domenica 14 settembre 2014

In memoria di don Pino Puglisi: un articolo-recensione di Francesco Coniglione


“Foedus”, Rivista quadrimestrale, 2014,38



La mafia vista con gli occhi di un cristianesimo coerente.

L’esperienza di Pino Puglisi



di Francesco Coniglione






La recente beatificazione di don Pino Puglisi (nato il 15 settembre 1937 e morto il 15 settembre 1993), avvenuta il 25 maggio 2013 è stata l’occasione per riflettere sulla sua figura e sul significato della sua morte per mano della mafia. Anche l’elezione al soglio pontificio di papa Francesco di certo favorisce una attenzione meno diffidente per chi si impegna in prima linea sul fronte della giustizia sociale, a rischio della propria incolumità, e permette di porre imbarazzanti interrogativi per coscienze cristiane pronte a rivendicare la propria identità solo quando questa si converte in un asset politico che può far lucrare un certo numero di voti. Tale attenzione si è anche tradotta in un certo numero di volumi (per non parlare degli articoli) dedicati alla sua figura: ne ho contati 13 per il 2013 e 4 nel 2012.

Per sottolineare alcuni aspetti della sua figura e trarne qualche utile riflessione, trarrò spunto, però da uno solo di questi testi, soprattutto perché i suoi autori – tutti palermitani – ebbero modo di praticare don Puglisi, riuscendo a darne un ritratto diretto e meno mediato dalla letteratura secondaria che nel frattempo su di lui è cresciuta. Mi riferisco al testo di F. Palazzo, A. Cavadi e R. Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia (Di Girolamo, Trapani 2013), che presenta anche due interessanti interventi di F.M. Stabile, storico della chiesa siciliana e amico di don Puglisi sin dal seminario, incaricato di curare la documentazione per la sua beatificazione; e di Salvo Palazzolo, giornalista che si è trovato a fianco di don Puglisi negli anni giovanili nell’ambito della Federazione cattolica universitari italiani. Degli autori, Francesco Palazzo è stato parrocchiano di don Puglisi e quindi ben conosce il tessuto sociale e civile in cui esso operò; Augusto Cavadi ebbe modo di interloquire diverse volte con don Puglisi in quanto egli stesso impegnato in un Centro sociale in un altro difficile quartiere palermitano; infine, Rosaria Cascio è stata alunna del Beato e si è formata sotto la sua guida, conoscendo in modo diretto il “metodo” con cui egli operava nella parrocchia e nel sociale.

Non descriverò in modo analitico e continuo i contenuti del libro, ma cercherò di enuclearne i motivi che, a mio avviso, sono più significativi per inquadrare la figura di don Puglisi e al tempo stesso riflettere su cosa significhi lottare contro la mafia in una realtà quale quella siciliana e in particolare in una città, come Palermo, che ha visto già cadere sul campo altri illustri figure di uomini dell’ordine e di magistrati.





1. La solitudine e i silenzi della Chiesa



La prima cosa che balza all’attenzione è un tema che già altre volte è stato sottolineato e che costituisce la precondizione affinché la mafia possa operare in modo indisturbato e possa poi commettere i suoi crimini, eliminando le persone che non si sottomettono al suo imperio o col silenzio e l’ignavia oppure con una complicità più o meno diretta e partecipata: la solitudine. Lo ha ben espresso questo concetto colui sparò a don Puglisi, Salvatore Grigoli quando alla domanda dell’intervistatore se non sia stato quello un delitto annunciato, risponde: «Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo» (intervista su Famiglia Cristiana del 12-09-1999). Ma questa solitudine emerge in tante altre circostanze: nel mancato intervento del Cardinale Pappalardo al suo fianco durante la sua predicazione a Brancaccio, diversamente da come aveva invece fatto Dalla Chiesa - nelle parole di Pino Martinez - quando era comandante dei carabinieri in Sicilia, quando, sapute le minacce ricevute da un capitano dei carabinieri dal boss mafioso di Palma di Montechiaro, si recò immediatamente in loco e si mise a passeggiare ostentatamente con lui lungo la strada principale (Palazzo, pp. 24-5). E questa solitudine si evince anche dalla parole dell’amico Don Cosimo Scordato, quando lo avvertì: «Attento, Pino. Quelli hanno capito che tu sei quasi solo in parrocchia, nel quartiere. Devi fare un passo indietro per poterne fare due avanti: un passo indietro, il tempo di raccogliere attorno a te una comunità più numerosa e più motivata che possa farti da scudo, condividendo responsabilità e rischi» (Cavadi, p. 67). È anche quanto sottolinea Giampiero Tre Re in un saggio pubblicato nel 2009: «Puglisi rimase isolato e vulnerabile» (Cavadi, p. 81). Infine è la stessa diagnosi che fa il PM Lorenzo Matassa: «[…] io non ho mai accettato né condiviso la posizione della Chiesa palermitana, che ha lasciato solo padre Pino e poi non si è neppure costituita parte civile. Mentre Puglisi cercava di riportare il vangelo su un corpo malato col Centro “Padre Nostro” la Chiesa stava a guardare.» (Cavadi, p. 89).

