giovedì 3 aprile 2014

Tra lotta per l'immediato e disimpegno, tertium datur?

Dal periodico online :  www.tuttavia.eu 

Stampa
quarto_stato.jpg


di Augusto Cavadi

Chi accetta come impianto fondamentale del pianeta la logica capitalistica , con i suoi tanti pregi e tantissimi difetti, non può che gioire di quanto stia avvenendo in Italia: una politica cripto-ideologica (che si spaccia, talora persino sinceramente, per  post-ideologica) emblemizzata dal  volto ‘umano’ di Matteo Renzi, nella quale convergono gli interessi di quei due terzi di italiani – indifferentemente elettori di centrodestra e di centrosinistra - che dalla crisi economica o hanno tratto danni sopportabili o addirittura qualche vantaggio.
Chi ritiene che la logica capitalistica, forse necessaria per superare la fase dell’indigenza diffusa e della precarietà incombente  - tipiche delle economie agrarie – , sia oggi certamente letale per una globalizzazione dei diritti e del benessere, che può fare?
Sul piano tattico non ci si può concedere il lusso di lasciare nulla di intentato. Ogni volta che, a livello nazionale o europeo, qualche lista prova a rappresentare le ragioni dell’equità sociale, della tutela delle minoranze, dell’accoglienza dei migranti, del disarmo progressivo, della parità di opportunità per ogni genere … come rifiutare il proprio sostegno (una firma, un contributo finanziario, un voto nel segreto dell’urna)?  Se, però, non si vuole andare incontro a delusioni altamente probabili, occorre offrire tale sostegno senza la minima illusione di successo. Per molti anni ancora le battaglie contro la logica capitalistica - così diffusa in Italia, in Europa, nel mondo Nord-occidentale – sono destinate alla sconfitta. 

Ciò non significa rinunziare a combattere la guerra: anzi, è un motivo in più per impegnarvisi. Fuor di metafora, si tratta di giocare sul piano tattico sapendo, però, che la partita si decide sul piano strategico. Sui tempi lunghi e, soprattutto, nella struttura cerebrale e nervosa di un organismo vivente di cui cogliamo soltanto i movimenti fenomenici, epidermici. E’ dal 1968 che  - borghese d’estrazione familiare – ho guardato con sospetto ogni invito alla pazienza, ai progetti di palingenesi radicale: non è che mi viene facile accogliere le prospettive di lungo periodo  - mi sono ripetuto innumerevoli volte - perché intanto ho il necessario per vivere e per studiare e per pensare? Non è che se fossi fra gli sfruttati della  Terra mi verrebbe spontaneo aderire a prospettive più immediatamente rivoluzionarie?
In questo travaglio interiore qualche luce mi è arrivata da persone che  - a differenza di me – non hanno esitato sin da giovani ad abbracciare il marxismo ideologicamente e a militare, almeno sino a un certo momento della vita, nel Partito comunista. Infatti, anche persone non solo più acute di me, ma anche più disposte a rompere gli indugi e a schierarsi in organizzazioni politiche inequivoche, a un certo punto della loro vicenda si sono accorte dei limiti dell’azione immediata. Dell’azione in quanto funzionale a risultati immediati, non in quanto ispirata dal marxismo-leninismo e condizionata dall’egemonia sovietica.
Dopo l’invasione dell’Ungheria da parte delle Forze armate sovietiche, Italo Calvino  - insieme a molti altri dirigenti e attivisti del PCI -  decide di strappare la tessera: troppo cocente la delusione provocata dal vertice del partito che, invece di condannare apertamente l’invasione, fa le capriole per giustificarla. Calvino si sposta su posizioni socialiste più democratiche, ma – qui mi interessa sottolineare piuttosto quest’altro aspetto -  dichiarerà più tardi: “Quelle vicende mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio molto più piccolo di prima. Non l’ho più ritenuta, da allora, un’attività totalizzante e ne ho diffidato. Penso oggi che la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta, e penso che spesso la politica compia operazioni abusive e mistificanti” (Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze, “Repubblica”, 13.12.1980).
“Penso oggi che la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta”: ecco il passaggio che vorrei evidenziare. Perché c’è un modo qualunquista di subire le prepotenze del ceto politico ed è gettare la spugna e ritirarsi nel privato; ma ce n’è uno strategico che consiste nel bypassare la sfera della politica istituzionale per agire, con più incisività,  nelle sue radici sociali.
Questo impegno per mutare i paradigmi culturali della società, per scardinare luoghi comuni e invertire gerarchie di valori ossificate, per  fondare micro-comunità profetiche dove si possano sperimentare modi altri di vivere al mondo non è, necessariamente, alternativo alle manovre elettorali e alle negoziazioni con i governi: scorre, infatti, su un piano più basilare , ma parallelo. E’ il piano in cui le agenzie educative (scuola e università, associazionismo, chiese e altre comunità di impronta teologico-religiosa, sindacati, centri sociali, mezzi di comunicazione sociale, uomini e donne dotate di creatività intellettuale e artistica…) avrebbero da giocare il loro ruolo insostituibile. Una delle speranze suscitate dal pontificato di papa Bergoglio consiste proprio nello slittamento dell’azione pastorale dal piano delle tattiche parlamentari al piano strategico  della trasformazione mentale e pratica di vescovi, clero e fedeli-laici.
Né questa attenzione al pre-partitico, al pre-istituzionale, va inteso necessariamente come opzione a favore del moderatismo: nel gesto dell’artigiano che rilascia una ricevuta veritiera; o di un professionista che non vende la coscienza per accelerare la carriera; o di un amministratore che denunzia pubblicamente un’intimidazione mafiosa…può celarsi una carica rivoluzionaria più dirompente di molti comizi in piazza, di molte vetrine spaccate.
Forse, anche nel 2014, si potrebbe ripetere un passo della risposta che proprio quarant’anni fa Italo Calvino dette a un’inchiesta: “Credo giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione, e che proprio questa gravità richieda spirito analitico, senso della realtà, responsabilità delle conseguenze di ogni azione parola pensiero, doti insomma non estremiste per definizione” ( “Nuovi Argomenti” , numero 31, gennaio – febbraio 1974).

1 commento:

Bruno Vergani ha detto...

In piena sintonia con l’articolo consideravo, in prospettiva introspettiva, quanto il “lungo periodo” che separa dalla meta possa procurare insoddisfazione e angoscia personale. Utile per circoscriverla il “bypassare la sfera della politica istituzionale” nel suo imperversare massmediatico, dove l’ultima dichiarazione di un sottosegretario viene proposta, petulante e gonfiata, come cruciale per lo spettatore, quando invece vale, di fatto, lo 0,005 per cento e anche meno fino allo zero. Invertire gerarchie di valori è anche questo.