domenica 2 novembre 2014

Primo bilancio del Convegno sulle spiritualità nel Mediterraneo oggi


Care e  cari,

     grazie a tutti quelli di voi che mi chiedono, in queste ore, come è andato il Convegno su “La dimensione spirituale della vita nel Mediterraneo. Il sé e l’altro: identità e accoglienza” svoltosi a Palermo dal 29 al 31 ottobre. Provo a socializzare un primo tentativo di bilancio.
      Il dato più facile da registrare è, ovviamente,  numerico: nelle cinque sessioni dalla sera del 29 alla sera del 31 ottobre abbiamo avuto una media di 70 – 80 persone (considerando le mattinate in cui delle classi scolastiche hanno spostato l’asticella oltre il centinaio di presenze e le sessioni pomeridiane in cui non si è mai andato al di sotto delle 40-50 persone).
       Più delicato, e articolato, il bilancio qualitativo. L’esordio è stato davvero felice: Francesco Forgione (nella qualità di direttore generale della Fondazione Federico II di Palermo, “braccio culturale” dell’Assemblea regionale siciliana) non si è limitato a un saluto ‘formale’ ma ha tratteggiato un affresco realistico e aggiornato della situazione socio-politica della Sicilia nel contesto mediterraneo. Annamaria Amitrano ha, intelligentemente, evitato di spendere i 45 minuti a disposizione di ogni relatore per descrivere la religiosità popolare, preferendo piuttosto offrire alcuni strumenti interpretativi elaborati dall’antropologia culturale e concentrarsi su un aspetto ricorrente: la priorità della produzione  simbolica “dal basso”  rispetto alle forme “alte” di religiosità (su cui per altro l’impronta della prima non cessa di esercitare il proprio condizionamento). Alberto G. Biuso ha poi esposto, con il sussidio di alcune riproduzioni fotografiche di opere d’arte, una assai suggestiva apologia del “paganesimo”: a suo parere l’idea di un panteismo, che riconosca nel politeismo il tentativo di nominare in molti modi la dimensione sacra dell’essere, non è per nulla un reperto archeologico ma vive nell’arte e in generale nella cultura contemporanea una stagione tanto più felice quanto maggiori sono le difficoltà in cui si dibattono  le religioni monoteistiche.
        Nel medesimo orizzonte immanentistico  si è inserito la mattina seguente, con grande forza comunicativa, Orlando Franceschelli: non in nome di una metafisica, però, bensì sulla base della fiduciosa accettazione delle acquisizioni scientifiche attuali (in particolare dell’evoluzionismo cosmologico e biologico). Il suo “naturalismo”, lungi dall’essere riduttivo rispetto alla ricchezza dell’umano, si auto-interpreta come capace di una spiritualità caratterizzata dalla ricerca esperienziale di una sobria “felicità possibile”.
        Non meno elegante e accattivante è stata la relazione-testimonianza del rabbino Pierpaolo Pinhas Punturello che, con ammirata capacità di sintesi, ha esposto alcuni punti qualificanti della spiritualità ebraica: una spiritualità del tutto mondana, incarnata, in cui la consapevolezza di vivere al cospetto dell’Eterno porta non alla svalutazione del temporale bensì alla sua massima valorizzazione. Davvero illuminante, poi, il dialogo con alcuni presenti (per esempio a proposito dell’ebraicità di Gesù di Nazareth che solo nella teologia cristiana contemporanea viene, a fatica, riconosciuta e accettata in tutte le sue sconvolgenti conseguenze).
    Non c’è spiritualità senza confronto con la sofferenza fisica, col dolore, con la morte. La sessione pomeridiana del secondo giorno è stata incentrata proprio sul tema del male nell’esperienza umana. Patrizia Baldieri, che ha esposto una relazione preparata seguendo accuratamente tutti gli aspetti della tematica del convegno, ha illustrato la prospettiva buddhista, preoccupandosi di sciogliere alcuni fraintendimenti (per esempio a proposito della “vacuità” del “Sé” da intendere come rinunzia non alla propria soggettività ma all’eccessivo attaccamento ad essa sino al punto da illudersi che sia sottratta all’universale condizione di “impermanenza” di ciò che si dà nel mondo). E’ sembrato che anche Luigi Vero Tarca  - se sono stato in grado di decifrare il suo linguaggio filosoficamente elaborato – abbia proposto una sorta di demistificazione del negativo: se, infatti, sul piano fenomenico esso si impone inesorabilmente, ad una analisi razionale più profonda esso sarebbe inammissibile. E’ la tesi di ogni monismo ontologico (da Parmenide a Emanuele Severino): apparentemente il carnefice è il negativo della vittima; in ultima analisi, carnefice e vittima sarebbero due lati dell’unico Assoluto.
