venerdì 20 giugno 2014

La pedagogia di Rousseau secondo Giovanni Di Benedetto


“Centonove” 20.6.2014

LA DIFFICILE ARTE DI EDUCARE


   Dopo due o tre secoli gli scritti di uno scienziato conservano solo un valore storiografico ma hanno poco o nulla da dire ai posteri: l’evoluzione della ricerca scientifica li rende obsoleti. Non così per filosofi, letterati, artisti, poeti: restano contemporanei di chiunque li legga, dopo pochi anni o dopo millenni. Se qualcuno ne dubitasse potrebbe aprire la bella monografia (Un’arte che si impara. Educazione e politica nell’Emilio di Rousseau, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2014) che Giovanni Di Benedetto ha dedicato ad una delle arti più difficili: l’educazione di ogni nuova generazione. E lo ha fatto prendendo spunto, con fedeltà al testo originario ma non in maniera pedissequa, da quel romanzo semplice da leggere e rivoluzionario nei contenuti  - Emilio – che J. J. Rousseau ha pubblicato nel 1762 e che ha dato una svolta epocale alla storia della pedagogia teorica e praticata.
    Il pensatore ginevrino, certamente non scevro da contraddizioni nel corso delle sue riflessioni e soprattutto nella sua vicenda esistenziale, è però consapevole di non avere ricette infallibili: “Nella misura in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poiché l’armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno”. Un secolo e mezzo dopo Freud gli farà eco rispondendo alle richieste di consigli da parte di una madre: “Non si preoccupi, signora. Si comporti, piuttosto, spontaneamente: tanto, qualsiasi atteggiamento assumerà, sarà senz’altro sbagliato”.
    Pur nell’incertezza di base, alcuni punti fermi si possono comunque individuare. E Di Benedetto, genitore e insegnante, li rintraccia con acume nelle pagine di Rousseau: evitare “la logica del comando, della forza e dell’obbedienza” che provoca, quando ci riesce, un assenso ipocrita; scartare il nozionismo e sollecitare il pensiero autonomo; convincersi che nel processo educativo bisogna imparare a “perdere tempo” piuttosto che a cercare e a imporre accelerazioni illusorie e alla fine dannose; mirare, al di là della mera istruzione, all’arte di vivere da parte dell’allievo…
    Se alcune di queste indicazioni sono entrare nella mentalità comune (anche se non altrettanto nella pratica educativa quotidiana), altre stentano molto ad essere comprese e condivise. E invece, anche nell’ottica di Di Benedetto, sono rilevanti in sé e di bruciante attualità. Mi riferisco, soprattutto, all’idea che “educazione e politica sarebbero parti complementari di un unico insieme”: sia nel senso che il sistema educativo è condizionato dal sistema socio-politico sia nel senso che, a sua volta, può condizionare le trasformazioni delle istituzioni e delle pratiche politiche. Quanto avrebbero da imparare gli insegnanti – e in generale gli educatori – odierni che oscillano fra il silenzio pudico sulle tematiche politiche e gli interventi inopportunamente propagandistici! Che la politica debba restare fuori dalle scuole, dalle parrocchie, dalle associazioni apartitiche è inoppugnabile se per politica intendiamo competizione elettorale a colpi di slogan e di pettegolezzi; ma se intendiamo informazione critica sulle diverse proposte ideologiche e programmatiche avanzate dagli schieramenti presenti nel Paese e nel parlamento, la politica  - in quanto cultura politica – non può continuare a restare fuori dalle aule se non si vuole affossare del tutto quel poco di democrazia che ci rimane nell’era della teledipendenza.
    Tra i valori socio-politici che, secondo Rousseau, andrebbero indicati ai giovani come primari e irrinunciabili, l’uguaglianza effettiva dei cittadini; l’amore per la società (inteso come capacità di immedesimarsi nelle gioie e soprattutto nelle pene altrui); il disprezzo dei corrotti e dei parassiti (“Colui che mangia nell’ozio il pane che non ha guadagnato da sé; e il titolare di rendite, pagato dallo Stato per non far niente, non differisce affatto ai miei occhi dal brigante che vive a spese dei viandanti”); la libertà non “dai”  legami sociali , ma “di” costruire relazioni eque in un contesto istituzionale orientato al primato del bene comune rispetto all’interesse privato.
     Ci si potrebbe chiedere come mai, dopo più di due secoli, delle indicazioni così limpide da apparire evidenti non abbiano dato i frutti sperati. Ma la risposta è tanto semplice da risultare disarmante: questo genere di insegnamenti incidono solo se testimoniati con la vita prima che proclamati dalle cattedre.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

2 commenti:

Giovanni Di Benedetto ha detto...

Caro Augusto,
ti ringrazio per le belle parole che hai dedicato alla mia ultima fatica. Trovo che esprimono in modo davvero profondo il senso della mia ricerca. Ancora grazie.
Cari saluti
Giovanni

Giovanni Miraglia ha detto...

Bellissima recensione, caro Augusto! Ne condivido (con entusiasmo e tristezza allo stesso tempo) ogni parola!
Un cordialissimo saluto da Catania :-)
Giovanni