Questo tema della solitudine è importante perché lascia capire un elemento di forza della mafia: la sua possibilità di operare in un contesto indifferente, pavido, dove le istituzioni cui appartengono i singoli individui e il complesso della società prendono le distanze da un modo di fare ritenuto “troppo pericoloso”, “imprudente”, che non si limita alla sola amministrazione delle coscienze. Non è una solitudine delle parole – perché quanto a queste anche i politici più illustremente mafiosi non sono parchi – ma quella più sottile e impalpabile dei gesti simbolici, degli atteggiamenti, dei modi d’essere che gli occhi della mafia sono in grado di leggere come un libro aperto e che hanno molto più peso di tante esplicite e roboanti nonché retoriche dichiarazioni. Il gesto di Dalla Chiesa è valso molto di più di una generica solidarietà espressa con qualche comunicato burocraticamente redatto.

E in questo frangente non può non essere notato il comportamento a lungo ambiguo e reticente (per usare le parole con prudenza diplomatica) della Chiesa in genere e di quella siciliana in particolare. La realtà della Chiesa viene ancora una volta esplicitata da Salvatore Grigoli: «Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni». Un residuo di questo atteggiamento è nel fatto che né la Curia, né la parrocchia né il Centro fondato da don Puglisi si sono costituite parte civile nel processo contro i suoi killer (Palazzo, p. 26). Non bisogna dimenticare infatti che vi fu un tempo in cui il cardinale Ernesto Ruffini, che ha ordinato sacerdote don Puglisi, sosteneva che «la cattiva fama della Sicilia non era dovuta alla mafia, bensì ai comunisti (sempre loro!), al sociologo Danilo Dolci e al romanzo di Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo» (Palazzo, p. 62). Vengono in mente le parole esilaranti ma tristemente vere messe in bocca all’avvocato mafioso che va a prelevare l’ingenuo Benigni all’aeroporto nel film Johnny Stecchino, quando si cimenta in una dotta elucidazione delle piaghe di Sicilia: «…una terribile – e lei sa a cosa mi riferisco: l’Etna, il vulcano, che quando si mette a fare capricci distrugge paesi e villaggi; ma è una bellezza naturale… Eh, ma c’è un’altra cosa e questa è veramente una piaga grave che nessuno riesce a risolvere, eh… Lei mi ha già capito, eh? È la siccità. Da queste parti la terra d’estate brucia e sicca: una brutta cosa … Ma è la natura e non ci possiamo fare nenti. Ma dove possiamo fare e non facciamo perché in buona sostanza, purtroppo, non è la natura ma l’uomo, dov’è? È nella terza e più grave di queste piaghe che veramente diffama la Sicilia e in particolare Palermo agli occhi del mondo, eh! lei ha già capito, è inutile che io gliela dica; mi vergogno a dirlo: è il traffico, troppe machine; è un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici famiglia contro famiglia. Troppe machine!». Chi ha buona memoria ricorderà che quasi fino a tutti gli anni ’70 v’erano settori dell’opinione pubblica che negavano l’esistenza del fenomeno mafioso in certe parti della Sicilia, ad es. nel catanese, in ciò incoraggiati da una pubblicistica e un’informazione lacunosa e compiacente, a volte anche solo per un malinteso campanilismo. Quanto ora avviene da parte di considerevoli forze politiche nel Nord Italia.