     La mattina del terzo giorno si è ritornati, con l’imam Yusuf Dispoto, dal monismo al mono-teismo: una prospettiva che, lungi dall’identificare Assoluto e relativo, ne marca assai decisamente l’abissale differenza. Dio è Dio (per gli islamici come per i cristiani e prima ancora per gli ebrei) e la creatura è creatura: il Corano e la vita esemplare del Profeta per eccellenza (Maometto) costituiscono la via migliore che la creatura umana possa seguire per sintonizzarsi con il volere, indiscutibilmente saggio, di Allah. Anche l’imam Dispoto, come la sera precedente la psicoterapeuta Baldieri, aveva preparato una relazione accuratamente aderente alle tematiche del convegno: ed è stato davvero motivo di rammarico che entrambi abbiano deciso di trasmettere integralmente i contenuti predisposti, e di farlo restando fedeli alla lettura del testo, rischiando di appesantire l’uditorio  eterogeneo e, comunque, costituito in maggioranza da persone che si accostavano per la prima volta a questo genere di problematiche. Per fortuna, là dove è rimasto un po’ di tempo per lo scambio dialogico con il pubblico, la comunicazione con il relatore si è vivacizzata, riuscendo a coinvolgere anche i più giovani.
     Il registro della comunicazione diretta è stato recuperato, in misura crescente sino a diventare quasi incantamento, con le ultime tre relazioni. Pierpaolo Comolli ha proposto una intrigante lettura sociologica del fenomeno religioso oggi: da una parte le antiche “narrazioni” confessionali perdono di credibilità (e le chiese si svuotano); dall’altra, proprio perché minacciate da questa perdita di credibilità e dalle tendenze sincretistiche, le istituzioni religiose tradizionali tendono a marcare in maniera più forte i propri contorni, enfatizzando le caratteristiche identitarie e alzando mura difensive. Quanto al futuro, il relatore ha auspicato una (improbabile) terza via tra il dissolvimento delle chiese istituzionali e il loro irrigidimento fondamentalista: l’appartenenza ad una tradizione comunitaria consapevole della propria relatività e, perciò, sinceramente aperta a quanto di valido possa acquisire dall’interazione dialogica con altre tradizioni comunitarie.
    Il pastore valdese Ciccio Sciotto ha raccontato risorse e rischi di questa contaminazione a partire dalle vicende recenti delle comunità valdesi-metodiste dell’Italia meridionale il cui stile tendenzialmente calvinista è stato significativamente modificato dall’inserimento di sempre più numerosi membri di chiesa provenienti dal continente africano. Per le chiese europee questo impatto dei migranti costituisce un appello molto forte, e molto concreto, ad abbattere le frontiere culturali, prima ancora che legali, riscoprendo l’originaria dimensione universalistica del movimento cristiano. Universale, in greco, sarebbe “cattolico”: ed è a questo significato etimologico del vocabolo che si è rifatto don Cosimo Scordato contrapponendolo al significato ordinario di denominazione di una delle tante chiese cristiane (quella romana di lingua latina).  Vivere l’universalità significa coniugare l’attenzione al qui-ed-ora del frammento senza perdere l’apertura intenzionale all’intero: in concreto, accettazione dell’altro in quanto portatore di qualcosa che, irrimediabilmente, mi manca.  Questa accoglienza dell’altro sino alla tendenziale identificazione con lui, non in quanto simile a noi ma proprio in quanto altro,  trova, per il credente, il prototipo nella fede trinitaria: Dio si rivela identificandosi con l’uomo ridotto a uno straccio, dunque con l’uomo nello stadio esistenziale quanto più estremamente lontano da Lui si possa immaginare.
     Il resoconto delle tre giornate sarebbe imperdonabilmente lacunoso se si tacesse del breve, ma intenso, momento artistico del secondo giorno in cui il gruppo “I mandolini dei Nebrodi” hanno suonato e cantato alcuni toccanti brani della tradizione musicale mediterranea.
        Come avevo anticipato nella breve introduzione al convegno, il sogno che ho condiviso con alcuni amici che mi sono stati vicini in questa avventura (soprattutto Giancarlo Lo Curzio che si è sobbarcato la maggior parte delle incombenze diplomatiche e burocratiche) sarebbe di rendere annuale l’appuntamento di queste giornate delle spiritualità (al plurale) nel Mediterraneo, per fare di Palermo il seme di un giardino delle sapienze: un luogo, intendo, in cui  - come in uno dei mosaici delle nostre cattedrali – ogni tassello mantenga la propria identità (depurata dalle scorie prodotte nel corso dei millenni) ma in vista di un quadro d’insieme che solo dà senso ai singoli mattoncini.
        Perché questa ipotesi di avveri saranno necessarie varie condizioni: un numero meno esiguo di operatori effettivamente impegnati nella preparazione dell'evento; un numero meno esiguo di enti finanziatori; soprattutto la stessa generosa disponibilità dei relatori di quest’anno a partecipare a titolo gratuito.
         Ovviamente l’esperienza effettuata suggerirà, inoltre, delle opportune modifiche in sede di progettazione. Prima fra tutte una riduzione delle voci invitate (facendo in modo, però, che nel corso di un triennio si abbia modo di ascoltarne almeno tante quante se ne sono ascoltate quest’anno): in modo che ogni ospite abbia più spazio per confrontarsi sia con l’uditorio sia, soprattutto, con gli altri ospiti relatori (la cui presenza in sala nel corso di altre relazioni si è mostrata, già da quest’anno, preziosa).

Augusto Cavadi

      

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Ottima sintesi, caro Augusto: sintesi che permette anche a chi non c'era di "gustare" le nutrienti atmosfere del convegno.