Queste pagine sono particolarmente dedicate ai partecipanti alla Festa della filosofia d'a-Mare che si è svolta a Favignana dal 2 al 4 maggio 2014.
“Tuttavia.it”
12.6.2014
L’universo
ha un creatore provvidente o è una fucina autogena di vita ? E – di conseguenza – l’essere umano è
il punto di arrivo di un progetto intelligente o piuttosto uno degli
innumerevoli prodotti casualmente emersi a un certo punto dell’evoluzione? E –
infine - la morte per il soggetto
individuale costituisce un
passaggio verso la vita piena o, al contrario, la dissoluzione senza ritorno?
Orlando Franceschelli, filosofo romano già noto per i suoi testi dedicati a
Karl Loewith e a Charles Darwin, nella sua ultima opera (Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza
della filosofia, Donzelli, Roma 2014) espone, in forma quasi sistematica,
le proprie risposte a tali ineludibili questioni.
L’opzione metodologica è il “criterio epistemologico della
plausibilità”(p. 4): una teoria filosofica può “legittimamente pretendere” di essere riconosciuta come
plausibile se “soddisfa il duplice requisito della compatibilità con la scienza e della validità
argomentativa” (p. 14). Tale prospettiva
“sollecita non solo a praticare scrupolosamente il principio di carità
interpretativo”, ma anche “la disponibilità a rivedere le proprie tesi” (ivi).
Tra le teorie filosofiche che rispettano il criterio della plausibilità
l’autore rivendica un posto per il “naturalismo (e ateismo) metodologico” (p.
18): spiegare gli eventi naturali iuxta
propria principia, senza far ricorso a “entità e fattori soprannaturali”
(pp. 20 – 21). Seguendo questa direttiva metodologica si arriva ad una visione del cosmo caratterizzato da
“autarchia ontologica, contingenza evolutiva e sovrumanità della realtà fisica”
(p. 22). Coerente con questa cosmologia risulta l’antropologia: l’uomo non più capax Dei bensì capax naturae (cfr. pp. 27 – 31). “L’antropologia dell’ecoappartenenza” implica, tra altre caratteristiche, “la
consapevolezza che l’uomo e la sua storia non costituiscono il fine dell’esistenza e dei processi
evolutivi della natura, il cui accadimento si protrarrà – con le stesse
sterminate vicissitudini temporali di quando ancora non c’eravamo – anche dopo
che noi non ci saremo più. Con ogni probabilità neppure come specie e
certamente come individui destinati a morire” (pp. 71 – 72).
Una concezione del cosmo e
dell’uomo di tal genere esclude qualsiasi ipotesi di felicità? Franceschelli lo
nega con fermezza e, a riprova, delinea una vera e propria “etica
dell’ecoappartenenza” (p. 73) incentrata sull’impegno a “ricercare, definire e vivere una
felicità che effettivamente sappia
alimentarsi, per quanto ci è possibile, di piacere, saggezza e virtù. E perciò
sappia essere anche concretamente solidale” (p. 139). Un impegno che si lascia
riassumere nella Regola Aurea che
l’autore propone di riformulare così: “fai per la fioritura della felicità
degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la
fioritura della tua felicità” (p. 154). Nonché di estendere “i diritti al
benessere e alla felicità anche agli altri animali non umani ma senzienti, in
sintonia con prospettive morali non più antropocentriche e speciste ma
sensiocentriche” (ivi).
La “saggezza della felicità
possibile e solidale” non esclude “la conspevolezza e la memoria della
sofferenza o memoria passionis, per
dirlo con questa pregnante nozione
usata dai teologi quando opportunamente invitano a far rientrare anche <<l’autorità dei
sofferenti>> tra le voci dell’odierno pluralismo. Si tratta appunto non
di una contrapposizione ma di un legame, nel senso che continuare ad aspirare
alla felicità anche quando si prova sofferenza e ad essere consapevoli e memori
di ogni sofferenza anche mentre si è felici, consente di vivere tutta la
propria felicità in un modo ancora più sereno, gradevole e autentico” (p.
156).
***
Come tutti i libri meditati a lungo, e altrettanto a lungo sperimentati
esistenzialmente, questo di Orlando Franceschelli suscita miriadi di
riflessioni e di domande.
La prima non può non riguardare l’impianto epistemologico: se una teoria
(nel nostro caso il naturalismo) risulta “plausibile”, significa che si affianca ad altre possibili teorie
altrettanto plausibili o che le esclude? Nel testo mi pare di cogliere in
proposito una certa oscillazione: talora sembrerebbe che l’autore chieda
“soltanto” diritto di cittadinanza alla propria prospettiva al pari del creazionismo monoteistico,
talaltra che neghi tale par condicio
al creazionismo monoteistico. Forse l’apparente contraddizione si scioglie
ammettendo che, in linea di principio, ci potrebbero essere per l’autore anche
altre teorie plausibili sul mondo e sull’uomo; ma che in linea di fatto il
creazionismo monoteistico non rientri fra queste altre possibili teorie
plausibili.
Questa ipotesi interpretativa suggerisce ai pensatori creazionisti una seria
revisione della propria proposta teoretica. Questi ultimi, infatti, tendono
quasi sempre a suffragare la propria tesi della dipendenza ontologica, radicale
costante, del mondo da Dio sulla base della Bibbia (tradotta, magari, in
linguaggio tecnicamente filosofico). Ma è un procedimento due volte fragile.
