“Comunicazione
filosofica”, n° 33, novembre 2014
Recensione
Augusto Cavadi,
La rivoluzione, ma a partire da sé. Un
sogno ancora praticabile, IPOC, Milano 2014, pp.108.
L’attività bibliografica di Augusto Cavadi (Palermo,
1950), docente di storia e filosofia presso il Liceo classico “G. Garibaldi” di
Palermo e consulente filosofico di “Phronesis”, è assai vasta e variegata. Oltre
a scrivere di filosofia e teologia, da decenni Cavadi è impegnato in prima
persona in uno strenuo Kulturkampf
contro mafia e mentalità affini, sia attraverso la Scuola di formazione
etico-politica “G. Falcone” da lui fondata nel 1992, sia dalle colonne
dell’edizione palermitana de La
Repubblica. Ma il tratto distintivo del nostro, il suo dinamico “ecce homo”, è la disinvolta semplicità
con cui riesce ad incarnare il binomio “filosofia-vita”, nelle molteplici
attività di pratica filosofica da lui ispirate e condotte, dalle “Vacanze
filosofiche” al “Festival della filosofia di strada”. Il filo rosso di tali
pratiche è quello di creare le condizioni umane ed ambientali più adatte
affinché la gente possa concretamente fare filosofia, mettendosi in gioco in
prima persona, a prescindere dai “tecnicismi” della materia. In tre parole, si
tratta dell’arte di “mediare”, “stimolare”, “ascoltare”.
Se l’ascolto è, in certo senso, propedeutico (e
successivo) alla scrittura, l’ultima fatica editoriale di Cavadi si prefigge di
dar corpo a quell’azione di mediazione culturale e di stimolo che caratterizza
il suo impegno filosofico e civile de
visu. Lo stile è semplice, diretto, a volte quasi “confidenziale”, senza
fronzoli accademici. Il tema che viene preso di petto di grande attualità: il “disimpegno”,
l’abulia intellettuale, morale, esistenziale e politica che, per alcuni versi, caratterizza
la società contemporanea, sintomo e causa, a sua volta, di un disagio, un “mal
di vivere”, che, certo, riguarda tutti, ma investe in prima battuta e in
maniera più cruda i nostri giovani. Ecco perché ne consiglio la lettura
soprattutto a chi a scuola ci sta, sforzandosi ancora di credere, nonostante
tutto, nella sua – personale e dell’istituzione – alta missione formativa e civile.
Può servire come spunto di riflessione da condividere con i ragazzi, anche in
classe, ma non ne escludo affatto un utilizzo “auto-terapeutico”. Un “tonico”
da assumere in quei momenti di “grigiore” esistenziale e professionale in cui
le nostre personali capacità di auto-motivazione e di attribuzione di senso,
tra i banchi di scuola, vengono messe a dura prova.
Questa sorta di vademecum
dell’ “orientamento autobiografico” si articola in dieci passaggi
progressivi, corrispondenti ad altrettanti capitoletti.
Uscire dal
disimpegno. Che, al giorno d’oggi, non è l’otium di classica memoria, ma piuttosto
indizio di una dilagante crisi spirituale. Non ci s’impegna più in nulla,
perché tutto appare indifferente, svuotato di significato. Per poter dedicare
la propria vita a qualcosa che valga davvero la pena è necessario “credere” in un
ideale. Tramontate le ideologie e le grandi narrazioni storico-politiche che
pure, dopo la morte di Dio annunciata dal folle uomo della Gaia Scienza nietzschiana, hanno caratterizzato il cosiddetto
“Secolo breve”, ci si ritrova sempre più spesso confinati nel proprio piccolo
io, all’insegna di un individualismo spinto all’estremo, banalizzante e,
dunque, “soffocante”, fonte di infelicità. Eppure, a ben guardare, l’assunzione
di questa prospettiva, nella quale più che vivere “ci si lascia vivere”,
presuppone l’accoglimento, quasi sempre acritico ed irriflesso, di un’ideologia
talmente totalizzante da confondersi quasi con la percezione della realtà
stessa, al punto da farci convinti che «la realizzazione autentica di un uomo
si possa misurare con il metro della carriera, del successo economico, della scalata
al potere politico, delle esperienze sessuali da collezionismo tronfio».