Uno squarcio di questo comportamento della Chiesa – della curia palermitana – è offerto da Cavadi, che riporta le significative parole di Tre Re: «“Pappalardo non avversò Puglisi né favorì i monsignori della Curia”, ma proprio questo suo equilibrismo diplomatico evidenzia “l’incompatibilità” tra “il modo d’essere nella Chiesa di Puglisi” e lo stile ecclesiale del suo Arcivescovo. Puglisi non era “normale” né rispetto alla media dei suoi confratelli presbiteri né rispetto al modello di prete che veniva sfornato dal Seminario» (Cavadi, p. 79). Ciò sembra in contrasto con quanto invece dice Stabile, per il quale Puglisi «visse questa stagione pastorale in piena concordanza con la linea della chiesa locale e italiana […]» (Stabile, p. 170), dando una immagine della chiesa e della curia palermitana pienamente impegnata nel rinnovamento post-conciliare e facente propri i problemi del territorio. Ciò lo si afferma anche successivamente, quando si dice che a partire dal ’70 e con il cardinale Pappalardo si prende chiara posizione contro la mafia, con i giovani preti che respingono la neutralità della chiesa; per cui Puglisi al Brancaccio è pienamente interno a tale processo (Stabile, p. 177). Sembra che in questa differenza di accenti stia tutta la distanza tra l’antimafia dichiarata e quella praticata, così come v’è tutto l’abisso che separa il cristianesimo incoerente da quello coerente di don Puglisi. In ogni caso se le cose stessero effettivamente come dice Stabile, sorgerebbe naturale la domanda: perché è stato ucciso don Puglisi e non altri? Un mero incidente? Una scelta effettuata al pallottoliere? Un caso fortuito, perché prima o poi qualcuno doveva cadere sul fronte di questa battaglia? Un mero esempio da dare alla Chiesa, per cui si è colpito uno a caso? Manca in questo quadro l’elemento caratterizzante – la differenza specifica – che fa di don Puglisi un prete diverso dagli altri e che può essere illustrata con un esempio del modo in cui di solito veniva intesa la Chiesa, cioè come territorio neutro.

Esso è dato dalla descrizione della parrocchia di San Gaetano (quella di don Puglisi a Brancaccio) quando suo parroco era don Ignazio Acquisto: «Nel cuore di un quartiere che, negli anni Settanta, si preparava alla seconda guerra di mafia – di cui sarebbe stato uno degli scenari più drammatici – la realtà parrocchiale costituiva un’oasi di tranquillità. Non si parlava di quanto avveniva sul territorio circostante (del resto pochi se ne occupavano tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta), ma si educavano i giovani a valori che sicuramente confliggevano con la cultura dell’illegalità: questa, almeno, è la mia ricostruzione da adulto. Padre Ignazio ci passava alcuni punti di riferimento, ma non ci diceva a cosa dovevamo contrapporli: spettava a noi trovare l’altra faccia della medaglia. Da ragazzi si viveva come un fatto normale questo sdoppiamento: il massimo di violenza nel territorio e il massimo di serenità non appena varcata la soglia della parrocchia o di casa. Da una parte Dio e, dall’altra, il mondo con le sue contraddizioni. Ma era uno sdoppiamento che, almeno a Brancaccio, o probabilmente in tutto il Meridione, non si viveva con un senso di oppressione» (Cascio, p. 146).

Qui cade a proposito una interessante notazione di Stabile, quando afferma che la religione a cui i mafiosi erano (sono) abituati può essere definita come municipale: il prete si limita «ad avallare il comune senso etico popolare e a salvaguardare la coralità della ritualità collettiva» (Stabile, p. 175), che si esprime nel culto del santo patrono e non nella appartenenza a una comunità di fede; per cui è possibile «una religiosità apparentemente segnata da simboli cristiani, ma nella sostanza senza cristianesimo» (ivi, p. 176): «si poteva essere anticlericali, massoni, mafiosi o anche atei, e nello stesso tempo sentirsi partecipi delle ritualità religiose collettive che erano segno di inclusione nella realtà municipale» (ib.), come canali di legittimazione e di consenso. Così i mafiosi «che non contestavano verità di fede, verso le quali erano totalmente indifferenti, mostravano però interesse per le manifestazioni religiose, che venivano strumentalizzate ai fini del riconoscimento sociale. Ritenevano infatti di poter conciliare la partecipazione alla ritualità religiosa con la cultura e la prassi antievangeliche della mafia perché non trovavano opposizione da parte della società locale né chiarificazione e denunzia da parte dello stesso mondo ecclesiastico» (Stabile, pp. 176-7). Cade a proposito un episodio de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia: quando il capitano Bellodi domanda a don Mariano Arena – il boss mafioso che stava arrestando – se bastasse andare in Chiesa e dare denaro agli orfanatrofi per sentirsi “religiosissimo”, come certi suoi amici sostengono egli sia; al che don Mariano risponde: “[…] la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio” (Il giorno della civetta, in Opere 1956-1971, Bompiani, vol. I, p. 469 – l’episodio è riportato anche nell’intervento di Stabile, pp. 176-7). Cosa distingue questa concezione municipale della religione dall’idea espressa da mons. Di Cristina che, per giustificare la non costituzione della Diocesi palermitana come parte civile nel processo contro gli assassini di Puglisi, ha sostenuto: «La Chiesa non si costituì parte civile al processo. Ma quel gesto non fu capito: la Chiesa deve essere madre di tutti» (p. 88)?





