Care e
cari,
grazie a tutti quelli di voi che mi
chiedono, in queste ore, come è andato il Convegno su “La dimensione spirituale
della vita nel Mediterraneo. Il sé e l’altro: identità e accoglienza” svoltosi
a Palermo dal 29 al 31 ottobre. Provo a socializzare un primo tentativo di
bilancio.
Il dato più facile da registrare è,
ovviamente, numerico: nelle cinque sessioni dalla sera del 29 alla sera del 31
ottobre abbiamo avuto una media di 70 – 80 persone (considerando le mattinate
in cui delle classi scolastiche hanno spostato l’asticella oltre il centinaio
di presenze e le sessioni pomeridiane in cui non si è mai andato al di sotto
delle 40-50 persone).
Più delicato, e articolato, il bilancio qualitativo. L’esordio è
stato davvero felice: Francesco Forgione (nella qualità di direttore generale
della Fondazione Federico II di Palermo, “braccio culturale” dell’Assemblea
regionale siciliana) non si è limitato a un saluto ‘formale’ ma ha tratteggiato
un affresco realistico e aggiornato della situazione socio-politica della
Sicilia nel contesto mediterraneo. Annamaria Amitrano ha, intelligentemente,
evitato di spendere i 45 minuti a disposizione di ogni relatore per descrivere
la religiosità popolare, preferendo piuttosto offrire alcuni strumenti
interpretativi elaborati dall’antropologia culturale e concentrarsi su un
aspetto ricorrente: la priorità della produzione simbolica “dal basso”
rispetto alle forme “alte” di religiosità (su cui per altro l’impronta
della prima non cessa di esercitare il proprio condizionamento). Alberto G.
Biuso ha poi esposto, con il sussidio di alcune riproduzioni fotografiche di
opere d’arte, una assai suggestiva apologia del “paganesimo”: a suo parere
l’idea di un panteismo, che riconosca nel politeismo il tentativo di nominare
in molti modi la dimensione sacra dell’essere, non è per nulla un reperto
archeologico ma vive nell’arte e in generale nella cultura contemporanea una
stagione tanto più felice quanto maggiori sono le difficoltà in cui si
dibattono le religioni
monoteistiche.
Nel medesimo orizzonte
immanentistico si è inserito la
mattina seguente, con grande forza comunicativa, Orlando Franceschelli: non in
nome di una metafisica, però, bensì sulla base della fiduciosa accettazione
delle acquisizioni scientifiche attuali (in particolare dell’evoluzionismo
cosmologico e biologico). Il suo “naturalismo”, lungi dall’essere riduttivo
rispetto alla ricchezza dell’umano, si auto-interpreta come capace di una
spiritualità caratterizzata dalla ricerca esperienziale di una sobria “felicità
possibile”.
Non meno elegante e
accattivante è stata la relazione-testimonianza del rabbino Pierpaolo Pinhas
Punturello che, con ammirata capacità di sintesi, ha esposto alcuni punti qualificanti
della spiritualità ebraica: una spiritualità del tutto mondana, incarnata, in
cui la consapevolezza di vivere al cospetto dell’Eterno porta non alla
svalutazione del temporale bensì alla sua massima valorizzazione. Davvero
illuminante, poi, il dialogo con alcuni presenti (per esempio a proposito
dell’ebraicità di Gesù di Nazareth che solo nella teologia cristiana
contemporanea viene, a fatica, riconosciuta e accettata in tutte le sue
sconvolgenti conseguenze).
Non c’è spiritualità senza confronto con la sofferenza fisica, col
dolore, con la morte. La sessione pomeridiana del secondo giorno è stata
incentrata proprio sul tema del male nell’esperienza umana. Patrizia Baldieri,
che ha esposto una relazione preparata seguendo accuratamente tutti gli aspetti
della tematica del convegno, ha illustrato la prospettiva buddhista,
preoccupandosi di sciogliere alcuni fraintendimenti (per esempio a proposito
della “vacuità” del “Sé” da intendere come rinunzia non alla propria
soggettività ma all’eccessivo attaccamento ad essa sino al punto da illudersi
che sia sottratta all’universale condizione di “impermanenza” di ciò che si dà
nel mondo). E’ sembrato che anche Luigi Vero Tarca - se sono stato in grado di decifrare il suo linguaggio filosoficamente
elaborato – abbia proposto una sorta di demistificazione del negativo: se,
infatti, sul piano fenomenico esso si impone inesorabilmente, ad una analisi
razionale più profonda esso sarebbe inammissibile. E’ la tesi di ogni monismo
ontologico (da Parmenide a Emanuele Severino): apparentemente il carnefice è il
negativo della vittima; in ultima analisi, carnefice e vittima sarebbero due
lati dell’unico Assoluto.
