“Macugnaga”
Settembre 2014 – n. 95
LA DIALETTICA MOVIMENTI – PARTITI
Sull’ambivalenza della struttura partitica si è già detto, e scritto,
tutto. I partiti presìdi di democrazia e canali di partecipazione alla cosa
pubblica (almeno in linea di diritto); ma anche (in linea di fatto, spesso)
meccanismi clientelari ai danni degli esterni e barriere fra la base popolare e i vertici
istituzionali. Come salvare il
meglio del sistema partitico senza accettarne le degenerazioni partitocratiche?
L’età anagrafica (ho compiuto il diciottesimo anno nel 1968) e la provenienza
geografica (sono nato e ho sempre vissuto a Palermo) mi hanno consentito di
osservare da vicino, e in qualche caso di partecipare a, un tentativo di
rimedio: la creazione di movimenti politici alternativi ai partiti
tradizionali. Dopo gli anni del movimentismo a sinistra del PCI, anche il mondo
cattolico ha provato a pungolare la Balena bianca con il Movimento popolare
collegato a “Comunione e liberazione”
(Milano) e con “Una città per l’uomo” (Palermo). Negli anni Ottanta è
stata la volta della “Rete” trasversale di Leoluca Orlando in contemporanea con
il movimento dei Verdi. Di questi mesi, infine, è l’esperienza straordinaria,
imprevedibile, del Movimento Cinque Stelle.
Il rimedio (movimento-tafàno
pungolo del partito-pachiderma) funziona? Sì, ma solo a certe condizioni. Sì perché il movimento suggerisce
idee, stimola aggiornamenti, ruba la scena massmediatica, minaccia di togliere
consensi elettorali, propone volti inediti. Che cosa sarebbe stata la storia
italiana, anzi occidentale, senza il movimento studentesco, il movimento
femminista, il movimento ambientalista?
A un determinato momento succede che le
tematiche portate avanti originariamente da un movimento diventano patrimonio
comune di uno schieramento molto più vasto di associazioni e di partiti. A
questo punto si profila un bivio. O i promotori del movimento si ritengono
soddisfatti dei risultati raggiunti e rompono le righe, tornano nel privato,
smettono di pungolare i partiti. Oppure essi giudicano la ricezione delle proprie tematiche, da parte di
altre organizzazioni, parziale, sfocata, deludente; e decidono di configurarsi
come partiti essi stessi. E’ un altro modo di rinunziare alla funzione
originaria di stimoli esterni ai partiti. In entrambe le ipotesi, insomma,
vengono meno le condizioni di una proficua dialettica fra movimenti e partiti.
Sul piano dei ragionamenti teorici
non vedrei nessuna difficoltà a che un movimento, trasformatosi in partito, diventasse
per così dire in prima persona un efficace operatore delle proprie tematiche:
ma l’esperienza storica degli ultimi decenni mi pare che abbia falsificato
questa teoria. Il Movimento popolare di CL, Una città per l’uomo, la Rete, i
Verdi - diventando partiti – si
sono comportati un po’ peggio dei partiti in rapporto ai quali si erano posti
dialetticamente: spontaneismo, disorganizzazione, conflittualità perenne,
leaderismo, incompetenza tecnica…sono tutte caratteristiche che si sono
riscontrare, isolatamente o insieme, nei movimenti partiticizzatisi. Il Movimento Cinque Stelle ha sinora evitato
alcune di queste derive, ma al prezzo di stroncare (con mezzi democratici talora anche nella
sostanza, più spesso solo nella forma) ogni accenno di dissenso dalla “linea”
dettata via internet dai due “guru” fondatori.
Se questo racconto è veridico, che prospettive restano? Ovviamente non
ci sono ricette facili. La direzione su cui provare a riflettere, e soprattutto
a sperimentare concretamente, mi parrebbe la progressiva istituzionalizzazione
della dialettica fra movimenti e partiti. Intendo il superamento di modalità
occasionali o polemiche in nome di una reciproca complementarietà. Ipotizzerei,
ad esempio, assemblee annuali in cui un movimento che intende restare tale (in
nome della pace o della nonviolenza o dell’antimafia) inviti ufficialmente esponenti di tutti i partiti per offrire indicazioni programmatiche; e,
viceversa, congressi in cui un partito inviti ufficialmente gli esponenti di
tutti quei movimenti seri, informati, che possano offrirgli contributi di idee
e di esperienza. Da questi scambi annuali potrebbero scaturire gruppi di lavoro
un po’ più estesi nel tempo sino al raggiungimento di un obiettivo concordato
(un disegno di legge, una battaglia parlamentare, una campagna di
sensibilizzazione affinché il governo in carica faccia effettivamente
rispettare delle norme disattese etc.).
Perché un equilibrio del genere possa instaurarsi e perpetuarsi sono
necessarie alcune condizioni. Prima fra le quali: che transitare dal mondo del
movimentismo al mondo dei partiti non significhi passare dal volontariato
gratuito al professionismo iper-retribuito. Oggi diventare parlamentare per un
movimentista significa uscire da
una condizione di precarietà economica ed entrare, per tutta la vita, in una
condizione di privilegi. Sino a quando sarà così, il polo dei movimenti si
troverà in condizione di oggettiva debolezza rispetto al polo dei partiti.
Quando le modalità di finanziamento saranno le medesime per movimenti e partiti
(esclusivamente sulla base dell’elargizione facoltativa dei cittadini in sede
di dichiarazione dei redditi) - e
dunque essere un fautore della lotta contro la fame nel mondo non significherà
rinunziare ogni mese a una fetta del proprio salario né essere il più anonimo
dei peones in Parlamento significherà
quadruplicare il proprio reddito abituale – ognuno sarà più libero,
psicologicamente, di optare fra la militanza in un movimento o in un partito. E
sarà meno improbabile che un cittadino competente decida per l’una o per
l’altra collocazione in base a considerazioni oggettive, senza la tentazione di
risolvere una volta e per sempre le proprie preoccupazioni private.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Analisi a tutto tondo, le cui conclusioni condivido e sottoscrivo.
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