“Foedus”, Rivista quadrimestrale, 2014,38
La mafia vista con gli occhi di un
cristianesimo coerente.
L’esperienza di Pino Puglisi
di Francesco Coniglione
La recente beatificazione di don Pino Puglisi (nato il 15
settembre 1937 e morto il 15 settembre 1993), avvenuta il 25 maggio 2013 è stata
l’occasione per riflettere sulla sua figura e sul significato della sua morte
per mano della mafia. Anche l’elezione al soglio pontificio di papa Francesco
di certo favorisce una attenzione meno diffidente per chi si impegna in prima
linea sul fronte della giustizia sociale, a rischio della propria incolumità, e
permette di porre imbarazzanti interrogativi per coscienze cristiane pronte a
rivendicare la propria identità solo quando questa si converte in un asset politico che può far lucrare un
certo numero di voti. Tale attenzione si è anche tradotta in un certo numero di
volumi (per non parlare degli articoli) dedicati alla sua figura: ne ho contati
13 per il 2013 e 4 nel 2012.
Per sottolineare alcuni aspetti della sua figura e trarne
qualche utile riflessione, trarrò spunto, però da uno solo di questi testi,
soprattutto perché i suoi autori – tutti palermitani – ebbero modo di praticare
don Puglisi, riuscendo a darne un ritratto diretto e meno mediato dalla
letteratura secondaria che nel frattempo su di lui è cresciuta. Mi riferisco al
testo di F. Palazzo, A. Cavadi e R. Cascio,
Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia (Di Girolamo,
Trapani 2013), che presenta anche due interessanti interventi di F.M. Stabile,
storico della chiesa siciliana e amico di don Puglisi sin dal seminario, incaricato
di curare la documentazione per la sua beatificazione; e di Salvo Palazzolo,
giornalista che si è trovato a fianco di don Puglisi negli anni giovanili
nell’ambito della Federazione cattolica universitari italiani. Degli autori,
Francesco Palazzo è stato parrocchiano di don Puglisi e quindi ben conosce il
tessuto sociale e civile in cui esso operò; Augusto Cavadi ebbe modo di interloquire
diverse volte con don Puglisi in quanto egli stesso impegnato in un Centro
sociale in un altro difficile quartiere palermitano; infine, Rosaria Cascio è
stata alunna del Beato e si è formata sotto la sua guida, conoscendo in modo
diretto il “metodo” con cui egli operava nella parrocchia e nel sociale.
Non descriverò in modo analitico e continuo i contenuti del
libro, ma cercherò di enuclearne i motivi che, a mio avviso, sono più
significativi per inquadrare la figura di don Puglisi e al tempo stesso
riflettere su cosa significhi lottare contro la mafia in una realtà quale
quella siciliana e in particolare in una città, come Palermo, che ha visto già
cadere sul campo altri illustri figure di uomini dell’ordine e di magistrati.
1.
La solitudine e i silenzi della Chiesa
La prima cosa che balza all’attenzione è un tema che già
altre volte è stato sottolineato e che costituisce la precondizione affinché la
mafia possa operare in modo indisturbato e possa poi commettere i suoi crimini,
eliminando le persone che non si sottomettono al suo imperio o col silenzio e
l’ignavia oppure con una complicità più o meno diretta e partecipata: la
solitudine. Lo ha ben espresso questo concetto colui sparò a don Puglisi,
Salvatore Grigoli quando alla domanda dell’intervistatore se non sia stato
quello un delitto annunciato, risponde: «Sì, anche perché lui rimase solo.
Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E
così successe quello che è successo» (intervista su Famiglia Cristiana del 12-09-1999). Ma questa solitudine emerge in
tante altre circostanze: nel mancato intervento del Cardinale Pappalardo al suo
fianco durante la sua predicazione a Brancaccio, diversamente da come aveva invece
fatto Dalla Chiesa - nelle parole di Pino Martinez - quando era comandante dei
carabinieri in Sicilia, quando, sapute le minacce ricevute da un capitano dei
carabinieri dal boss mafioso di Palma di Montechiaro, si recò immediatamente in
loco e si mise a passeggiare ostentatamente con lui lungo la strada principale
(Palazzo, pp. 24-5). E questa solitudine si evince anche dalla parole
dell’amico Don Cosimo Scordato, quando lo avvertì: «Attento, Pino. Quelli hanno
capito che tu sei quasi solo in parrocchia, nel quartiere. Devi fare un passo
indietro per poterne fare due avanti: un passo indietro, il tempo di
raccogliere attorno a te una comunità più numerosa e più motivata che possa
farti da scudo, condividendo responsabilità e rischi» (Cavadi, p. 67). È anche
quanto sottolinea Giampiero Tre Re in un saggio pubblicato nel 2009: «Puglisi
rimase isolato e vulnerabile» (Cavadi, p. 81). Infine è la stessa diagnosi che
fa il PM Lorenzo Matassa: «[…] io non ho mai accettato né condiviso la
posizione della Chiesa palermitana, che ha lasciato solo padre Pino e poi non si
è neppure costituita parte civile. Mentre Puglisi cercava di riportare il vangelo
su un corpo malato col Centro “Padre Nostro” la Chiesa stava a guardare.»