2. La strana normalità di don Puglisi



Diversamente dalla figura di don Giuè, il parroco che lo aveva preceduto a Brancaccio, don Puglisi non amava gli atteggiamenti eclatanti, non percorreva sentieri teologici eterodossi; agiva senza clamore, con pacatezza e addirittura rifiutava di essere chiamato “prete antimafia”. Sembrava per questo aspetto adeguarsi alle direttive del suo cardinale Pappalardo, per il quale non si è preti contro qualcuno, neppure contro i mafiosi (Cavadi, p. 87). Le sue stesse richieste e rimproveri alla classe politica sembravano volare basse: una scuola media, un distretto sanitario di base, un po’ di verde dove poter giocare e correre (Cavadi, p. 70). E tuttavia era il modo in cui faceva queste cose a dar fastidio alla mafia. Innanzi tutto per il suo rifiuto del modello incarnato nella intermediazione della politica clientelare: richiedere diritti e non favori è per essa una minaccia e viene a sottrarre terreno alla stessa criminalità mafiosa, in quanto una vita civile migliore significherebbe l’uscita dall’abbrutimento, dalla tirannia dei bisogni, dalla necessità di chiedere favori e trovare protezione. In effetti, uno stato che funziona non ha bisogno di intermediazione politica e/o mafiosa. E senza intermediazione, non c’è potere, quindi non c’è denaro, che deriva direttamente dalla gestione del potere. L’inefficienza e il degrado sono allora pienamente funzionali al mantenimento di un combinato di potere politico-affaristico-mafioso: il politico/mafioso ha bisogno di gente che gli chiedono favori; e la raccomandazione, il favore, la protezione non sono un “male necessario” per la gestione del potere, ma il prerequisito che assicura il mantenimento del potere, il suo potenziamento. Il mafioso o il politico che riesce a ottenere per un proprio protetto qualcosa di estremamente difficile e rischioso dimostra con ciò la sua potenza e quindi aumenta il proprio prestigio, il numero delle persone che si rivolgeranno a lui, il suo raggio di influenza. È l’effetto Caligola, che fece del proprio cavallo un senatore.

E così, sotto l’aspetto della normalità si nasconde il carattere eccezionale di don Puglisi: normale perché autenticamente prete, in quanto incarna le virtù cristiane nelle parole e nella pratica; eccezionale perché tale coerenza tra pensiero e azione non era facile da riscontrare nella Chiesa e nei suoi colleghi di quel periodo. In quanto “normale” egli opera come dovrebbe fare ogni prete, che agisce in positivo (come auspicava il cardinale Pappalardo); ma per ciò stesso combatte il negativo (e quindi va ben oltre il limite fissato dal suo superiore). Ecco perché ha rinunziato a dirsi “prete anti-mafia”, «in maniera ufficiale, pubblica, programmatica […]; ma non per questo è stato astrattamente neutrale, fintamente equidistante. Ha fatto il prete-prete; ha fatto il prete-cristiano; ha fatto il prete-cittadino leale di uno Stato repubblicano» (Cavadi, p. 89). In ciò consiste il suo metodo, come dice Cascio: «Per rendere il Vangelo carne viva, la sua vita era un circolo virtuoso per cui la preghiera si faceva azione e questa diventava, nella sua bellezza, preghiera: in termini concreti, un impegno complesso e oneroso, che non lasciava spazio a compromessi o tentennamenti» (Cascio, p. 99). E quando fu parroco a Godrano (un paesino vicino Palermo), «Egli stesso assume comportamenti credibili: predica l’umiltà e si mostra umile […]; parla di semplicità e di povertà e vive semplicemente e da povero» (Cascio, p. 105). In ciò sta la sua coerenza: «coerenza con il messaggio cristiano di cui era portatore in quanto sacerdote, coerenza con i valori che aveva incarnato e scelto di testimoniare, coerenza con i valori che aveva indicato a noi giovani come segni positivi di crescita ed eguaglianza con tutti» (Cascio, p. 114). È anche quanto fa a Brancaccio, proponendo una radicalità di vita cristiana a partire da sé stesso, in quanto parroco, solo perché così si è credibili. È questo il fulcro della sua “pastorale”: «l’essere riuscito ad avanzare con l’esemplarità una controproposta di “amore cristiano” alla gente di un territorio troppo permeato dalla cultura mafiosa. Egli è intimamente consapevole che il cambiamento ha bisogno di testimoni credibili: la cartina di tornasole della sua autenticità è stata la sua morte. Si è fatto interprete di una pastorale autentica che è capace di porre uno stile di vita alternativo a quello mafioso» (Cascio, p. 122). La mentalità mafiosa, la cultura e il modo di vita integrata ad essa collegato non si estirpa col muro contro muro – ovvero con la sola azione poliziesca e giudiziaria – ma «Occorre, invece, proporre un modello di vita differente, altro, alternativo, mostrando che è praticabile» (Cascio, p. 123). Si inverte il rapporto: non è il messaggio cristiano che deve diventare esperienza di vita, si tratta piuttosto, dice Puglisi, di «produrre esperienze che si fanno messaggio» (Stabile, p. 172).

