“Confronti”
Luglio – agosto 2014
L’INFELICITA’ PORTA
ALLA CORRUZIONE ?
I nostalgici del ventennio fascista, che addebitano alla democrazia
costituzionale le cause dei mali attuali, ignorano - o fanno finta di ignorare – che prevaricazioni e ruberie avvengono anche, e soprattutto,
quando alla stampa e a gli altri mezzi di comunicazione sociale è vietata ogni
forma di denunzia. Né si stava
meglio nei secoli precedenti: per quanto indietro si vada, incontriamo le
arringhe di Cicerone contro Verre, l’urlo sarcastico di Virgilio contro la “esecranda
fame di denaro” sino alle condanne dei profeti biblici contro i giudici che si
vendono senza ritegno a danno dei
diritti degli orfani e delle vedove. Insomma: la corruzione, e la
rispettiva concussione, non sono un fenomeno recente.
Questo dato, tanto certo quanto spesso
dimenticato, può essere utile a chi cerchi facili, e fallaci, consolazioni al
cospetto delle cronache recenti che, secondo un magistrato veneto, registrano
sistemi corruttivi molto peggiori di Tangentopoli; ma può, al contrario, indirizzare chi voglia affrontare la
questione con la dovuta radicalità. La diffusione nello spazio e la persistenza
nel tempo della corruzione dovrebbero sollecitare tutte le opportune revisioni
legislative, a cominciare dall’obbligo
- per chiunque rivesta incariche di responsabilità nelle istituzioni –
di sottoporsi a un’incondizionata trasparenza bancaria (sia in entrata che in
uscita); ma, anche, ad andare un po’ più a fondo rispetto al piano normativo e
giudiziario. E’ difficile, infatti, sostenere che si possa tessere una trama
così perfezionata di regole, di divieti e di controlli da rendere impossibile
la trasgressione. La garanzia della legalità affonda le radici nel terreno
dell’etica. Se l’unica ragione di non delinquere è la paura della sanzione, prima o poi il calcolo degli interessi
finirà col convincermi – talora a torto, talaltra a ragione – che il gioco (il
profitto illecito ) vale la candela (disattendere la norma).
Nell’era della globalizzazione, della
multiculturalità e del meticciato, non è ipotizzabile (ammesso che lo sia stato
in epoche anteriori) la condivisione unanime di princìpi etici: eppure un
grappolo di criteri, per quanto ridotto, è irrinunziabile. Ogni Paese ha il
diritto, e prima ancora il dovere, di fissare i propri: l’Italia lo ha fatto
con i primi tredici articoli della sua Costituzione nel 1948. Che cattolici e
radicali, islamici e socialisti, conservatori e buddhisti, protestanti e atei
abbiano le stesse ragioni per giustificare tali princìpi etici non è né
prevedibile né (probabilmente) auspicabile. A questo livello fondativo il
pluralismo culturale non può che essere massimo. Ma la molteplicità delle modalità di
argomentare la dignità delle persone, la lealtà nelle relazioni, la correttezza
nell’espletamento delle proprie funzioni sociali, la sobrietà allegra nell’uso
del denaro…non può significare, come mi pare stia avvenendo dal craxismo degli anni Ottanta a oggi,
rinunzia a qualsiasi argomentazione. Ogni cittadino, ogni famiglia, ogni
chiesa, ogni associazione, ogni movimento deve darsi una risposta – per quanto
consapevole possibile – alla domanda cruciale: perché non rubare? Perché
anteporre il bene pubblico all’interesse privato? L’etica protestante offrirà
motivazioni diverse rispetto a un’etica naturalistica così come diverse saranno
le motivazioni di un partito di ispirazione liberale rispetto a un sindacato di
ispirazione socialista: ma nessuno può ancora esonerarsi dal ricercare le
proprie.
In questa ricerca delle ragioni radicali per non asservirsi al denaro, e
per non asservire col denaro, più di un sentiero potrebbe ricondurre a
un’intuizione comune a molte saggezze: Kierkegaard l’espresse affermando che
non si è angosciati perché si pecca, ma si pecca perché si è angosciati. In
termini laici tradurrei: non si è infelici perché si corrompe, e ci lascia
corrompere, ma si sguazza nella corruzione perché si è infelici. Se la diagnosi
fosse almeno parzialmente corretta, la terapia si delineerebbe spontaneamente:
ricercare qualche briciola di felicità. Riscoprire la gioia dell’amicizia
sincera, il piacere della sessualità condivisa, la beatitudine di chi sa
contemplare un tramonto o chinarsi sulle piaghe di un malato abbandonato.
Riscoprire il senso interiore di fervida pienezza che può dare un’esistenza
politica a servizio del benessere comune, al punto da ritenere non un’aggiunta
integrativa bensì una perdita inquinante ogni euro sottratto con l’inganno ai
diritti dei propri simili, soprattutto dei più indigenti.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
4 commenti:
Ottime riflessioni, sulla scia delle riflessioni teologiche di Eugene Drewermann, che ho conosciuto e apprezzato grazie alla tua segnalazione.
Maria
Questo "editoriale" è stato citato e ripreso nell'edizione di mercoledì 9 luglio dalla trasmissione Pagina 3 di Rai 3.
Caro Augusto, sapevo che avrebbero fatto la recensione del numero ma non cosa avrebbero scelto. L'ho sentita e hanno fatto un buon lavoro. Grazie di cuore per il tuo bel l'editoriale!!!
Il giornalista radio "Rai" si chiama Vittorio Giacopini ...
Ti abbraccio forte forte !!
Gian Mario Gillio
https://www.facebook.com/rivoluzionarelesanzioni
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