(Cavadi, p. 89).
Questo tema della solitudine è importante perché lascia
capire un elemento di forza della mafia: la sua possibilità di operare in un
contesto indifferente, pavido, dove le istituzioni cui appartengono i singoli
individui e il complesso della società prendono le distanze da un modo di fare ritenuto
“troppo pericoloso”, “imprudente”, che non si limita alla sola amministrazione
delle coscienze. Non è una solitudine delle parole – perché quanto a queste
anche i politici più illustremente mafiosi non sono parchi – ma quella più
sottile e impalpabile dei gesti simbolici, degli atteggiamenti, dei modi
d’essere che gli occhi della mafia sono in grado di leggere come un libro
aperto e che hanno molto più peso di tante esplicite e roboanti nonché
retoriche dichiarazioni. Il gesto di Dalla Chiesa è valso molto di più di una
generica solidarietà espressa con qualche comunicato burocraticamente redatto.
E in questo frangente non può non essere notato il
comportamento a lungo ambiguo e reticente (per usare le parole con prudenza
diplomatica) della Chiesa in genere e di quella siciliana in particolare. La
realtà della Chiesa viene ancora una volta esplicitata da Salvatore Grigoli: «Per
Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non
perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro.
Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni». Un residuo di questo
atteggiamento è nel fatto che né la Curia, né la parrocchia né il Centro
fondato da don Puglisi si sono costituite parte civile nel processo contro i
suoi killer (Palazzo, p. 26). Non bisogna dimenticare infatti che vi fu un
tempo in cui il cardinale Ernesto Ruffini, che ha ordinato sacerdote don
Puglisi, sosteneva che «la cattiva fama della Sicilia non era dovuta alla
mafia, bensì ai comunisti (sempre loro!), al sociologo Danilo Dolci e al
romanzo di Tomasi di Lampedusa Il
Gattopardo» (Palazzo, p. 62). Vengono in mente le parole esilaranti ma
tristemente vere messe in bocca all’avvocato mafioso che va a prelevare
l’ingenuo Benigni all’aeroporto nel film Johnny
Stecchino, quando si cimenta in una dotta elucidazione delle piaghe di
Sicilia: «…una terribile – e lei sa a cosa mi riferisco: l’Etna, il vulcano,
che quando si mette a fare capricci distrugge paesi e villaggi; ma è una
bellezza naturale… Eh, ma c’è un’altra cosa e questa è veramente una piaga
grave che nessuno riesce a risolvere, eh… Lei mi ha già capito, eh? È la
siccità. Da queste parti la terra d’estate brucia e sicca: una brutta cosa … Ma è la natura e non ci possiamo fare nenti. Ma dove possiamo fare e non facciamo
perché in buona sostanza, purtroppo, non è la natura ma l’uomo, dov’è? È nella
terza e più grave di queste piaghe che veramente diffama la Sicilia e in
particolare Palermo agli occhi del mondo, eh! lei ha già capito, è inutile che
io gliela dica; mi vergogno a dirlo: è il traffico, troppe machine; è un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di
vivere e ci fa nemici famiglia contro famiglia. Troppe machine!». Chi ha buona memoria ricorderà che quasi fino a tutti
gli anni ’70 v’erano settori dell’opinione pubblica che negavano l’esistenza
del fenomeno mafioso in certe parti della Sicilia, ad es. nel catanese, in ciò
incoraggiati da una pubblicistica e un’informazione lacunosa e compiacente, a
volte anche solo per un malinteso campanilismo. Quanto ora avviene da parte di
considerevoli forze politiche nel Nord Italia.