Ma se l’autentico modo di intendere il cristianesimo è quello esemplato da don Puglisi, allora ne deriva un’amara conseguenza: che gran parte dei cristiani lo sono solo di nome, che sono cristiani “formulari”, perché recitano delle frasi rituali di fede e adempiono certi offici. Ma quando si tratta di trasformare il Vangelo in prassi – come ha fatto Puglisi – si dimenticano di esser cristiani. E allora la vera missione della Chiesa non è evangelizzare i non cristiani (i musulmani, i buddhisti ecc.), ma proprio i cristiani: la sua sfida e la sua frontiera è tutta interna, nel suo stesso corpo.

Tuttavia tutto ciò implica un modello di cristianesimo “eroico” al quale non tutti gli uomini, non tutti i fedeli sono disponibili ad accedere. Non bisogna infatti dimenticare che la grandezza della Chiesa è stata storicamente sempre la sua capacità di acconciarsi e tutti i caratteri, di dare un modello praticabile di vita per ciascun suo fedele, così come ha ben capito don Mariano nell’apologo prima citato. Inoltre è evidente un limite in don Puglisi e in tanti altri che si pongono con lui in sintonia: l’approccio coscienziale, per cui egli si rivolge alla coscienza dei mafiosi, li apostrofa direttamente. È il “mafiosi convertitevi!” che risuonò ad Agrigento nella bocca di Giovanni Paolo II. Sfugge alla presa la consapevolezza piena del fatto che quella mafiosa non è una deviazione della coscienza, un pervertimento dell’anima, la semplice espressione di una “mentalità mafiosa” (Cavadi, p. 73), ma una vera e propria cultura. Certo a volte si parla di “cultura mafiosa” (Cascio, p. 122), ma tale espressione riceve la sua piena pregnanza a condizione che non le si dia una accezione meramente “culturalistica”, di mentalità. Infatti, la “cultura mafiosa” si alimenta e vive in una comunità economico-sociale integrata, retta da regole morali e comportamentali che non sono le medesime della società “esterna”, che vengono disconosciute. Un esempio esemplare di tale comunità è quello descritto da Nicolai Lilin in Educazione siberiana, con la sua società dei “criminali onesti”. Lo aveva ben capito Peppino Impastato: «nella sua ottica, e nella sua prassi, tale sistema criminale andava combattuto non come mera organizzazione militare perché si trattava di un soggetto economico (sia pur parassitario), di un’agenzia pedagogica (sia pur veicolo di idee e valori deleteri), di una macchina elettorale (pronta a lavorare per i partiti più potenti e più permeabili allo scambio di favori)» (Cavadi, p. 75). È questo sistema integrato che a volte sfugge alla visione di don Puglisi o di coloro che ritengono sia innanzi tutto necessaria una “rivoluzione della coscienza” per poter combattere contro la mafia: se ci si ferma ad essa e nel contempo non vengono, in parallelo e con altrettanta decisione, messe in atto altre misure (poliziesche, giudiziarie, politiche e socio-economiche) si corre solo il rischio di interpretare (o fare interpretare) involontariamente la figura dell’eroe.





