venerdì 12 settembre 2014

Ellul, Latouche e la crisi contemporanea


“Centonove” 5.9.2014

CRISI, MEGLIO GOVERNARE LA MODERNITA’

      Serge Latouche è noto in Europa come il teorico della “decrescita”. Raramente un vocabolo è stato tanto incompreso ed equivocato: da qui il ricorso ad aggettivi (in Italia Maurizio Pallante si è fatto promotore della “decrescita felice”) o a formule equivalenti (“sobrietà felice” o “abbondanza frugale”). Indubbiamente fra gli esponenti di questa corrente di pensiero filosofico ed economico non mancano le differenze di accento (né qua o là certi passaggi opinabili), ma il senso complessivo è chiaro: non si tratta di andare indietro verso il pre-moderno quanto di governare la modernità in modo da evitare che si capovolga, dialetticamente, da opportunità per l’umanità in boomerang disastroso. Che questo implichi delle rinunzie è indubbio: fondamentalmente la rinunzia a fare tutto ciò che la tecnica ci mette in grado di fare.  La questione è – si potrebbe dire con gli epicurei – se si tratta di rinunzie sterili o, piuttosto,  funzionali a guadagni di lunga durata e per tutti quanti. Per comprendere meglio la posta in gioco Serge Latouche ha pensato di aprire, con una nota casa editrice milanese, una Collana di volumetti dedicati a “I precursori della decrescita” ed egli stesso ne ha curato  il primo: Jacques  Ellul. Contro il totalitarismo tecnico (Jaca Book, Milano 2014, pp. 95, euro 9,00).
        Di Ellul (deceduto nel 1994) conoscevo, grazie a testi occasionali,  poco più del nome: grazie a questa preziosa monografia-antologia ne ho appreso alcune tematiche caratteristiche.  Una prima riguarda la critica della “crescita a ogni costo”, della crescita demografica, agricola, industriale in progressione geometrica: “Conosciamo tutti, e in tutti i campi, l’ossessione della crescita. La crescita è buona in sé. Non ci si chiede né: crescita di cosa? Né: la crescita è utile? Né: a chi servirà la crescita? E nemmeno: cosa faremo di tutte queste eccedenze? Nessun tornaconto (ecco il segno dell’assurdità), la crescita si giustifica da sé”.
      Una seconda tematica riguarda la “riduzione del tempo di lavoro”. Al di là delle motivazioni socio-economiche, Ellul è più attento ai risvolti antropologici. Innanzitutto ai vantaggi di una “riduzione massiccia del tempo di lavoro” conseguente ad una “nuova ripartizione del lavoro” (rispetto alla situazione attuale in cui ci sono soggetti oberati dalla fatica e soggetti languenti nella inoccupazione): “Per appagare la propria solitudine, l’uomo moderno ha bisogno di relazioni umane autentiche, di attività ludiche, di contatti personali al di fuori del mondo del lavoro. Bisogna  uscire dal circolo infernale consumo- produzione, anche se ciò dovesse sconvolgere le nostre abitudini quotidiane e  ridurre il nostro tenore di vita”. In una società in cui, per scelta o per necessità, si dedicherà meno tempo al lavoro, alla produzione, al commercio, saremo come denudati. Privi di molti alibi ed orpelli,
“saremo obbligati a porre questioni fondamentali: quelle del senso della vita e di una nuova cultura, quella di un’organizzazione che non sia né rigida né anarchica, l’aprirsi di un campo di nuova creatività”. Esposti alla noia, al vuoto, allo spreco del proprio tempo liberato, saremo però anche messi di fronte alla verità essenziale del nostro esistere: “L’essere umano ha bisogno di interessarsi a qualcosa, ed è  per mancanza d’interesse che moriamo oggi”.