Uno squarcio di questo comportamento della Chiesa – della
curia palermitana – è offerto da Cavadi, che riporta le significative parole di
Tre Re: «“Pappalardo non avversò Puglisi né favorì i monsignori della
Curia”, ma proprio questo suo equilibrismo diplomatico evidenzia
“l’incompatibilità” tra “il modo d’essere nella Chiesa di Puglisi” e lo stile
ecclesiale del suo Arcivescovo. Puglisi non era “normale” né rispetto alla media
dei suoi confratelli presbiteri né rispetto al modello di prete che veniva
sfornato dal Seminario» (Cavadi, p. 79). Ciò sembra in contrasto con quanto invece
dice Stabile, per il quale Puglisi «visse questa stagione pastorale in piena
concordanza con la linea della chiesa locale e italiana […]» (Stabile, p. 170),
dando una immagine della chiesa e della curia palermitana pienamente impegnata
nel rinnovamento post-conciliare e facente propri i problemi del territorio. Ciò
lo si afferma anche successivamente, quando si dice che a partire dal ’70 e con
il cardinale Pappalardo si prende chiara posizione contro la mafia, con i
giovani preti che respingono la neutralità della chiesa; per cui Puglisi al
Brancaccio è pienamente interno a tale processo (Stabile, p. 177). Sembra che
in questa differenza di accenti stia tutta la distanza tra l’antimafia dichiarata e quella praticata, così come v’è tutto l’abisso che separa il cristianesimo
incoerente da quello coerente di don Puglisi. In ogni caso se
le cose stessero effettivamente come dice Stabile, sorgerebbe naturale la
domanda: perché è stato ucciso don Puglisi e non altri? Un mero incidente? Una
scelta effettuata al pallottoliere? Un caso fortuito, perché prima o poi
qualcuno doveva cadere sul fronte di questa battaglia? Un mero esempio da dare
alla Chiesa, per cui si è colpito uno a caso? Manca in questo quadro l’elemento
caratterizzante – la differenza specifica
– che fa di don Puglisi un prete diverso dagli altri e che può essere illustrata
con un esempio del modo in cui di solito veniva intesa la Chiesa, cioè come
territorio neutro.
Esso è dato dalla descrizione della parrocchia di San
Gaetano (quella di don Puglisi a Brancaccio) quando suo parroco era don Ignazio
Acquisto: «Nel cuore di un quartiere che, negli anni Settanta, si preparava
alla seconda guerra di mafia – di cui sarebbe stato uno degli scenari più
drammatici – la realtà parrocchiale costituiva un’oasi di tranquillità. Non si
parlava di quanto avveniva sul territorio circostante (del resto pochi se ne
occupavano tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta), ma si educavano i giovani
a valori che sicuramente confliggevano con la cultura dell’illegalità: questa,
almeno, è la mia ricostruzione da adulto. Padre Ignazio ci passava alcuni
punti di riferimento, ma non ci diceva a cosa dovevamo contrapporli: spettava a
noi trovare l’altra faccia della medaglia. Da ragazzi si viveva come un fatto
normale questo sdoppiamento: il massimo di violenza nel territorio e il massimo
di serenità non appena varcata la soglia della parrocchia o di casa. Da una
parte Dio e, dall’altra, il mondo con le sue contraddizioni. Ma era uno
sdoppiamento che, almeno a Brancaccio, o probabilmente in tutto il Meridione,
non si viveva con un senso di oppressione» (Cascio, p. 146).
Qui cade a proposito una interessante notazione di Stabile,
quando afferma che la religione a cui i mafiosi erano (sono) abituati può
essere definita come municipale: il
prete si limita «ad avallare il comune senso etico popolare e a salvaguardare
la coralità della ritualità collettiva» (Stabile, p. 175), che si esprime nel
culto del santo patrono e non nella appartenenza a una comunità di fede; per
cui è possibile «una religiosità apparentemente segnata da simboli cristiani,
ma nella sostanza senza cristianesimo» (ivi, p. 176): «si poteva essere
anticlericali, massoni, mafiosi o anche atei, e nello stesso tempo sentirsi
partecipi delle ritualità religiose collettive che erano segno di inclusione
nella realtà municipale» (ib.), come canali di legittimazione e di consenso.
Così i mafiosi «che non contestavano verità di fede, verso le quali erano
totalmente indifferenti, mostravano però interesse per le manifestazioni religiose,
che venivano strumentalizzate ai fini del riconoscimento sociale. Ritenevano
infatti di poter conciliare la partecipazione alla ritualità religiosa con la
cultura e la prassi antievangeliche della mafia perché non trovavano opposizione
da parte della società locale né chiarificazione e denunzia da parte dello
stesso mondo ecclesiastico» (Stabile, pp. 176-7). Cade a proposito un episodio
de Il giorno della civetta di
Leonardo Sciascia: quando il capitano Bellodi domanda a don Mariano Arena – il
boss mafioso che stava arrestando – se bastasse andare in Chiesa e dare denaro
agli orfanatrofi per sentirsi “religiosissimo”, come certi suoi amici
sostengono egli sia; al che don Mariano risponde: “[…] la Chiesa è grande
perché ognuno ci sta dentro a modo proprio” (Il giorno della civetta, in Opere
1956-1971, Bompiani, vol. I, p. 469 – l’episodio è riportato anche
nell’intervento di Stabile, pp. 176-7). Cosa
distingue questa concezione municipale della religione dall’idea espressa da
mons. Di Cristina che, per giustificare la non costituzione della Diocesi
palermitana come parte civile nel processo contro gli assassini di Puglisi, ha
sostenuto: «La Chiesa non si costituì parte civile al processo. Ma quel gesto
non fu capito: la Chiesa deve essere madre di tutti» (p. 88)?