3. I perché di un assassinio



Ovviamente don Puglisi non è stato il primo prete ad essere stato assassinato per motivi legati alla sua missione e al modo in cui ha interpretato il proprio ruolo. Vengono indicati anche altri preti morti per mafia, i cui nomi sembrano ormai dimenticati (Palazzo, p. 134): Giorgio Gennaro, parroco di Ciaculli, assassinato il 16 gennaio 1916; Costantino Stella, accoltellato il 6 luglio 1919 a Resuttano; Stefano Caronia ucciso il 27 novembre 1920 a Gibellina. E se ne potrebbero citare ancora molti altri anche fuori dalla Sicilia, come don Peppe Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994. Per cui non è vero che con l’assassinio di Puglisi la mafia abbia per la prima volta “alzato il tiro” colpendo un membro del clero. Tuttavia con questo assassinio sembra che si sia segnato un punto di svolta, per cui nasce spontanea la domanda: cosa ha caratterizzato la sua figura al punto da essere il suo assassinio assurto a tale forte simbolicità? Certo, il quartiere e la città in cui esso è avvenuto, ma anche il fatto che la sua azione – pur non declamandolo – colpiva al cuore il sistema alla base di emarginazione e povertà. È quanto dice in sintesi il vescovo brasiliano Helder Camara: «Se aiuto i poveri, mi dicono che sono un bravo prete; se mi chiedo perché ci siano tanti poveri in giro, mi dicono che sono uno sporco comunista» (Cavadi, p. 69). Ovvero: il sistema non si mette in discussione in quanto tale, ma si devono solo aiutare le singole vittime di esso. È proprio questo che non fa don Puglisi, intendendo la parrocchia in modo diverso rispetto a quello tradizionale, con il “servizio sociale parrocchiale” inaugurato a Brancaccio, che si inserisce «in una metodologia più ampia di sollecitazione alla comunità a farsi carico di sé stessa attraverso la partecipazione diretta alla discussione e alle proposte operative sulle problematiche gravi: possiamo definirla, in una sola parola, autoprogettualità. Una scelta di metodo che si pone come alternativa all’unica forza operante a Brancaccio che è quella mafiosa» (Cascio, p. 120). Non quindi un’opera di carità tradizionale, come praticata dalla Caritas o dalla S. Vincenzo, delegate a questo dalle parrocchie: «[…] una carità passiva, fatta di aiuti materiali e/o economici, che gestiva i problemi a valle e non a monte. Non ci si occupava di rimuovere le cause che determinavano la condizione di indigenza, ma ci si limitava a risolvere il bisogno contingente. Ma, così, il povero rimaneva sempre povero, cristallizzato nella sua condizione» (Cascio, p. 119).

Affinché questo lavoro potesse essere effettuato era necessario abbattere le “pareti del Tempio”, a Brancaccio: «Seguendo i dettami del Concilio, padre Puglisi comprende che la comunità ecclesiale non deve rimanere chiusa in sé stessa ma deve aprirsi alle esigenze, alle attese e ai bisogni del mondo, diventando Verbo che si fa carne» (Cascio, p. 118). Ma non bisogna dimenticare che vi sono due modi di agire nel mondo e nella società: quello di don Puglisi fatto di ascolto e risposta alle esigenze; e quello di chi negli ultimi anni ha rigettato la mera dimensione privata e coscienziale della fede per affermarla come interventismo pubblico e politico, riconquista della società ai valori cristiani mediante l’amministrazione della cosa pubblica, la predisposizioni di leggi, la gestione di affari, in ciò facendosi scudo della “identità cristiana” e sventolando alla testa dell’esercito dei fedeli la bandiera dei “valori non negoziabili”. E invece don Puglisi, piuttosto che proporre metodi coercitivi di imposizione di modelli di vita alla società in quanto tale, pur non limitandosi alla testimonianza personale e a rendere credibile l’annunzio attraverso i modelli di vita dei credenti, si pone la necessità, tutta interna al corpo dei fedeli, di proporre una comunità ecclesiale riformata, edificando nel quartiere una «autentica comunità di fede», mediante la responsabilizzazione di tutti i cristiani nella parrocchia: «Il modello di comunità evangelica proposto da don Pino Puglisi era già in se stesso alternativo al modello mafioso imperante nel territorio. Si trattava di produrre nel quartiere, coerentemente con il Vangelo, non solo parole o riti, ma esperienze nuove di fede e di servizio ai fratelli più poveri» (Stabile, p. 174). Un modello di comunità evangelica che non si proponeva come autoritativa: questo era un altro aspetto del suo metodo: «nessuna ricetta, nessuna certezza» (Cascio, p. 114). E del resto, don Puglisi concepiva il concetto di vocazione come libera scelta: «nessuno spingerà il giovane verso strade precostituite, a diventare prete o suora. L’essenziale sarà diventare uomo, diventare donna» (Cascio, p. 111). Ovvero ciascuno deve occupare il posto che si sceglie nella società come una vocazione, con impegno pieno e responsabile. Per cui la vita in quanto tale è una vocazione, qualunque cosa si faccia.