Un primo
orientamento: darsi un progetto. Discusse
diagnosi e prognosi, rimanendo sempre su un terreno, per così dire, empirico e
zetetico, mai dogmatico, il nostro suggerisce che il primo passo per uscire da
questo stato endemico di inerzia esistenziale debba consistere nel
rivitalizzare la propria capacità progettuale. Si potrebbe cominciare col
ritagliarsi uno spazio quotidiano di riflessione, magari nutrito di buone
letture e di condivisione dialogica e comunitaria. Poi, strada facendo,
occorrerebbe darsi una “gradualità di obiettivi”, distinguendo ciò che è
fondamentale e fine a se stesso, da ciò che è solamente accessorio o
strumentale. Il che, naturalmente, richiede un auto-esame attento e
coscienzioso, di chiara ispirazione socratica. Non è cosa facile. Perché sulle
prime bisogna vincere le proprie resistenze personali, facendo emergere la
reale trama su cui ciascuno intesse, spesso in maniera incosciente, opere e
giorni. E, si sa, conoscersi fa “male”, è medicina ben amara da mandar giù. “Progettare”
significa saper cogliere, nell’odierna sinfonia del “politeismo di valori”, l’
“accordo” che meglio esprime la propria natura interiore, per poi adottarlo consapevolmente
ed intenzionalmente nel quotidiano. In ultimo, pur senza assolutizzare ciò che
“Assoluto” non può essere, occorre che il singolo, come ci ricorda Kierkegaard,
si assuma la responsabilità della sua scelta.
Un secondo
orientamento: essere fedeli al reale. Il termine
“realtà” è certamente problematico, oggetto di ricerca filosofica. Ma con
questa espressione s’intende qui la capacità di trascendere i ristretti confini
del “soggettivismo” (o egocentrismo) che caratterizza il pensiero dominante del
nostro tempo, con le sue derive relativistiche e nichilistiche, mettendosi in
ascolto del mondo fenomenico, interiore ed esteriore, e riscoprendo la gioia e
lo stupore di provare a “leggere” il mondo come se ogni volta fosse la prima.
All’inizio ci vuole molto coraggio, perché gli stereotipi, le etichette che appiccichiamo
sulle cose, sono come grucce alle quali c’appoggiamo, zoppicando, di giorno in
giorno. Allora provare a ricrearsi un “senso del reale” significa d’emblée gettarle via, assumersi il rischio
della vertigine, mettendosi alla prova. Un vero e proprio “cammino iniziatico”,
che l’autore esemplifica menzionando, tra gli altri, il Siddharta di Hermann Hesse. Nelle piccole come nelle grandi cose,
il mondo fa risuonare la sua voce, ci sfida ad andare oltre gli angusti confini
del nostro piccolo io, c’impone la
necessità di dar significato a ciò che è.
Dal problema del male, della sofferenza, del destino di morte che
caratterizza la nostra e l’altrui finitudine, veniamo sollecitati, bruscamente,
a prender posizione rispetto ai fatti della vita. Lì, dove c’attende l’Altro.
Un terzo
orientamento: non perdere la fiducia nell’essere umano. L’Altro, seguendo il pensiero di Emmanuel Lévinas, è
innanzitutto il suo volto, quel “prossimo-persona” che costituisce la pietra
angolare della nostra tradizione etica e spirituale. Cavadi, pur svolgendo la
sua riflessione all’insegna del “laicamente corretto”, non fa certo mistero,
tra le pieghe del testo (e palesemente nell’introduzione), della sua originaria
ispirazione cristiano-cattolica, sia pure da anni oltrepassata in una
prospettiva di saggezza planetaria “oltre-cristiana” e “multiversale” – lo dico
a beneficio del lettore che s’imbattesse per la prima volta in uno scritto del
nostro. L’esperienza dell’Altro è, per sua natura, ambigua. Dalle persone con
le quali si è intrecciata – e s’intreccia – la nostra esperienza di vita,
abbiamo sin qui ricavato tutto e il contrario di tutto: grandi affetti, emozioni,
slanci ideali, ma anche chiusure, cocenti delusioni, persino sofferenze
inaudite. Se poi allarghiamo lo sguardo dalla nostra storia personale alla
storia dell’umanità, il quadro si tinge di tinte immensamente più fosche.
Eppure, dobbiamo prender atto che se non coltiviamo una “fiducia” di fondo
nelle possibilità etiche e spirituali dell’umanità che è in noi e nel prossimo
– “fiducia” o “fede” cristianamente declinata – ebbene, ogni forma di
progettualità e d’impegno sfiorisce e vien meno. Ci s’impegna per l’uomo e perché nell’uomo si spera.