2. La
strana normalità di don Puglisi
Diversamente dalla figura di don Giuè, il parroco che lo
aveva preceduto a Brancaccio, don Puglisi non amava gli atteggiamenti
eclatanti, non percorreva sentieri teologici eterodossi; agiva senza clamore,
con pacatezza e addirittura rifiutava di essere chiamato “prete antimafia”.
Sembrava per questo aspetto adeguarsi alle direttive del suo cardinale
Pappalardo, per il quale non si è preti contro
qualcuno, neppure contro i mafiosi (Cavadi, p. 87). Le sue stesse richieste e
rimproveri alla classe politica sembravano volare basse: una scuola media, un
distretto sanitario di base, un po’ di verde dove poter giocare e correre
(Cavadi, p. 70). E tuttavia era il modo
in cui faceva queste cose a dar fastidio alla mafia. Innanzi tutto per il suo
rifiuto del modello incarnato nella intermediazione della politica clientelare:
richiedere diritti e non favori è per essa una minaccia e viene a sottrarre
terreno alla stessa criminalità mafiosa, in quanto una vita civile migliore
significherebbe l’uscita dall’abbrutimento, dalla tirannia dei bisogni, dalla
necessità di chiedere favori e trovare protezione. In effetti, uno stato che
funziona non ha bisogno di intermediazione politica e/o mafiosa. E senza
intermediazione, non c’è potere, quindi non c’è denaro, che deriva direttamente
dalla gestione del potere. L’inefficienza e il degrado sono allora pienamente
funzionali al mantenimento di un combinato di potere
politico-affaristico-mafioso: il politico/mafioso ha bisogno di gente che gli chiedono favori; e la raccomandazione,
il favore, la protezione non sono un “male necessario” per la gestione del
potere, ma il prerequisito che assicura il mantenimento
del potere, il suo potenziamento. Il mafioso o il politico che riesce a
ottenere per un proprio protetto qualcosa di estremamente difficile e rischioso
dimostra con ciò la sua potenza e quindi aumenta il proprio prestigio, il
numero delle persone che si rivolgeranno a lui, il suo raggio di influenza. È
l’effetto Caligola, che fece del proprio cavallo un senatore.
E così, sotto l’aspetto della normalità si nasconde il
carattere eccezionale di don Puglisi: normale perché autenticamente prete, in
quanto incarna le virtù cristiane nelle parole e nella pratica; eccezionale
perché tale coerenza tra pensiero e azione non era facile da riscontrare nella
Chiesa e nei suoi colleghi di quel periodo. In quanto “normale” egli opera come
dovrebbe fare ogni prete, che agisce in positivo (come auspicava il cardinale
Pappalardo); ma per ciò stesso combatte il negativo (e quindi va ben oltre il
limite fissato dal suo superiore). Ecco perché ha rinunziato a dirsi “prete
anti-mafia”, «in maniera ufficiale, pubblica, programmatica […]; ma non
per questo è stato astrattamente neutrale, fintamente equidistante. Ha fatto il
prete-prete; ha fatto il prete-cristiano; ha fatto il prete-cittadino leale di
uno Stato repubblicano» (Cavadi, p. 89). In ciò consiste il suo metodo, come dice Cascio: «Per rendere
il Vangelo carne viva, la sua vita era un circolo virtuoso per cui la preghiera
si faceva azione e questa diventava, nella sua bellezza, preghiera: in termini
concreti, un impegno complesso e oneroso, che non lasciava spazio a compromessi
o tentennamenti» (Cascio, p. 99). E quando fu parroco a Godrano (un paesino
vicino Palermo), «Egli stesso assume comportamenti credibili: predica l’umiltà
e si mostra umile […]; parla di semplicità e di povertà e vive semplicemente e
da povero» (Cascio, p. 105). In ciò sta la sua coerenza: «coerenza con il messaggio cristiano di cui era portatore
in quanto sacerdote, coerenza con i valori che aveva incarnato e scelto di
testimoniare, coerenza con i valori che aveva indicato a noi giovani come segni
positivi di crescita ed eguaglianza con tutti» (Cascio, p. 114). È anche quanto
fa a Brancaccio, proponendo una radicalità
di vita cristiana a partire da sé stesso, in quanto parroco, solo perché