In quanto detto e nel suo modo di fare v’è il motivo del suo assassinio da parte della mafia: «Il Vangelo incarnato nella storia di Brancaccio. Cristo come Salvatore degli oppressi. La mafia si sentì minacciata perché si rese conto che stava perdendo il controllo sociale del territorio e delle persone. Non un uomo eroe, non un sacerdote coraggioso fece paura alla mafia bensì il messaggio non violento e liberante del Vangelo» (Cascio, p. 123). Analogamente Stabile afferma che don Puglisi fu ucciso non perché avesse intaccato interessi della mafia o impedito i suoi traffici (ciò doveva esser fatto dallo stato con la magistratura), ma «perché era un prete che non rispondeva ai canoni del prete a cui era abituata la mafia. […] Il rischio più pericoloso che percepiva la mafia era che Puglisi, da prete, presentava una religione diversa da quella a cui i mafiosi erano abituati» (Stabile, p. 175); egli «scardinava dall’interno quel tessuto religioso tradizionale su cui erano potute allignare la cultura e la prassi falsamente devote della mafia: [i mafiosi] intuirono che quel prete radicalmente evangelico era un pericolo ancora più grande per loro di chi attaccava la mafia solo dal punto di vista della legalità e sul piano sociale, economico e politico. Era il fondamento religioso del consenso alla mafia che veniva intaccato» (Stabile, p. 178).  «L’odio quindi contro Puglisi era non contro un prete che si limitasse a svolgere un ministero dentro le pareti della chiesa e avallasse le forme tradizionali di religiosità che non intaccavano l’assetto sociale né il predominio mafioso; l’odio era, piuttosto, contro quel prete che, vivendo e agendo secondo il Vangelo e nello spirito del Concilio Vaticano II, innescava una fedeltà a Cristo antitetica alla cultura e alla prassi mafiose. La religione non serviva più come giustificazione del potere, ma era forza di liberazione totale dell’uomo. I fermenti evangelici che quel prete seminava erano capaci di vincere la paura e di scardinare dentro le coscienze la passiva sudditanza al dominio mafioso» (Stabile, p. 179).

Un accento diverso sui motivi del suo assassinio lo dà Palazzolo, per il quale il caso Puglisi resta ancora aperto, alla ricerca del motivo scatenante dopo tre anni di azione nel quartiere. Ma a suo avviso la motivazione di fondo consiste nel fatto di aver egli rivolto parole di speranza ai singoli mafiosi, pur condannando la mafia in quanto potere criminale: «Don Pino Puglisi fu il primo sacerdote a rivolgere parole di speranza agli uomini della mafia di Brancaccio. Fino ad allora, la Chiesa aveva solo condannato i boss, così come aveva fatto ogni altra istituzioni civile. Anche Puglisi continuava ad avere parole di fuoco per la mafia-struttura di peccato, ma aveva parole dolcissime nei confronti degli uomini del crimine. Quelle parole avevano già aperto il cuore di qualcuno a Brancaccio. Quelle parole stavano per causare una voragine dentro l’organizzazione criminale. […] Misericordia, perdono, accoglienza, amore. Le parole che hanno fatto paura alla mafia, che le hanno fatto temere che il suo regno di morte potesse vacillare. E che dicono del significato più profondo del martirio di Giuseppe Puglisi» (Palazzolo, pp. 184-5). In questo quadro si inserisce la sua lettera ai carcerati dell’Ucciardone, il suo andare nelle case dei mafiosi a parlare con le mogli e i figli.





