“Siciliajournal” 23.12.2014
LE VICENDE DI UN PRETE
AGRIGENTINO QUANDO IL PAPA NON SI CHIAMAVA FRANCESCO
Chi, come me, ha conosciuto di recente Damiano
Zambito, leggendo il suo volumetto Quando non c’era Papa Francesco. Storia di
un’esperienza religiosa in terra di Sicilia (Grauss, Napoli – Roma
2014, pp. 85, euro 10,00) scopre
con un po’ di sorpresa che il distinto professore in congedo per raggiunti
limiti d’età è stato, mezzo secolo prima, uno scatenato pretino che – chitarra
in mano – girava la diocesi di Agrigento per animare gruppi giovanili cattolici
e contagiare lo spirito innovatore del Concilio Vaticano II (1962 – 1965).
Come alcuni di noi si è illuso di poter contribuire, con la propria
conversione, alla conversione del pachiderma istituzionale che si è
autodenominato Chiesa “cattolica”: e perché di illusione si sia trattato il
lettore lo scopre proprio attraverso questa breve narrazione autobiografica.
Nel 1959 egli si iscrive alla Facoltà teologica di Napoli, nella sezione
San Luigi di Posillipo, gestita dai Padri Gesuiti. Per il seminarista
proveniente dal profondo Sud è quasi un choc
(benefico): “A fronte di un regolamento paramilitare vigente nel Seminario di
Agrigento, con prefetti, squadre che si muovevano da uno spazio
all’altro in fila e in silenzio, punizioni più o meno blande a seconda del
senso di equilibrio del caposquadra
di turno, passeggiate in periferia che iniziavano e terminavano in fila per due
e in silenzio, a Posillipo la struttura e l’organizzazione della vita
comunitaria concedevano ampi spazi di libertà e di responsabilità personale che
creavano le condizioni per una crescita umana assolutamente impensabile ad
Agrigento. Per esempio, ogni settimana eravamo sollecitati ad uscire in città,
per fare visite o acquisti o per organizzare attività sportive ed ogni mese
potevamo recarci per una giornata intera in una località a nostra scelta:
Sorrento, Capri, Pompei, Montevergine ecc.” (p. 44). Anche “il livello
culturale dell’insegnamento della teologia era notevolmente più elevato rispetto
ad Agrigento” e “il metodo di insegnamento era completamente diverso: veniva
dato molto spazio alle interpretazioni più recenti e demitizzanti della Bibbia
e ad una lettura di taglio esistenziale della teologia (pp. 44 - 45). Sono anni in cui il futuro don Damiano conosce le
esperienze di don Milani, frequenta il carcere minorile di Nisida, va
settimanalmente a Roma per pranzare e conversare con i vescovi brasiliani
partecipanti alle sessioni del Concilio ecumenico (sono i prelati che, invece
di arrivare uno ad uno su automobili private guidate dai propri autisti,
affittano un pullman per muoversi insieme, a costi minori, dalle modeste
residenze di suore dove sono albergati). E in quegli anni il giovane Zambito
matura un proposito che avrebbe contrassegnato le sue vicende successive: “Non
farò mai alcuna affermazione teologica che non abbia un chiaro riferimento alla
concreta vita dell’uomo” (p. 45).
Quando egli viene ordinato presbitero, la diocesi di Agrigento è
sostanzialmente la stessa dei tempi del vescovo Giovan Battista Peruzzo,
vittima a Santo Stefano Quisquina nel
1945 di un attentato di mafia, non per eroismo civico ma a causa di un
anticomunismo viscerale che gli “aveva fatto incontrare sulla sua strada
e, talora, stringendo alleanze con
politici spregiudicati e con mafiosi senza scrupoli” (p. 14). Perciò
l’attivismo del neo assistente diocesano dell’Azione cattolica giovanile non
può non suscitare i primi sospetti nell’entourage
del vescovo successivo, monsignor Giuseppe Petralia. Sospetti che diventano
sempre più precisi ogni qual volta si delinea uno scontro fra la vecchia
mentalità conservatrice e i nuovi stili liturgici: come digerire un prete che,
per consolare i ragazzi delle parrocchie più chiuse alle novità, gli
raccomanda: “Lasciate che il parroco si faccia i canti suoi, voi fatevi i canti
vostri” (p. 32)?
Il nodo più delicato è comunque il
rapporto fra l’unità ecclesiale (indiscutibile in questioni di fede) e l’unità
politica (che, secondo il vescovo dell’epoca, doveva realizzarsi all’interno
della Democrazia cristiana). Zambito riporta lettere allucinanti come la
circolare che un parroco di Castrofilippo indirizza a un giro di fedeli di cui
si fida, in occasione di una elezione amministrativa degli anni Settanta: “
Caro Salvatore I. e sposa, a nome di S. Antonio e mio personale ti chiedo il
favore di votare la lista ‘Statua della libertà’ in riconoscenza dei 15 milioni
fatti assegnare alla nostra Chiesa che dagli altri è stata sempre abbandonata.
Non negrami questo grande favore in questo momento e sii fedele a S. Antonio e
a me. Mostra con il tuo voto quanto ami la nostra chiesa e manitieni il segreto
di questa mia preghiera. Non me lo negare e mantieni il segreto di questa mia
preghiera. Grazie, saluti e benedizioni. Il
Parroco” (p. 72).
Ribellarsi a questo andazzo non è una mera questione di strategia
‘pastorale’. E’ piuttosto il campo di applicazione di una nuova visione etica
secondo la quale (proprio come per Gesù e le chiese dei primi secoli) il
“peccato” principale non è saltare una messa domenicale o toccarsi i genitali a
letto, quanto sfruttare il lavoro di un proprio fratello o tessere relazioni
corruttive dentro le istituzioni. La prospettiva etica, a sua volta, dipende da
una interpretazione più fedele dell’insegnamento originario: “la Buona Novella
annunziata ai poveri, agli ultimi, ai perseguitati, i quali sono beati perché
saranno i primi , non nell’altra vita, ma a cominciare da questa. A questo
obiettivo deve tendere l’impegno politico-sociale dei credenti, i quali devono
lottare perché ‘tra loro non ci siano più poveri ’ come
nella primitiva comunità cristiana” (p. 42).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
Nessun commento:
Posta un commento