così si è credibili. È questo il fulcro della sua “pastorale”: «l’essere
riuscito ad avanzare con l’esemplarità una controproposta di “amore cristiano”
alla gente di un territorio troppo permeato dalla cultura mafiosa. Egli è
intimamente consapevole che il cambiamento ha bisogno di testimoni credibili:
la cartina di tornasole della sua autenticità è stata la sua morte. Si è
fatto interprete di una pastorale autentica che è capace di porre uno stile di
vita alternativo a quello mafioso» (Cascio, p. 122). La mentalità mafiosa, la
cultura e il modo di vita integrata ad essa collegato non si estirpa col muro
contro muro – ovvero con la sola azione poliziesca e giudiziaria – ma «Occorre,
invece, proporre un modello di vita differente, altro, alternativo, mostrando
che è praticabile» (Cascio, p. 123). Si inverte il rapporto: non è il
messaggio cristiano che deve diventare esperienza di vita, si tratta piuttosto,
dice Puglisi, di «produrre esperienze che si fanno messaggio» (Stabile, p.
172).
Ma se l’autentico modo di intendere il cristianesimo è
quello esemplato da don Puglisi, allora ne deriva un’amara conseguenza: che
gran parte dei cristiani lo sono solo di nome, che sono cristiani “formulari”,
perché recitano delle frasi rituali di fede e adempiono certi offici. Ma quando
si tratta di trasformare il Vangelo in prassi – come ha fatto Puglisi – si
dimenticano di esser cristiani. E allora la vera missione della Chiesa non è evangelizzare
i non cristiani (i musulmani, i buddhisti ecc.), ma proprio i cristiani: la sua
sfida e la sua frontiera è tutta interna, nel suo stesso corpo.
Tuttavia tutto ciò implica un modello di cristianesimo
“eroico” al quale non tutti gli uomini, non tutti i fedeli sono disponibili ad
accedere. Non bisogna infatti dimenticare che la grandezza della Chiesa è stata
storicamente sempre la sua capacità di acconciarsi e tutti i caratteri, di dare
un modello praticabile di vita per ciascun suo fedele, così come ha ben capito
don Mariano nell’apologo prima citato. Inoltre è evidente un limite in don Puglisi
e in tanti altri che si pongono con lui in sintonia: l’approccio coscienziale,
per cui egli si rivolge alla coscienza dei mafiosi, li apostrofa direttamente.
È il “mafiosi convertitevi!” che risuonò ad Agrigento nella bocca di Giovanni
Paolo II. Sfugge alla presa la consapevolezza piena del fatto che quella
mafiosa non è una deviazione della coscienza, un pervertimento dell’anima, la semplice
espressione di una “mentalità mafiosa” (Cavadi, p. 73), ma una vera e propria
cultura. Certo a volte si parla di “cultura mafiosa” (Cascio, p. 122), ma tale espressione
riceve la sua piena pregnanza a condizione che non le si dia una accezione
meramente “culturalistica”, di mentalità. Infatti, la “cultura mafiosa” si
alimenta e vive in una comunità economico-sociale integrata, retta da regole
morali e comportamentali che non sono le medesime della società “esterna”, che
vengono disconosciute. Un esempio esemplare di tale comunità è quello descritto
da Nicolai Lilin in Educazione siberiana,
con la sua società dei “criminali onesti”. Lo aveva ben capito Peppino
Impastato: «nella sua ottica, e nella sua prassi, tale sistema criminale andava
combattuto non come mera organizzazione militare perché si trattava di un
soggetto economico (sia pur parassitario), di un’agenzia pedagogica (sia pur
veicolo di idee e valori deleteri), di una macchina elettorale (pronta a
lavorare per i partiti più potenti e più permeabili allo scambio di favori)» (Cavadi,
p. 75). È questo sistema integrato
che a volte sfugge alla visione di don Puglisi o di coloro che ritengono sia
innanzi tutto necessaria una “rivoluzione della coscienza” per poter combattere
contro la mafia: se ci si ferma ad essa e nel contempo non vengono, in
parallelo e con altrettanta decisione, messe in atto altre misure (poliziesche,
giudiziarie, politiche e socio-economiche) si corre solo il rischio di interpretare
(o fare interpretare) involontariamente la figura dell’eroe.