Un quarto
orientamento: la fiducia nell’amore. Senza amore,
senza passione, senza dedizione per qualcosa
di “ulteriore”, per un ideale – che, a ben guardare, ha sempre la “faccia”, lo sguardo di qualcuno - non si esce dalle secche dell’insignificanza,
dell’inautenticità cui si condanna chi “sceglie di non scegliere”. Ma coltivare
l’ideale di una società migliore significa imparare a superare la dimensione
meramente storica e materiale dell’uomo, idolatrata e poi tradita, ad esempio,
dalle forme di socialismo reale espresse nel corso del XX secolo, che pure,
sulla carta, s’ispiravano ad una concezione filosofica, quella marxista, di orientamento
umanistico e filantropico. D’altro canto, non sulla convinzione dogmatica di
possedere la Verità si fonderà la speranza di una società più giusta, bensì sul
riconoscimento che la dimensione della ricerca della Verità – o,
transitivamente, di Dio – è autenticamente costitutiva della natura umana e,
dunque, insopprimibile. Cavadi esprime questo concetto facendo sua una
definizione di Giorgio La Pira: «una città andrà bene per il cristiano quando
ogni uomo avrà una casa e anche Dio avrà la sua». Una casa aperta a tutti,
credenti e laici – atei compresi, perché l’unico “ateismo” che andrebbe bandito
è quello che, in maniera violenta e settaria, confligge con un certo teismo
altrettanto intollerante ed oscurantista – per “pregare” ovvero, parafrasando
il teologo gesuita, Karl Rahner, “per porsi, con spirito di accettazione,
dinanzi al mistero ineffabile di Dio” (o della Vita). Ma quale Dio? Il divino,
l’ineffabile, non può che caratterizzarsi come “trascendenza”, “ulteriorità”,
“mistero”, “Al di là di tutto”. Tanto
più se vogliamo provare ad armonizzare la nostra scelta di vita con la causa di
un rinnovamento della dimensione spirituale dell’uomo a livello planetario, in
senso ecumenico e trans-culturale. In questa direzione dobbiamo orientare i
nostri passi, coltivando fedeltà al reale, fiducia nell’essere umano e
nell’amore. E lungo la strada, cammin facendo, può capitarci di avvertire la
presenza di un altro viandante, Gesù di Nazareth, uno che non ha “verità prêt-à-porter” da suggerirci, né leggi
da dettarci, né liturgie da imporci, bensì con la sua presenza ci fa concretamente
dono della possibilità di un modo di vivere riassumibile nella formula: « “Abbi
fiducia nel Padre e renditi solidale con i fratelli”. Non è la risposta a tutti
i problemi della vita, ma è la chiave per affrontarli nella prospettiva vera».
Si può prendere o lasciare. Ma da soli, alla fine, non si va da nessuna parte.
La dimensione
personale dell’impegno. Stabiliti i criteri
valoriali fondamentali, l’autore prova a tradurli in suggerimenti pratici.
Anche in questo caso, socraticamente, egli si astiene dal trasformarli in
“dogmi”. Si tratta di indicazioni che ognuno proverà a sperimentare a modo suo,
a seconda delle inclinazioni personali e delle condizioni socio-ambientali in
cui si trova. Ecco, in sintesi, come si declina questa sorta di “tetrafarmaco”
per la cura di sé: 1) vigilanza
intellettuale, quella che gli stoici antichi chiamavano prosoché, ovvero sforzarsi di maturare –
soprattutto a scuola utinam! – una
disposizione pratica verso la riflessione, la rielaborazione critica delle
informazioni e delle idee, la creazione di uno “spazio interiore” in cui possa
scoccare, meraviglia, la scintilla della libertà; 2) fruizione della bellezza: educarsi alla bellezza, alla
placida-sconvolgente pratica dell’inutile,
del fine a se stesso, riscoprire l’arte della contemplazione (“teoresi”) attraverso il quotidiano
esercizio del leggere buoni libri, della degustazione di una mostra o di un
museo, dell’ascolto di un brano di musica classica, a parziale compensazione
dell’influsso operato dal pensiero dominante, superficialmente utilitarista,
economicista e tecnocratico; 3) sobrietà
e rispetto ecologico: prendere coscienza della naturale interrelazione di
tutto col tutto e trasformarla in comportamenti moralmente ed ecologicamente
sostenibili, dal risparmio di cibo ed acqua, all’uso di mezzi non inquinanti
per spostarsi, alla questione del corretto riciclaggio della spazzatura, ecc.;
4) dialogo, senza riserve: la più socratica
delle massime – dialogare, dialogare sempre dialogare (con gli altri, ma anche
con se stessi): ne abbiamo un bisogno quasi disperato in una società dove la
capacità di ascoltarsi vicendevolmente risulta sempre più compromessa, un
bisogno che dà quasi dolore fisico.