4. Dopo la morte



È significativo il fatto che dopo il suo assassinio si sia operato il tentativo, in seno alla Chiesa, di depotenziare la sua morte da “martirio cristiano” a “vittima di mafia” col conseguente tentativo di procedere alla canonizzazione per le sole virtù teologali. Ecco perché il modo in cui è effettivamente avvenuta la sua canonizzazione è un “gesto di immane portata”, in quanto riconoscendolo come martire ucciso in odium fidei, e cioè in quanto cristiano, si vuole implicitamente affermare che non è possibile essere autenticamente cristiani senza testimoniarlo in concreto, anche nella lotta contro la mafia; significa affermare che «egli ha combattuto il dominio mafioso non solo da cittadino, ma in quanto cristiano e in quanto prete; possiamo asserire con ragionevole certezza che i mafiosi – più o meno consapevolmente – hanno ucciso don Puglisi, dunque, non nonostante o a prescindere da il suo esser prete, ma proprio perché tale. Egli ha smascherato una religione senza fede, un cristianesimo senza vangelo, un devozionismo sentimentale senza né giustizia né amore: ha strappato la maschera al Dio dei mafiosi, lasciandone denudare il volto di Tiranno crudele, Giudice impietoso, Padrino arbitrario. […] Se don Pino Puglisi è davvero martire della fede, allora nessun altro fedele – tanto meno se prete o religioso consacrato – può più legittimamente circoscrivere la sua testimonianza e il suo apostolato all’interno del tempio di pietra, restando indifferente alla povertà, alle ingiustizie, agli stupri, agli sfruttamenti, alle intimidazioni che si perpetrano nel proprio ambiente di vita […] Nessun cristiano può illudersi di dirsi tale facendo il prete o il magistrato, il giornalista o la guardia penitenziaria in maniera “normale”. […] Viceversa, se qualcuno mi odia e mi uccide perché la mia vita è, quasi in prolungamento con l’esistenza terrena del Cristo, servizio senza servilismo; fedeltà ai compiti e libertà dai committenti; difesa della dignità dei piccoli e delle donne; impegno per il riscatto di chi non ha le risorse per sollevarsi dalla miseria morale e materiale... allora io sono non soltanto un testimone dei valori umani più preziosi, ma – oggettivamente – anche un martire della fede nel vangelo» (Cavadi, pp. 81-5). È questo un passaggio, un riconoscimento che non può non mettere a disagio le coscienze di molti cristiani, che nella religione “municipale” o nelle pratiche devozionali ritengono esaurita la propria identità.

Manca ancora un passo, a nostro avviso: quello della scomunica dei mafiosi. Eppure in merito Cavadi afferma di voler rispondere come suppone avrebbe risposto Puglisi: «[…] non si tratta di scacciare i mafiosi dalle comunità cattoliche, bensì di rendere le comunità cattoliche talmente cristiane che i mafiosi non vogliano minimamente farne parte» (p. 92). Pur riconoscendo la validità di questa posizione, riteniamo però che qui il problema è non la partecipazione dei mafiosi alle comunità cattoliche – di certo i mafiosi non le frequentano in quanto tali, ma camuffandosi da fedeli, quali in effetti sono, e persino in buona fede – ma di stabilire un principio morale, anche di fronte alla società civile nel suo complesso: non si può esser mafiosi e al tempo stesso cristiani, così dissolvendo l’equivoco che per essere cristiani basta praticare le funzioni, esercitare la confessione e pentirsi, salvo poi a ritornare a fare quello che prima si faceva e così ripetere il ciclo. Insomma, occorre recidere del tutto i legami con quella “religione municipale”, con quella mentalità alla don Mariano Arena che ancora perdura in certi ambienti ecclesiali. La scomunica starebbe a significare interrompere tale circolo vizioso, dire che non si può esser mafiosi e poi accostarsi ai sacramenti, come se nulla fosse stato; significa non solo non essere accolto nelle comunità cattoliche, o in parrocchia, ma essere escluso del tutto dalla comunità cristiana, non potersi sposare in chiesa, non ricevere benedizioni, battesimi o cose di questo genere: e a tutto ciò il mafioso – che è quasi sempre un autentico credente – è sensibile, perché lo esporrebbe alla pubblica visibilità, alla dichiarazione esplicita del proprio stato. Si tratta di sottoporlo a una tensione, a una scelta tra due opzioni tra le quali deve decidere, senza la possibilità di mettere il piede in due scarpe. Ma questo necessita di quel cristianesimo “eroico” cui avevamo prima accennato. Sarà la Chiesa capace di fare questo ulteriore passo, portando con sé la gran massa dei fedeli, senza perderli per strada? È la sfida che ha posto don Puglisi e sta in ciò la validità del suo esempio e il perché valga la pena discuterne.

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