3. I perché di un assassinio
Ovviamente don Puglisi non è stato il primo prete ad essere
stato assassinato per motivi legati alla sua missione e al modo in cui ha
interpretato il proprio ruolo. Vengono indicati anche altri preti morti per
mafia, i cui nomi sembrano ormai dimenticati (Palazzo, p. 134): Giorgio
Gennaro, parroco di Ciaculli, assassinato il 16 gennaio 1916; Costantino
Stella, accoltellato il 6 luglio 1919 a Resuttano; Stefano Caronia ucciso il 27
novembre 1920 a Gibellina. E se ne potrebbero citare ancora molti altri anche
fuori dalla Sicilia, come don Peppe Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo
1994. Per cui non è vero che con l’assassinio di Puglisi la mafia abbia per la
prima volta “alzato il tiro” colpendo un membro del clero. Tuttavia con questo
assassinio sembra che si sia segnato un punto di svolta, per cui nasce
spontanea la domanda: cosa ha caratterizzato la sua figura al punto da essere
il suo assassinio assurto a tale forte simbolicità? Certo, il quartiere e la
città in cui esso è avvenuto, ma anche il fatto che la sua azione – pur non
declamandolo – colpiva al cuore il sistema alla base di emarginazione e
povertà. È quanto dice in sintesi il vescovo brasiliano Helder Camara: «Se
aiuto i poveri, mi dicono che sono un bravo prete; se mi chiedo perché ci siano
tanti poveri in giro, mi dicono che sono uno sporco comunista» (Cavadi, p. 69).
Ovvero: il sistema non si mette in discussione in quanto tale, ma si devono
solo aiutare le singole vittime di esso. È proprio questo che non fa don Puglisi, intendendo la
parrocchia in modo diverso rispetto a quello tradizionale, con il “servizio
sociale parrocchiale” inaugurato a Brancaccio, che si inserisce «in una metodologia
più ampia di sollecitazione alla comunità a farsi carico di sé stessa attraverso
la partecipazione diretta alla discussione e alle proposte operative sulle
problematiche gravi: possiamo definirla, in una sola parola, autoprogettualità.
Una scelta di metodo che si pone come alternativa all’unica forza operante a
Brancaccio che è quella mafiosa» (Cascio, p. 120). Non quindi un’opera di
carità tradizionale, come praticata dalla Caritas o dalla S. Vincenzo, delegate
a questo dalle parrocchie: «[…] una carità passiva, fatta di aiuti materiali e/o
economici, che gestiva i problemi a valle e non a monte. Non ci si occupava di
rimuovere le cause che determinavano la condizione di indigenza, ma ci si
limitava a risolvere il bisogno contingente. Ma, così, il povero rimaneva
sempre povero, cristallizzato nella sua condizione» (Cascio, p. 119).
Affinché questo lavoro potesse essere effettuato era
necessario abbattere le “pareti del Tempio”, a Brancaccio: «Seguendo i dettami
del Concilio, padre Puglisi comprende che la comunità ecclesiale non deve rimanere
chiusa in sé stessa ma deve aprirsi alle esigenze, alle attese e ai bisogni
del mondo, diventando Verbo che si fa carne» (Cascio, p. 118). Ma non bisogna
dimenticare che vi sono due modi di agire nel mondo e nella società: quello di don
Puglisi fatto di ascolto e risposta alle esigenze; e quello di chi negli ultimi
anni ha rigettato la mera dimensione privata e coscienziale della fede per
affermarla come interventismo pubblico e politico, riconquista della società ai
valori cristiani mediante l’amministrazione della cosa pubblica, la predisposizioni
di leggi, la gestione di affari, in ciò facendosi scudo della “identità
cristiana” e sventolando alla testa dell’esercito dei fedeli la bandiera dei
“valori non negoziabili”. E invece don Puglisi, piuttosto che proporre metodi
coercitivi di imposizione di modelli di vita alla società in quanto tale, pur non
limitandosi alla testimonianza personale e a rendere credibile l’annunzio
attraverso i modelli di vita dei credenti, si pone la necessità, tutta interna
al corpo dei fedeli, di proporre una comunità ecclesiale riformata, edificando
nel quartiere una «autentica comunità di fede», mediante la
responsabilizzazione di tutti i cristiani nella parrocchia: «Il modello di comunità evangelica proposto da don Pino Puglisi era
già in se stesso alternativo al modello mafioso imperante nel territorio. Si
trattava di produrre nel quartiere, coerentemente con il Vangelo, non solo
parole o riti, ma esperienze nuove di fede e di servizio ai fratelli più
poveri» (Stabile, p. 174). Un modello di comunità
evangelica che non si proponeva come autoritativa: questo era un altro
aspetto del suo metodo: «nessuna ricetta, nessuna certezza» (Cascio, p. 114). E
del resto, don Puglisi concepiva il concetto di vocazione come libera scelta: «nessuno
spingerà il giovane verso strade precostituite, a diventare prete o suora.
