mercoledì 15 ottobre 2014

Dopo ventun anni, ancora una volta, memoria del picolo prete fra grandi boss


“Centonove” 10.10.2014

 

A 21 ANNI DAL MARTIRIO DEL PICCOLO PRETE FRA I BOSS

   Ancora una volta, il 15 settembre, la chiesa cattolica siciliana ha fatto memoria del martirio di don Giuseppe Puglisi, assassinato esattamente ventun anni fa. Un gruppo di studiosi, coordinato dall’infaticabile don Massimo Naro, ha voluto approfondire il significato etico e teologico di questa vicenda con un bel testo: Pino Puglisi per il vangelo.  La testimonianza cristiana di un martire siciliano (Sciascia, Caltanissetta – Roma 2014, pp. 107).
    Don Giuseppe Bellia ha ripreso, cercando nel Primo Testamento e in particolare nel libro di Isaia, la tematica del martirio alla luce della figura profetica e enigmatica del “servo sofferente”: che, in una lettura comprensiva, si riferisce sì a Gesù di Nazareth ma anche a quanti si impegnano per la verità e la giustizia. Giuseppe Anzalone invita, sulla scia di papa Francesco, ad adottare “la grammatica della tenerezza per leggere il caso serio di don Pino Puglisi”. Di indubbia originalità il contributo di Angelo Romano che, partendo dal progetto architettonico ideato dal parroco di Brancaccio per la costruzione della nuova parrocchia, risale alla sua idea di comunità cristiana come presenza forte e chiara nel territorio, in alternativa ad altre presenze, non meno forti ma non altrettanto limpide.
      Chiude il volume il corposo saggio di don Cosimo Scordato che, con la solita franchezza di toni, va alla radice degli eventi: “la mafia ha ‘rispettato’ la Chiesa nella misura in cui essa non ha messo in discussione il suo controllo del territorio e il prete si è fatto affiziu ru parrinu (l’ufficio del prete) tutto casa e chiesa, promotore di processioni: un prete che campa e fa campari. Ma don Pino è venuto allo scoperto, ha scelto di uscire dalla sagrestia e di vivere fino in fondo i problemi, i rischi, le speranze della sua gente; non sono fisime le sue, egli desidera, in quanto parroco, la liberazione e la promozione del suo popolo, accettando tutti i rischi di una scelta, che dovrà fare i conti con coloro che pretendono di avere un controllo indisturbato del territorio”.
       Ma se il succo della storia è questo, la memoria del piccolo prete non può che riuscire inquietante per i preti, anzi per i cristiani, anzi per i cittadini di oggi: quanti di noi sono disposti, nell’esercizio quotidiano dei propri compiti sociali e professionali, a pestare i piedi dei mafiosi e dei loro amici infiltrati nei gangli vitali della società siciliana? Non è piuttosto vincente, maggioritario, l’atteggiamento di chi, navigando a vista, si propone di evitare tanto l’infrazione del codice penale quanto la trasgressione di altri codici non scritti che soli garantiscono quieto vivere, favoritismi privati e in qualche caso fortune elettorali?

Augusto Cavadi

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