Prima di tutto perché, in sede esegetica, si è appurato che la Bibbia non
propone una creatio ex nihilo bensì
una sorta di plasmazione della materia caotica originaria con cui Dio stesso
per così dire si affatica. Secondariamente perché, ammesso e non concesso che
la Bibbia professasse la creatio ex
nihilo, una professione di
fede non possiede nessuna plausibilità (nel doppio senso illustrato da
Franceschelli: compatibilità con le acquisizioni scientifiche e rigore
logico-argomentativo). Conclusione sul tema: il monoteismo creazionistico non
va presentato come un dato di fede, ma come una delle teorie filosofiche
elaborate nell’alveo della tradizione cristiana (indubbiamente suggestionata da
intuizioni poetiche contenute nei Testi canonici), la cui attendibilità è
affidata esclusivamente alla sua
“plausibilità”. Al punto che si potrebbe essere cristiani (o ebrei o musulmani)
pur non condividendo il monoteismo creazionistico e si potrebbe condividere il
monoteismo creazionistico senza essere cristiani (o ebrei o musulmani).
Chiarisco questo aspetto metodologico non per risolvere la questione che pone
Franceschelli (la natura o è autarchica ontologicamente o non è natura: la
nozione di “natura creata” è una contradictio
in adiectis), ma per indicare il piano corretto (a mio avviso) su cui
discuterla.
Se sul piano teoretico Franceschelli non
appare per nulla morbido con i credenti cristiani, molto più conciliante si
mostra sul piano etico. Egli infatti dedica un intero paragrafo (pp. 48 – 53) a
una sorta di alleanza pratica con i discepoli del vangelo (che, per via
dell’equivoco appena segnalato e di cui il pensiero cristiano è il primo
responsabile, Franceschelli identifica tout
court con i sostenitori del “teorema-creazione”): “Provare a dirsi il meglio tra simili del samaritano: per una laica e
solidale civiltà del dialogo” (p. 48). Da una parte, dunque, l’autore
sollecita i “naturalisti” come lui “a un compito propositivo che per essere
realmente assolto ha bisogno non tanto di militanza anti-teista, ma del
conforto di evidenze empiriche, di
argomenti validi, di condotte pratiche che sobriamente comunichino la
plausibilità e la saggezza del naturalismo anche a chi naturalista non è”;
dall’altra, poi, chiede ai credenti “un analogo atteggiamento di costruttiva
laicità che l’odierno pluralismo richiede anche a ogni testimonianza di fede
realmente adulta, ossia impegnata anch’essa a ceracre ragioni plausibili al
proprio credere” (p. 50).
A margine di questa proposta di alleanza sinergica mi limito a due sole
osservazioni. Franceschelli avrebbe potuto essere sia più esigente che più
riconoscente con gli interlocutori cristiani. Più esigente su un tallone d’Achille dell’etica cristiana:
l’insensibilità verso gli altri viventi (dal momento che l’antropocentrismo
biblico coniugato con l’umanesimo greco ha finito col privilegiare “le capacità
razionali e discorsive” dimenticando “quelle di provare dolore e piacere,
innegabilmente possedute anche dagli animali non umani ma appunto senzienti”
(p. 154). Più riconoscente riguardo alla testimonianza storica del mondo cristiano sul versante della
solidarietà sociale. Infatti, a mio avviso, se è vero che - sulla carta – naturalisti e credenti
nel vangelo concordano “nell’ammonimento della Regola Aurea a fare agli altri
ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi stessi” (p. 49), in concreto la saggezza
naturale induce i filosofi a porre dei limiti abbastanza netti alla propria
autodonazione oblativa. Non perché non vogliono fare agli altri ciò che
vorrebbe fosse fatto a loro; solo che non si aspettano che qualcuno - dopo averli filantropicamente
sostenuti in varie necessità – sia perfino disposto a dare la vita per loro. Tra
i tanti che hanno notato questo surplus
motivazionale dei credenti sugli altri un intellettuale, come Paolo Flores
D’Arcais, che non eccede in
indulgenza con le chiese cristiane: “praticare la solidarietà effettiva e il
primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’eguale dignità non resti
retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio padre). […].
La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità” (P. Flores
D’Arcais, Dio esiste?, “Micromega”,
2/2000, p. 40).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
3 commenti:
Caro Augusto,
come ben sappiamo la nostra ricerca-dialogo -per fortuna!- non avrà mai fine. E non mancheranno certo altri momenti più distesi di ulteriore discussione
anche dei puntuali problemi che tu affronti in questa recensione.
Ma volevo intanto subito ringraziarti. E in particolare per il rilievo che hai dato al "provare a dirsi il meglio": la "gara" a essere quanto più possibile solidali
mi interessa non meno della ricerca di risposte sempre più plausibili alle grandi domande filosofiche. Anzi: ne costituisce uno snodo cruciale. E, con le mie modeste forze, mai eluso.
Ancora un grazie e un caro abbraccio,
Orlando
Carissimo Augusto,
spero di riuscire a leggere il testo originale, ma la tua recensione-commento è insieme così sobria e chiara che quasi non se ne avverte l'esigenza.
Grazie, abbracci.
Salvo Geraci
Oggi ho terminato la monografia di Karl Karl Löwith «Le sfide della modernità tra Dio e nulla» di Orlando. Davvero valorosa e proficua. Credo di non sbagliarmi nello scorgere tra le righe del vostro dialogare - pur nel parziale differenziarsi di Augusto da Löwith, un comune debito a lui riconoscente.
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