L’essenziale sarà diventare uomo, diventare donna» (Cascio, p. 111). Ovvero
ciascuno deve occupare il posto che si sceglie nella società come una
vocazione, con impegno pieno e responsabile. Per cui la vita in quanto tale è
una vocazione, qualunque cosa si faccia.
In quanto detto e nel suo modo di fare v’è il motivo del suo
assassinio da parte della mafia: «Il Vangelo incarnato nella storia di
Brancaccio. Cristo come Salvatore degli oppressi. La mafia si sentì minacciata
perché si rese conto che stava perdendo il controllo sociale del territorio e
delle persone. Non un uomo eroe, non un sacerdote coraggioso fece paura alla
mafia bensì il messaggio non violento e liberante del Vangelo» (Cascio, p. 123).
Analogamente Stabile afferma che don Puglisi fu ucciso non perché avesse
intaccato interessi della mafia o impedito i suoi traffici (ciò doveva esser
fatto dallo stato con la magistratura), ma «perché era un prete che non
rispondeva ai canoni del prete a cui era abituata la mafia. […] Il rischio più
pericoloso che percepiva la mafia era che Puglisi, da prete, presentava una
religione diversa da quella a cui i mafiosi erano abituati» (Stabile, p. 175);
egli «scardinava dall’interno quel tessuto religioso tradizionale su cui erano
potute allignare la cultura e la prassi falsamente devote della mafia: [i
mafiosi] intuirono che quel prete radicalmente evangelico era un pericolo
ancora più grande per loro di chi attaccava la mafia solo dal punto di vista
della legalità e sul piano sociale, economico e politico. Era il fondamento
religioso del consenso alla mafia che veniva intaccato» (Stabile, p. 178). «L’odio quindi contro Puglisi era non
contro un prete che si limitasse a
svolgere un ministero dentro le pareti della chiesa e avallasse le forme
tradizionali di religiosità che non intaccavano l’assetto sociale né il
predominio mafioso; l’odio era, piuttosto, contro quel prete che, vivendo e agendo secondo il Vangelo e nello spirito
del Concilio Vaticano II, innescava una fedeltà a Cristo antitetica alla cultura
e alla prassi mafiose. La religione non serviva più come giustificazione del
potere, ma era forza di liberazione totale dell’uomo. I fermenti evangelici che
quel prete seminava erano capaci di vincere la paura e di scardinare dentro le
coscienze la passiva sudditanza al dominio mafioso» (Stabile, p. 179).
Un accento diverso sui motivi del suo assassinio lo dà Palazzolo,
per il quale il caso Puglisi resta ancora aperto, alla ricerca del motivo
scatenante dopo tre anni di azione nel quartiere. Ma a suo avviso la motivazione
di fondo consiste nel fatto di aver egli rivolto parole di speranza ai singoli
mafiosi, pur condannando la mafia in quanto potere criminale: «Don Pino Puglisi
fu il primo sacerdote a rivolgere parole di speranza agli uomini della mafia di
Brancaccio. Fino ad allora, la Chiesa aveva solo condannato i boss, così come
aveva fatto ogni altra istituzioni civile. Anche Puglisi continuava ad avere parole
di fuoco per la mafia-struttura di peccato, ma aveva parole dolcissime nei
confronti degli uomini del crimine. Quelle parole avevano già aperto il cuore
di qualcuno a Brancaccio. Quelle parole stavano per causare una voragine dentro
l’organizzazione criminale. […] Misericordia, perdono, accoglienza, amore. Le
parole che hanno fatto paura alla mafia, che le hanno fatto temere che il suo
regno di morte potesse vacillare. E che dicono del significato più profondo del
martirio di Giuseppe Puglisi» (Palazzolo, pp. 184-5). In questo quadro si
inserisce la sua lettera ai carcerati dell’Ucciardone, il suo andare nelle case
dei mafiosi a parlare con le mogli e i figli.
