplice. Il padrone di casa fa trovare un po’ di prodotti da
forno (a Palermo non c’è che l’imbarazzo della scelta) e qualcosa da bere;
mentre si consumano le vivande si avvia la conversazione su un libro - o una parte di libro – che ci si è
autoassegnati la volta precedente.
Il compito del filosofo-in-pratica che gestisce l’incontro è ridotto al
minimo: chiarire, se richiesto, qualche passaggio meno immediatamente
comprensibile; esplicitare qualche riferimento storiografico in cui ci
s’imbatte casualmente; distribuire la parola fra quanti la chiedono evitando
monopoli fastidiosi che scoraggino i meno preparati o i più timidi.
A questi appuntamenti serali partecipano magistrati e casalinghe,
ingegneri e maestre elementari, studenti universitari e pensionati. E anche
medici, soprattutto psichiatri e psicoterapeuti. Tra questi, sin dagli inizi,
Alberto Spatola. Le ragioni della sua partecipazione si ritrovano, estesamente
articolate, in questo libro che viene alla luce. Per quanto interessato agli
aspetti metodologici e, per così dire, tecnici della sua professione, egli ha
sempre avvertito il rischio di un doppio tradimento della psicologia intesa,
etimologicamente, come scienza dell’anima: da parte dei filosofi che, con poche
eccezioni, sembrano aver accettato supinamente il divieto kantiano di una
ontologia del soggetto; e dagli psicologi che, in nome dell’esattezza
scientifica e della misurazione oggettiva, si sono trovati a coltivare, secondo
una severa e nota espressione, una “psicologia senz’anima”.
In queste pagine, la cui struttura lascia intravedere tempi e luoghi
differenti delle stesure originarie, egli intende risalire la corrente in senso
contrario sino alla sorgente ormai smarrita: il “Principio interiore” dei
nostri pensieri, sentimenti, atti. L’unico, a suo parere, che può adeguatamente
spiegare la ricchezza antropologica rispetto ad altri animali (per tutto il
resto assai simili a noi) che si manifesta, fra l’altro, nella peculiare
capacità di sorridere e di ridere (ma anche di deridere sarcasticamente e
malevolmente).
Alberto Spatola
parte dalla storia di vita di un ragazzo in carne ed ossa, ma cerebroleso, per
lasciarsi sfidare da domande sempre più ampie e complesse sulla essenziale
dignità dell’uomo, anche là dove essa sembra sfuggire a qualsiasi sguardo e
nascondersi in anfratti impenetrabili dell’intimo. Di che stoffa siamo
ritagliati? In virtù di quali potenzialità siamo capaci di intenderci sul piano
dei significati e di relazionarci sul piano affettivo? Si potrebbe sintetizzare
l’intera opera come una resistenza contro ogni tentazione riduzionistica (pur
su un registro laico, senza fare appello – intendo - a nessuna instanza
religiosa sovra-razionale). Una resistenza - ci tengo a sottolinearlo – intellettuale ma anche etica: e
chi ha avuto la fortuna di frequentare lo studio di Alberto sa quanto egli sia
attento a vivere prima nel quotidiano ciò che teorizza successivamente.
E’ riuscito nell’impresa ? A ciascun lettore l’ardua sentenza.
Per quanto mi riguarda, constato semplicemente che con questo lavoro l’autore
mostra la fragilità di ogni separazione convenzionale fra “filosofi” (di
mestiere) e “non filosofi” (in quanto impegnati professionalmente in altri
settori dello scibile): egli, infatti, ha dovuto - per altro con piacere – far ricorso, ben oltre
l’attrezzatura della sua formazione clinica e psicoterapeutica, ad
argomentazioni di tipo squisitamente teoretico. talora addirittura metafisico.
A ulteriore dimostrazione di un dato inquietante: molti laureati in filosofia,
e persino insegnanti della disciplina, si accontentano di padroneggaire i testi
più o meno classici della storia del pensiero, senza il desiderio - o forse col desiderio frustrato – di
poter arrivare a una propria visione delle cose; mentre altri, privi di titoli
accademici in ambito filosofico, sono in realtà animati da quella fame di chiarezza
intellettuale ed esistenziale che in ogni epoca contraddistingue i filosofi
autentici (anche se, di fatto, si guadagnano la vita pulendo occhiali come
Spinoza o occupandosi di biblioteche come Leibniz).
La
distinzione epistemologica fra i vari rami del sapere è utile, anzi irrinunziabile;
diventa dannosa quando, però, si trasforma in separazione che isola ciascuno
nel proprio dialetto specialistico. Di fronte agli enigmi dell’universo
sterminato, dell’evoluzione dei viventi nel nostro pianetino, del groviglio
interminabile di tensioni fra individui e popoli che chiamiamo storia, ogni
disciplina è radicalmente inadeguata: solo intrecciando le competenze, senza
invidie e senza timori, possiamo sperare di capirci qualcosa. Prima che
l’ignoranza e l’insipienza ci seppelliscano sotto una lapide troppo pesante da
risollevare.
Augusto Cavadi
Filosofo-in-pratica e consulente filosofico “Phronesis”
www.augustocavadi.com
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