La mattina del terzo giorno si è
ritornati, con l’imam Yusuf Dispoto, dal monismo al mono-teismo: una
prospettiva che, lungi dall’identificare Assoluto e relativo, ne marca assai
decisamente l’abissale differenza. Dio è Dio (per gli islamici come per i
cristiani e prima ancora per gli ebrei) e la creatura è creatura: il Corano e
la vita esemplare del Profeta per eccellenza (Maometto) costituiscono la via
migliore che la creatura umana possa seguire per sintonizzarsi con il volere,
indiscutibilmente saggio, di Allah. Anche l’imam Dispoto, come la sera
precedente la psicoterapeuta Baldieri, aveva preparato una relazione accuratamente
aderente alle tematiche del convegno: ed è stato davvero motivo di rammarico
che entrambi abbiano deciso di trasmettere integralmente
i contenuti predisposti, e di farlo restando fedeli alla lettura del testo, rischiando di
appesantire l’uditorio eterogeneo
e, comunque, costituito in maggioranza da persone che si accostavano per la
prima volta a questo genere di problematiche. Per fortuna, là dove è rimasto un
po’ di tempo per lo scambio dialogico con il pubblico, la comunicazione con il
relatore si è vivacizzata, riuscendo a coinvolgere anche i più giovani.
Il registro della comunicazione diretta è
stato recuperato, in misura crescente sino a diventare quasi incantamento, con
le ultime tre relazioni. Pierpaolo Comolli ha proposto una intrigante lettura
sociologica del fenomeno religioso oggi: da una parte le antiche “narrazioni”
confessionali perdono di credibilità (e le chiese si svuotano); dall’altra,
proprio perché minacciate da questa perdita di credibilità e dalle tendenze
sincretistiche, le istituzioni religiose tradizionali tendono a marcare in
maniera più forte i propri contorni, enfatizzando le caratteristiche
identitarie e alzando mura difensive. Quanto al futuro, il relatore ha
auspicato una (improbabile) terza via tra il dissolvimento delle chiese
istituzionali e il loro irrigidimento fondamentalista: l’appartenenza ad una
tradizione comunitaria consapevole della propria relatività e, perciò,
sinceramente aperta a quanto di valido possa acquisire dall’interazione
dialogica con altre tradizioni comunitarie.
Il pastore valdese Ciccio Sciotto ha raccontato risorse e rischi di
questa contaminazione a partire dalle vicende recenti delle comunità
valdesi-metodiste dell’Italia meridionale il cui stile tendenzialmente
calvinista è stato significativamente modificato dall’inserimento di sempre più
numerosi membri di chiesa provenienti dal continente africano. Per le chiese
europee questo impatto dei migranti costituisce un appello molto forte, e molto
concreto, ad abbattere le frontiere culturali, prima ancora che legali,
riscoprendo l’originaria dimensione universalistica del movimento cristiano. Universale, in greco, sarebbe
“cattolico”: ed è a questo significato etimologico del vocabolo che si è
rifatto don Cosimo Scordato contrapponendolo al significato ordinario di
denominazione di una delle tante chiese cristiane (quella romana di lingua
latina). Vivere l’universalità
significa coniugare l’attenzione al qui-ed-ora del frammento senza perdere l’apertura
intenzionale all’intero: in concreto, accettazione dell’altro in quanto
portatore di qualcosa che, irrimediabilmente, mi manca. Questa accoglienza dell’altro sino alla
tendenziale identificazione con lui, non in quanto simile a noi ma proprio in quanto
altro, trova, per il credente, il prototipo nella fede trinitaria:
Dio si rivela identificandosi con l’uomo ridotto a uno straccio, dunque con
l’uomo nello stadio esistenziale quanto più estremamente lontano da Lui si
possa immaginare.
Il resoconto delle tre giornate sarebbe
imperdonabilmente lacunoso se si tacesse del breve, ma intenso, momento
artistico del secondo giorno in cui il gruppo “I mandolini dei Nebrodi” hanno
suonato e cantato alcuni toccanti brani della tradizione musicale mediterranea.
Come avevo anticipato
nella breve introduzione al convegno, il sogno che ho condiviso con alcuni
amici che mi sono stati vicini in questa avventura (soprattutto Giancarlo Lo
Curzio che si è sobbarcato la maggior parte delle incombenze diplomatiche e
burocratiche) sarebbe di rendere annuale l’appuntamento di queste giornate
delle spiritualità (al plurale) nel
Mediterraneo, per fare di Palermo il seme di un giardino delle sapienze: un
luogo, intendo, in cui - come in
uno dei mosaici delle nostre cattedrali – ogni tassello mantenga la propria
identità (depurata dalle scorie prodotte nel corso dei millenni) ma in vista di
un quadro d’insieme che solo dà senso ai singoli mattoncini.
Perché questa ipotesi di
avveri saranno necessarie varie condizioni: un numero meno esiguo di operatori
effettivamente impegnati nella preparazione dell'evento; un numero meno esiguo di enti finanziatori; soprattutto la stessa
generosa disponibilità dei relatori di quest’anno a partecipare a titolo
gratuito.
Ovviamente
l’esperienza effettuata suggerirà, inoltre, delle opportune modifiche in sede
di progettazione. Prima fra tutte una riduzione delle voci invitate (facendo in
modo, però, che nel corso di un triennio si abbia modo di ascoltarne almeno
tante quante se ne sono ascoltate quest’anno): in modo che ogni ospite abbia
più spazio per confrontarsi sia con l’uditorio sia, soprattutto, con gli altri
ospiti relatori (la cui presenza in sala nel corso di altre relazioni si è
mostrata, già da quest’anno, preziosa).
Augusto Cavadi
1 commento:
Ottima sintesi, caro Augusto: sintesi che permette anche a chi non c'era di "gustare" le nutrienti atmosfere del convegno.
Posta un commento