La dimensione
sociale dell’impegno. Dall’ambito personale a quello
sociale (ma già prendersi cura di sé rappresenta, in un certo senso, una forma
di impegno “sociale”), ovvero a quella del volontariato.
Non come partecipazione una tantum, a
tempo perso, per motivi fintamente filantropici a questa o quella iniziativa,
ma come impegno serio, costante, fattivo e critico, sia, se possibile, nella
dimensione locale, sia in quella nazionale e globale. Perché come ci ricorda
Antonio Gramsci «il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo
stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può
moltiplicarsi per un numero imponente di volte ed ottenere un cambiamento ben
più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile».
La dimensione
politica dell’impegno. Tralasciare la sfera dell’impegno
politico – nonostante si sia oggi ben lontani dalle condizioni “naturalmente politiche” in cui viveva
l’uomo greco – è impossibile. Del resto, come recita il noto adagio, “se non ti
occupi di politica, sarà comunque lei ad occuparsi di te”. Anche in questo caso
non esiste una ricetta precisa: già cercare di utilizzare correttamente i mezzi
istituzionali a nostra disposizione per controllare chi è preposto alla cura della
cosa pubblica è gran cosa. Importante è formarsi una coscienza politica sin da
giovani. Alla fine, però, politica significa militanza. Non si può far veramente politica senza schierarsi. A
condizione che la politica mantenga un “volto umano”, ovvero che non sia
separata dal retroterra intellettuale e morale dei suoi attori, ingenerando
contraddizioni, artefici e sofisticazioni che lo stesso Machiavelli guarderebbe
con estremo fastidio. Alcuni “mezzi”, ad esempio la “non-violenza”, non possono
essere, a nessun costo, oggetto di negoziazione: ne va dell’integrità della
persona che agisce e della comunità nel suo complesso. Con l’augurio che i
figli dei nostri figli possano crescere in un paese in cui “onestà” e
“furbizia”, “fattività” e “successo” non abbiano lo stesso – dolorosamente
contraddittorio – corso presso la pubblica opinione.
Vivere felici:
da dove parte, e dove arriva, la vera rivoluzione. In ultima istanza, il tema della “rivoluzione” e dell’
“impegno”, in termini pratico-filosofici ha come punto di partenza e punto
d’arrivo, circolarmente coincidente, quello della felicità, felicità
“desiderata”, felicità “disperata”, felicità realisticamente possibile. Ma
anche felicità scelta e praticata consapevolmente, almeno come conato,
tentativo che ogni giorno si rinnova nell’esperienza personale. La ricerca
della felicità in filosofia non può andar disgiunta dalla domanda intorno
all’uomo (chi sono?) e intorno al senso della vita (perché sono? da dove vengo,
dove vado?). Perciò la questione del viver felice non può esser correttamente
posta se non adottando quello spirito multi-prospettico e complessivo al
medesimo tempo (“complessivo” nel senso di capace di accostarsi alla totalità e
di coglierne la complessità armonica delle parti) che è e rimane peculiare
dell’indagine filosofica. Di fare filosofia, insomma, abbiamo bisogno, di questa
“rivoluzione”, sempre attuale proprio perché così “inattuale”. Questo è il
significato, in essenza, del libro di Cavadi. Significato che, come ho mostrato
sopra, nel suo caso non si limita a giacere supinamente sul piano libresco
dell’esercizio intellettuale – peraltro fondamentale – ma s’industria a
tradursi in modo di vivere, si fa appello, richiamo, che è al contempo seduttivo
ed irritante, perché attrae, convince, ma poi richiama all’ordine, alla durezza
della realtà, alla fatica dell’impegno quotidiano.
Alcuni compagni
di viaggio. Il libro si chiude con una
bibliografia commentata “autobiograficamente”. I “compagni di viaggio” sono le
letture con cui Cavadi ha “scritto” la sua storia personale, che lo hanno
spinto da giovane ad impegnarsi nello studio, nel volontariato, in politica,
che lo hanno sorretto nei momenti difficili, lo hanno ispirato quando il
richiamo di affetti e spiritualità si faceva insistente e finanche mordace.
Quest’ultimo capitoletto è un po’ una confessione, che, se possibile, rendere
ancor più prezioso il libro: “ho scritto di me, eccomi qua”. È un gesto di
parresìa.
Francesco Dipalo
Nessun commento:
Posta un commento