4. Dopo la morte
È significativo il fatto che dopo il
suo assassinio si sia operato il tentativo, in seno alla Chiesa, di depotenziare
la sua morte da “martirio cristiano” a “vittima di mafia” col conseguente
tentativo di procedere alla canonizzazione per le sole virtù teologali. Ecco
perché il modo in cui è effettivamente avvenuta la sua canonizzazione è un
“gesto di immane portata”, in quanto riconoscendolo come martire ucciso in odium fidei, e cioè in quanto
cristiano, si vuole implicitamente affermare che non è possibile essere
autenticamente cristiani senza testimoniarlo in concreto, anche nella lotta
contro la mafia; significa affermare che «egli ha combattuto il dominio mafioso
non solo da cittadino, ma in quanto
cristiano e in quanto prete; possiamo
asserire con ragionevole certezza che i mafiosi – più o meno consapevolmente –
hanno ucciso don Puglisi, dunque, non nonostante
o a prescindere da il suo esser
prete, ma proprio perché tale. Egli
ha smascherato una religione senza fede, un cristianesimo senza vangelo, un
devozionismo sentimentale senza né giustizia né amore: ha strappato la maschera
al Dio dei mafiosi, lasciandone denudare il volto di Tiranno crudele, Giudice
impietoso, Padrino arbitrario. […] Se don Pino Puglisi è davvero martire della
fede, allora nessun altro fedele – tanto meno se prete o religioso consacrato –
può più legittimamente circoscrivere la sua testimonianza e il suo apostolato
all’interno del tempio di pietra, restando indifferente alla povertà, alle
ingiustizie, agli stupri, agli sfruttamenti, alle intimidazioni che si perpetrano
nel proprio ambiente di vita […] Nessun cristiano può illudersi di dirsi tale
facendo il prete o il magistrato, il giornalista o la guardia penitenziaria in
maniera “normale”. […] Viceversa, se qualcuno mi odia e mi uccide perché la mia
vita è, quasi in prolungamento con l’esistenza terrena del Cristo, servizio
senza servilismo; fedeltà ai compiti e libertà dai committenti; difesa della
dignità dei piccoli e delle donne; impegno per il riscatto di chi non ha le
risorse per sollevarsi dalla miseria morale e materiale... allora io sono non
soltanto un testimone dei valori umani più preziosi, ma – oggettivamente –
anche un martire della fede nel vangelo» (Cavadi, pp. 81-5). È questo un
passaggio, un riconoscimento che non può non mettere a disagio le coscienze di
molti cristiani, che nella religione “municipale” o nelle pratiche devozionali
ritengono esaurita la propria identità.
Manca ancora un passo, a nostro avviso: quello della scomunica
dei mafiosi. Eppure in merito Cavadi afferma di voler rispondere come suppone avrebbe
risposto Puglisi: «[…] non si tratta di scacciare i mafiosi dalle comunità
cattoliche, bensì di rendere le comunità cattoliche talmente cristiane che i
mafiosi non vogliano minimamente farne parte» (p. 92). Pur riconoscendo la
validità di questa posizione, riteniamo però che qui
il problema è non la partecipazione dei mafiosi alle comunità cattoliche – di
certo i mafiosi non le frequentano in quanto tali, ma camuffandosi da fedeli,
quali in effetti sono, e persino in buona fede – ma di stabilire un principio
morale, anche di fronte alla società civile nel suo complesso: non si può esser
mafiosi e al tempo stesso cristiani, così dissolvendo l’equivoco che per essere
cristiani basta praticare le funzioni, esercitare la confessione e pentirsi,
salvo poi a ritornare a fare quello che prima si faceva e così ripetere il
ciclo. Insomma, occorre recidere del tutto i legami con quella “religione
municipale”, con quella mentalità alla don Mariano Arena che ancora perdura in
certi ambienti ecclesiali. La scomunica starebbe a significare interrompere
tale circolo vizioso, dire che non si può esser mafiosi e poi accostarsi ai
sacramenti, come se nulla fosse stato; significa non solo non essere accolto
nelle comunità cattoliche, o in parrocchia, ma essere escluso del tutto dalla
comunità cristiana, non potersi sposare in chiesa, non ricevere benedizioni,
battesimi o cose di questo genere: e a tutto ciò il mafioso – che è quasi
sempre un autentico credente – è sensibile, perché lo esporrebbe alla pubblica
visibilità, alla dichiarazione esplicita del proprio stato. Si tratta di sottoporlo
a una tensione, a una scelta tra due opzioni tra le quali deve decidere, senza
la possibilità di mettere il piede in due scarpe. Ma questo necessita di quel
cristianesimo “eroico” cui avevamo prima accennato. Sarà la Chiesa capace di
fare questo ulteriore passo, portando con sé la gran massa dei fedeli, senza
perderli per strada? È la sfida che ha posto don Puglisi e sta in ciò la
validità del suo esempio e il perché valga la pena discuterne.