          
             Una terza tematica la espone Ellul stesso in poche, illuminanti righe: “ L’ideologia della felicità esige un crescente consumo di benessere attraverso l’approntamento del terreno favorevole allo sbocciare di nuovi
                  bisogni […]. Ma più aumenta il consumo, più forte deve essere
                  l’ideologia della felicità per colmare in tale ciclo il vuoto
                  dell’assurdità. Senza benessere la felicità sembra vana e
                  illusoria, priva di tutti gli strumenti di realizzazione. La via
                  per giungere alla felicità è quella del benessere, e solo quella.
                  A poco a poco, poi, il benessere ha assunto un’importanza tale
                  che si è tentato di minimizzare la portata della felicità; concetto
                   fluido, incerto, complesso e comportante il permanere di un
                   inopportuno soggettivismo e di un sentimento romantico. Sociologi
                   ed economisti attuali preferiscono di gran lunga avere a che fare
                   con il benessere (livello di vita, stile di vita ecc.) suscettibile di
                    essere più agevolmente delimitato, analizzato, calcolato esattamente.

                                 Con la formula “la colonizzazione dell’immaginario da parte della tecnica e la tossicodipendenza da consumo”Latouche denota, e condensa, una quarta tematica ricorrente negli scritti di Jacques Ellul, “l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto”( J. – L. Porquet).  Di che si tratta? Di denunziare, ovviamente, non la tecnica né quei suoi prodotti che effettivamente migliorano la qualità della nostra vita, bensì la superstizione fideistica sui benefici automatici e inequivoci di qualsiasi invenzione tecnica e la cecità di fronte alle contropartite negative di certe innovazioni:

                            Abbiamo così sempre più possibilità di vivere, viviamo
                   più a lungo, ma viviamo una vita più limitata e non abbiamo
                    più la stessa forza vitale. Siamo sempre obbligati a compensare
                     nuove deficienze”.       

    Su ogni questione affrontata da Ellul non sono mancate, come è facile supporre, riserve e critiche. Le sue posizioni, come quelle di tanti altri studiosi e operatori sociali dell’area, sono soggette al rischio di forzature unilaterali che  - in un’altra sede – sarebbe inevitabile esaminare. Essi devono vincere una difficile scommessa: per riprendere parzialmente il titolo di un saggio di Jean-Paul Besset, “salvarsi dal progresso senza essere reazionari”.
                                 
Augusto Cavadi

2 commenti:

Christine Reddet ha detto...

Alla fine dell' '800, il pensiero degli scrittori europei (Émile Zola, Tchekhov, Verga....) era : quando tutti raggiungeranno il benessere materiale, uscendo da questa miseria squallida vissuta e subita dalla maggioranza dei cittadini europei, tutti raggiungeranno la felicità perché avranno il tempo libero per essere liberi di fare cio che vogliono oppure avere passioni.
In Francia: le 35 ore di lavoro danno la possibilità di farlo.
Intanto quelli che lavorano 35 ore per settimana, cioé 4 giorni alla settimana, non sono felici perché :
1) fanno il lavoro di due persone durante 35 ore e la ditta non assume un'altra persona;
2) il venerdi é dunque un giorno di libertà .
Tutti sono insoddisfatti.
La vita interiore, le passioni sono un regalo, un dono divino, una ricchezza
ricevuta o coltivata. Non siamo uguali.
L'esperienza dei Kiboutz in Israele ha funzionato con la generazione che ha vissuto i traumi della seconda guerra mondiale, oggi Israele é diventato un paese sazio dunque la cultura ( "la ricchezza invisibile") é sparita.
Se Tchekhov fosse vivo, sarebbe stupito e scriverebbe come Samuel Beckett sulla squallore della natura umana senza uscita, su un funzionamento chiuso e mai sazio. Colmare il vuoto a tutti i costi: sarebbe l'essenza della natura umana? Colmare il vuoto, sessualmente, o con le parole, o con le armi, o con il nulla, o con il cibo...

Anonimo ha detto...

una volta che la pancia è piena e si è ben dormito in un letto accogliente - grazie ad un lavoro che garantisce questo a livello individuale e il mantenimento di strutture efficienti a livello comunitario (ospedali, scuole, comunicazioni, luoghi di ritrovo, ecc.) - occorre organizzare una vita in società che permetta di addestrarsi, una buona volta, a vivere, a ben vivere (non a sopravvivere). quindi addestrarsi a guardare in faccia quel vuoto di cui parla Christine, a prendersi cura di lui senza metterlo alla porta (l'ospite inquietante di cui parla Heidegger) insieme. tutto il resto, a ben guardare, è un prodotto derivato.